Get Even More Visitors To Your Blog, Upgrade To A Business Listing >>

La bella Napoli del Campanello dello speziale

La bella Napoli del Campanello dello speziale
Fermata Spettacolo

Nel 1836 Gaetano Donizetti è a Napoli: nella capitale del più grande Regno italico era arrivato a venticinque anni, nel 1822, per sovrintendere – era il regista, diremmo noi – alla messa in scena della prima al San Carlo di Atalia, un dramma sacro quaresimale (tipico prodotto, come il Mosè in Egitto, dell’epoca, a metà tra l’opera lirica e l’oratorio) di Mayr, che del giovane bergamasco era maestro e e mentore. L’opera doveva esser diretta dal nume tutelare della lirica italiana dell’epoca, ma Gioachino Rossini proprio allora decise di fuggire con la Colbran e di sposarla: fu naturale per Barbaja, l’impresario, due volte abbandonato, trovare pronta sostituzione del pesarese con quel giovane promettente, sia per la direzione dell’Atalia sia dello stesso gran Teatro della capitale della musica, il Real Teatro di San Carlo.

A Napoli il bergamasco si trovò poi talmente bene da decidere di metter su casa, comprando un appartamento in via Nardones dove andò ad abitare con moglie e figli, ma che poi risulterà anche, alla morte dei tre figli e poi anche della moglie Virginia, a ventinove anni, troppo pieno di ossessionanti e dolorosi ricordi per continuare a viverci. Fuggirà – è il caso di dirlo, lontano dai pensieri angosciosi che, probabilmente, lo condurranno di lì a qualche anno alla follia e alla morte – fuggirà a Parigi, che non amava, quasi a dover scontare più amaramente la condanna di vivere: “Io non mi ci trovo – scriverà a Mayr l’8 aprile 1839 – ardo di voglia di tornare a Napoli; là vi ho casa mia, in quella avvi una camera nella quale da 20 mesi non entro, ma che mi è dolorosamente cara e là spero morire”.

Se è vero che nei sedici anni in cui rimase a Napoli scriverà ben diciassette opere per il San Carlo, tra cui il capolavoro della Lucia, non bisogna dimenticare la decina di farse scritte per il Teatro Nuovo – che nella città era il luogo storicamente deputato all’opera buffa dei Cimarosa, Piccinni e Paisiello – a cominciare proprio da quella Zingara con cui esordì, in quel lontano 1822: operine graziose, scherzi mordaci, per la maggior parte impiantate su quella che potremmo chiamare una sorta di contestazione dei difetti della maturità, se non della senilità, del decoro borghese, in ogni caso.

Il filo conduttore, alla fine è sempre quello: due giovani si amano, ma non lo sanno, o non possono, o stentano a riconoscerlo; un altro, un autorevole rappresentante della società, o un vecchio, un tutore, li contrasta per motivi futili o iniqui; alla fine l’amore, come sempre, inevitabilmente, trionferà. Entro questo schema di base, ovviamente, può entrar di tutto, dipende dal resto, dalla musica, dal testo, dalla fantasia, dell’invenzione: provate, non sarà difficile far rientrare nello schema Il barbiere e L’elisir, Don Pasquale e perfino Le nozze di figaro, sebben con qualche distinguo in più.

Così, pure questo Campanello, che qui all’Aperia della Reggia di Caserta ci viene quest’anno presentato, per la rassegna Un’estate da Re, rientra esattamente in questo schema: composto in dieci giorni – il solito marchio di fabbrica di Donizetti – per il Teatro Nuovo di cui abbiamo detto, su libretto in napoletano dello stesso musicista – che, come detto, era diventato figlio di Partenope a tutti gli effetti – fu poi “tradotto” in italiano ed ampliato l’anno successivo. Prendendo spunto da un vaudeville di Léon Lévy Brunswick, Mathieu-Barthélemy Troin e Victor Lhérie, La sonnette de la nuit, vi si narra l’improbabile storia di Don Annibale Pistacchio (il basso buffo Marco Filippo Romano, di cui segnaliamo la perfetta dizione e la spiritosa verve) spezial di Foria, e inventor delle pillole famose contro l’asma, la tosse, e il mal di madre, di Napoli, venuto a questo mondo nel millesettecentottantasette che decide a cinquant’anni di prender moglie perché quando l’uomo s’è ammogliato uom divien di qualità.

