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La bellezza (o il canto de Le rane) salverà il mondo

La bellezza (o il canto de Le rane) salverà il mondo
Fermata Spettacolo

Che dire, ogni Volta Che Vedo Le rane del gran vecchio, aristocratico ed arcigno, Aristofane, forse il capolavoro suo più grande, così evidentemente scisso nelle due parti che compongono il benedetto testo, la prima immaginario viaggio in fondo all’Inferi del dio Dioniso e del suo servo Xantia alla ricerca d’un poeta che salvi la patria, la seconda tutta invece fondata su una sorta di estetica politica utile al tempo dell’Autore, fruttuosissima per noi contemporanei, ogni volta che vedo Le rane, dicevo, fin dai tempi del liceo, non posso guardarne la prima parte senza impedire che mi venga in mente un altro immaginario viaggio che per me si colora dell’insinuante, evanescente, emotivo sapore del ricordo.

Così, pure stavolta, mentre ieri sera guardavo quest’ultimo allestimento dell’annosa commedia, messo in scena al Teatro San Ferdinando di Napoli per la regia di Giorgio Barberio Corsetti, presentata l’anno scorso al Teatro Greco di Siracusa, non ho potuto fare a meno di ricordare qualcosa visto da bambino e poi ripetuto più volte nel tempo, la Cantata dei pastori, popolare e popolano ricordo del viaggio di Maria e Giuseppe verso Betlemme e del parallelo, in particolare il parallelo plebeo percorso dello scrivano Razzullo e del barbiere Sarchiapone tra spiriti iniziati e diavolacci, ostesse e camerieri, bastoni e padelle, vino e tarallucci, villana versione di Lestrigoni e Sirene, Ciclopi e Meduse che costellano il viaggio di dei, eroi ed uomini nella vita. In fondo, non è così improbabile – anzi, è il contrario – che Andrea Perrucci conoscesse il testo de Le rane e se ne sia servito come base di partenza, tra epica e divertissement, carne e spirito, per metter su il suo teatro religioso.

Perché poi, a ben pensarci, il vecchiaccio aveva già inventato tutto: il padrone altezzoso e idealista, schizoide e astenico, e il suo servo furbo e sfaticato, picnico e ciclotimico, costituiscono da allora, più che uno stereotipo, l’archetipo degno e persuasivo della solidarietà umoristica infinitamente riproposto, come un multiplo riprodursi sempre diverso ed identico, in letteratura alta e bassa, da don Chisciotte e Sancho Panza a Totò e Peppino, da Pantalone ed Arlecchino a Franco e Ciccio, giù giù nel tempo fino a Ficarra e Picone, imprestati alla scena classica da quella televisiva, con risultati, in fondo, non disprezzabili.

In un periodo di cambiamenti, inquietudini e incertezze, di instabilità politica, di dubbi sulla democrazia e sulla sua capacità di assicurare, in uno, partecipazione dei cittadini, solidità e continuità delle scelte politiche, rettitudine dei governanti, trasparenza e condivisione delle opzioni civili e sociali, Aristofane scrisse Le rane come segno di contraddizione, abbandonando la feroce ed esplicita satira politica per un apparente disimpegno, un’ideale immersione nel mondo delle favole, mandando Dioniso a cercare nell’Ade, con lo sguardo rivolto ad un glorioso passato, Euripide – morto da appena un anno – che, dicono, avrebbe potuto, con un ampio gesto di prestidigitazione, come si trattasse di stupefacente magia, ridonare alla città valori e decoro. Succede, in fondo, in tempi di difficoltà, quando sembra che il presente non offra abbastanza, commetter la follia di riandare indietro nel tempo, guardare speranzosi ad un passato supposto migliore, a cercar motivi di (ri)fondazione della coscienza civile di una città, di un nazione, di un popolo.

In realtà Aristofane – e come dargli torto – la pensava diversamente, Aristofane parlava, a chi sa intenderlo, di politica, Aristofane faceva politica in modo diretto, nell’unico modo in cui il suo teatro sapeva e poteva e sapeva di poter fare, offrendo cioè allo spettatore uno strumento di straniamento, analizzando il mondo “in maniera che divenga maneggevole”, piuttosto che ricorrere all’immedesimazione e alla catarsi. In questo senso la discesa agli inferi – mai mondo dell’aldilà è stato descritto così simile a quello dei vivi – sa restituirci un più nitido e terso sguardo sul mondo, i suoi innegabili vizi, le sue non scontate virtù, scevro d’ogni gravame e inutile fardello.

Piuttosto che “attualizzare” in qualche modo il testo, grazie alla nuova traduzione di Olimpia Imperio, e ce ne sarebbe stato modo e verso di farlo, l’idea di Barberio Corsetti è stata invece quella di puntare sulla contaminazione di genere, di rileggere il testo, e il testo integro, con obliquo sguardo, continuamente ammiccante, sia nella prima parte, in cui abbondano elementi di comicità “straniata”, costituendo Aristofane, per dirla con Luciano Canfora, uno degli “avamposti mentali” di Bertold Brecht, sia nella più complessa seconda parte, in cui l’occhio visionario del regista ha maggior modo di dar fondo al proprio ricco potenziale.

Così alcune sequenze vengono “riprese” da un solerte filmmaker (le riprese video sono di Igor Renzetti) che compare in scena col suo treppiedi e immediatamente inviate ad uno schermo che provvidamente, cinematograficamente, ostentatamente, scende dall’alto per “far cinema” in contemporanea al teatro, consentendo allo sguardo dello spettatore entrambe le opportunità, offrendogli, oltre alla possibilità che già possiede, grazie al dispiegarsi pieno dell’intero “paesaggio” teatrale, anche l’inquadratura (che è lo sguardo e la scelta e il vissuto del regista), il primo piano, la sequenza.