La sua scelta ricade sulla giovane Serafina (Barbara Bargnesi che riesce a meraviglia, come ben sa fare, a render l’irresistibile creatura capricciosa e tenera), figlia di un valoroso ufficial, morto nell’assedio di Navarra: la vicenda inizia appunto in medias res, il giorno del matrimonio, tra invitati, vino e cibo in quantità; il colloquio con la madre Madama Rosa (perfetta Marta Vandoni Iorio) ci permette però di sapere che la mattina dopo lo sposo partirà per Roma per l’apertura del testamento della zia Onoria di felice memoria, e inoltre dell’esistenza d’un cugino Enrico (molto bravo Filippo Morace) che la bella cugina tentò rapire.

E li vediamo subito dopo, i due giovani, impegnati nel loro duetto: Non fuggir!… T’arresta, ingrata!, perfetto esempio di come l’opera buffa spesso non faccia altro che (ri)calcare situazioni e atmosfere del melodramma perché diventino, certo, parodia, occasione di sorriso o perfino di franca risata, ma, al tempo stesso scavi, con l’arma del sottile grimaldello, fin dentro l’essenza stessa della scena e della musica, per metterne finalmente allo scoperto i meccanismi ultimi, dandoci la possibilità di arrivare, per via d’intuito, più prontamente alla verità: in fondo, non è questo altro che il teatro e la sua funzione?

Di lì a poco i due giovani, infatti, per sviare i sospetti, prontamente s’inventeranno una scena, una tragedia classico-romantica, espediente che spesso troviamo in Donizetti perché la verità, dissimulata in forma di teatro nel teatro, pantomima, sberleffo sagace, più chiara risulti: qui troviamo Zasse, Zanze e Zonzo che espongono in forma teatrale ciò che non può esser detto, ciò che va oltre le convenzioni sociali; nell’Elisir d’amore, per esempio, la barcaruola a due voci tra la Nina gondoliera e il Senator Tredenti ha in fondo la stessa funzione, rivelatrice per Amina del suo amore per Zanetto/Nemorino. L’invenzione metateatrale ovviamente non si ferma qui: abbassate le luci, partiti gli invitati, gli sposi si preparano alla notte di nozze, Enrico consumerà la sua vendetta impedendo la consumazione del matrimonio, travestendosi da damerino francese caricato, poi da cantante lirico che l’indomani dovrà debuttar nel Radames, nuovissimo spartito, infine un vecchio in veste da camera, con berretta da notte in testa: lo scopo, dichiarato e riuscito, è di tener occupato lo speziale nella preparazione di elaboratissime pozioni; il fine, mostrare attraverso la finzione dell’impersonare la continua creazione della realtà attraverso il gioco teatrale. Alla fine l’alba costringerà il povero speziale a lasciare, almeno per un po’, la mogliettina sola a casa.

Sostanzialmente corretta la direzione di Giuseppe Montesano, che non forza mai i tempi di una tersa e tranquilla serata estiva, alla guida dell’Orchestra e del divertito Coro del Teatro San Carlo di Napoli. La regia di Riccardo Canessa s’inventa un’ambientazione nella Napoli bella époque, tra busti, cilindri e pagliette, e la storia in effetti ha caratteristiche tali da non soffrir per nulla del trapianto in quegli anni ruggenti e fuggitivi, di cui la messa in scena sa prender più che altro il lato estetico, immaginando magari i nostri personaggi, tra i Grandi Magazzini Mele e il Caffè Gambrinus, Piazza dei Martiri e la Galleria, incrociare Scarfoglio e la Serao, D’Annunzio e Di Giacomo nell’ultimo breve momento in cui la città vive ancora respiro di capitale europea, prima della catastrofe.

La bella Napoli del Campanello dello speziale
Fermata Spettacolo



This post first appeared on Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E, please read the originial post: here

Share the post

La bella Napoli del Campanello dello speziale

×

Subscribe to Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E

Get updates delivered right to your inbox!

Thank you for your subscription

×