Così, ancora, certo modo di vestirsi e di muoversi dei personaggi è francamente fumettistico, si guardi all’abbigliamento di Dioniso/Ficarra nella prima parte (i costumi sono firmati da Francesco Esposito), apparentemente bizzarro perché altro non è che il risultato di una sintesi cartoonistica di certe caratteristiche del dio in quel momento, con l’uso contemporaneo della veste muliebre (o della sua stilizzazione) al di sopra dei pantaloni, dalle babbucce che ne suggeriscono l’origine orientale, a quella che dovrebbe essere la testa e la criniera del leone di Nemea, indossata come copricapo infatti anche da Eracle, da cui si reca per prender consiglio prima di scender all’Ade ed emulare quindi la sua impresa; si guardi pure a Eaco (Francesco Russo), il custode delle chiavi dell’Ade, così somigliante nell’abito e negli atteggiamenti e nella rabbia da picchiatore al Bluto rivale di Popeye, all’Ancella di Persefone del tutto simile alla sua Olivia, si guardi al clima generale di quest’Ade che sembra clonato – nelle sue sbilenche case (scarne, visionarie, poetiche, le scene di Massimo Troncanetti), nei suoi personaggi dall’umore nero, fin dal Caronte dalla lunga barba bianca – dalla penna di Guido Martina e dalla matita di Angelo Bionetto dell’Inferno di Topolino.

Così, preponderante è la presenza della musica, partitura integralmente vocale che accompagna, sottolinea, accarezza, accoglie, l’intero spettacolo, dovuta al gruppo musicale “SeiOttavi” che esordisce con lo stranito coro brekekekèx koàx koàx del gracidare blues alle luna delle rane, simili a Blues Brothers verdevestiti, che dà il nome alla commedia. In seguito l’ottimo gruppo canta – e balla – tutti i cori, anche con la presenza del corifeo Gabriele Portoghesi, in un crescendo che è musical, commedia musicale, sagra paesana, balletto televisivo. Contaminazioni e sincretismi, alto e basso, tragedia e commedia, kitsch e visionarietà sono presenti anche nella seconda parte, dove Dioniso, smessi i panni clowneschi in favore di una classicissima porpora, dovrà giudicare quale dei due poeti trapassati, il più vecchio Eschilo o il più moderno Euripide, potrà meglio aiutare la città dei vivi a riprendersi.

Eschilo (Roberto Rustioni) veste gli scuri abiti della tradizione classica, un po’ bigotta e tronfia, ma onesta e leale; è calvo, porta con fierezza una lunga barba rabbinica, spiccio nei modi, un po’ antipatico. Si erge a protagonista di un sentire sublime e ideale che si incarna in personaggi d’enorme statura – nello spettacolo grandi marionette che vengono manovrate con abilità, sorvegliate da Marzia Gambardella – modelli d’ineguagliabile virtù verso cui ogni cittadino deve tendere: se per il bambini c’è il maestro, per gli adulti ecco il poeta, che educa e spinge con la poesia verso magnifiche sorti e progressive. Euripide (Gabriele Benedetti) ha invece il piglio d’un ironico biancovestito capelluto con sciarpa rossa, un po’ pirata un po’ signore, dalla poesia “democratica” che si occupa di tutti, donna o schiavo, vecchio o ragazzo, anche lui rivendica di predicar l’educazione come rivoluzione – che gli viene rinfacciata però come corruzione – insegnando regole sottili, allenando la gente a guardare, capire, sospettare, andare oltre le apparenze della supponente retorica.

Dioniso sembra amico di Euripide – Aristofane di Euripide amico non fu mai – ma è chiamato a giudicare imparzialmente, di fronte allo sguardo del ciclopico Pluto che riempie una casa intera, chi sarà degno di accedere all’aldiquà, con una cerimonia che è un’esatta psicostasia al contrario, che vede l’entrata in scena d’una gigantesca, illogica, fantasmatica stadera, macchina dell’impossibile che non pondera i cuori ma i poeti stessi, non le anime loro, ma la loro poesia, in una copia perfetta della rappresentazione dell’egiziano Libro dei Morti. Sarà Eschilo a prevalere, dopo alterni risultati, e a tornare sulla terra a ridar vigore ai vivi: impresa che non deve aver prodotto poi gran che, se è vero che l’anno dopo la rappresentazione de Le rane, Atene perderà la guerra del Peloponneso contro Sparta e, definitivamente, la sua libertà.

E quando, proprio alla fine, il filmmaker proietta un vecchio filmato bianco e nero del ’68 del potere all’immaginazione – un giovane Pasolini (che sia lui l’Euripide?) che rende omaggio, intervistandolo, ad un vecchio Ezra Pound (lui sì che è l’Eschilo) – sai come in fondo quel ricordo, a metà strada tra struggimento e smemoratezza, ci dia l’esatta misura di quanto il vecchio Aristofane, con le sue aristocratiche e tradizionaliste fisse, in fondo si sbagliasse, e ci restituisca l’esatta cognizione anche del nostro inevitabile e improvvido errore, quando alziamo i toni, come in un pantano un diffuso e sommesso gracidar di rane, senza poter o saper riconoscere, reciprocamente, la potenziale, infinita, multiforme, discorde difformità della bellezza.

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