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L’amant, come un frutto tra i rami

L’amant, come un frutto tra i rami
Fermata Spettacolo

Il Napoli Teatro Festival, diretto da Ruggero Cappuccio e organizzato dalla Fondazione Campania dei Festival, di cui è Presidente Luigi Grispello, ha iniziato a tracciare, come ogni anno, rotte nuove nel gran mare delle arti sceniche: dal’8 giugno al 10 luglio, 85 compagnie, tra nazionali ed internazionali, si impegneranno in 160 recite complessive, cercando di restituire un’idea di teatro, tra nuove tendenze e attenzione al pubblico, di cui è non ultima espressione anche l’oculata politica di prezzi, con biglietti popolari (da 8 a 5 euro) e agevolazioni per le fasce sociali più deboli.

La Sezione Internazionale ha preso il via ieri sera in modo assolutamente straordinario con la lettura di Isabelle Huppert de L’amant, di Marguerite Duras, al Teatro San Carlo. L’amant, capolavoro di Marguerite Duras, è, in fondo, il minuto resoconto, mascherato, schermato, dissimulato perché ritenuto impossibile, del realizzarsi di un sogno, il sogno di scrivere, un impegno morale: romanzo complesso, dalle inusuali sfaccettature, in cui è oltremodo arduo – oltre che impossibile – tracciare una linea tra autobiografia e invenzione, pensiero e ricordo, tra salti temporali, abbandoni, dolore e parole: scrivere, o è mescolare tutto in un viaggio che ha per destinazione la vanità e il vento, o non è niente; o si mescola tutto in un’unità per sua natura indefinibile, o si fa soltanto della pubblicità.

La quindicenne protagonista, francese in Indocina negli anni Trenta con la famiglia, povera e dall’immagine dissimulata perfino a se stessa, che nutre l’ambiguità dell’immagine pure nel modo di porsi, con quel cappello da uomo color rosa, in cui ha visto la magrezza ingrata della persona, difetto dell’età, diventare un’altra cosa. Ha smesso di essere un dato grossolano e fatale della natura. È diventato l’opposto, una scelta che contrastava la natura, una scelta dello spirito. Si trova così a vivere una passione violenta, di carne e sangue, con un miliardario cinese: il sesso, sudore e dolore, corpi avvinghiati e ricerca disperata d’affetto, diventa forma unica di completa comunicazione, estrema strategia d’evitar le frustrazioni, ma anche scudo doloroso alle ferite che un amore potrebbe causare.

Perché lei sa, con la saggezza dei quindicenni, che una storia non porterebbe da nessuna parte, differenze economiche, culturali, d’età, deciderebbero un fallimento doloroso e infelice: decide di non amare, caparbiamente, quell’amante che non ha nome, dalla pelle sontuosamente morbida, dal corpo debole, disarmato, imberbe, senza virilità se non quella del sesso e che vive solo nell’ambito della camera da letto, innamorato di lei in modo abominevole, e, dunque, piangendo, lo fa. Prima c’è il dolore. Poi quel dolore viene sopraffatto, trasformato, strappato via lentamente, portato verso il piacere, avviluppato a esso. Il mare, sconfinato, semplicemente incomparabile.

Seduta in poltrona, una musica di sottofondo, Isabelle Huppert rinnova l’artificio, sempre uguale e sempre diverso, di render viva sul palcoscenico la storia della povera ragazza francese di quindici anni e del ricco miliardario cinese che si incontrano sul Mekong: sussurrando, ringhiando, soffocando, ridendo, camminando, l’attrice riesce a darci la misura di una diversità che è scoperta meravigliata ma anche dolore che sconfina e sfuma inavvertito nel piacere, scelta consapevole di rifiuto di un impossibile amore. Così, all’inizio, seduta su un dondolo di vimini che richiama inevitabilmente atmosfere esotiche, ci appare gracile, nel gioco delle luci e delle sobrie ma significative proiezioni che sullo sfondo descrivono un loro particolare itinerario dell’anima e dei ricordi – colori cangianti dal fucsia al giallo, rosso scarlatto, azzurro, forme astratte che poi si concretano nel disegno infantile di una nave che parte e che la porta via definitivamente da quel mondo alieno e caro, o nella luce obliqua del sole che disegna sul muro della stanza pure linee di raccolto splendore dove l’anima può sostare.

Ci appare gracile, e come persa nell’austera vastità del palcoscenico, a metà strada tra la vecchia signora ormai famosa che ormai trova la forza e l’onestà e la risoluzione di scrivere un onesto diario dell’anima e la giovane quindicenne bianca che porta – come oggi l’attrice, come oggi la scrittrice – un vestito di seta naturale, lisa, quasi trasparente, senza maniche, di quel color bistro che prende la seta naturale usata e quel famoso paio di scarpe di lamé dorato, con i tacchi alti, saldo di saldi che mi ha comprato mia madre.

 

La magia del teatro ti prende, passando attraverso parole scritte con lacrime e sangue e la voce dell’attrice, che di volta in volta si fa sussurro, risatina, grido, pianto – s’incrina spesso, la voce, e la diresti pronta a rompersi in lacrime, se non ti riportasse subito all’incoscienza di una pur sempre giovanissima vita – collera, paura: muggisce, perfino, imitando il fischio basso che la nave lanciava dicendo addio, muggiti terribili e misteriosamente tristi che, alla fine, la porteranno via.

E la consapevolezza dell’impossibilità di vivere fino in fondo l’amore, così stupefacente nella determinazione appassionata d’una quindicenne, spesso si veste di musica, canzoni dell’epoca ormai svanita lontano, colonna sonora d’una giovinezza acerba e piena nella contraddittorietà dell’esistere, fino all’esplosione di un valzer di Chopin che lei conosceva in modo segreto e intimo, sotto il cielo luminescente di una notte che sempre più l’allontana dall’Indocina e dall’amore: un’ingiunzione del cielo, chi sa per che cosa, come un ordine divino dall’ignoto significato. Per un momento pensa perfino di uccidersi, accorgendosi con stupore che non era più sicura di non averlo amato, solo che quell’amore non l’aveva visto perché si era perso nella storia come acqua nella sabbia e lei lo ritrovava soltanto ora, nell’istante della musica sul mare.

Tanti anni dopo lui era venuto a Parigi, dopo la guerra, dopo i matrimoni, i figli, i divorzi, i libri, le aveva telefonato, dicendole che non avrebbe potuto mai smettere d’amarla, che l’avrebbe amata fino alla morte. Quando l’attrice si siede e la grande sala si riempie d’applausi, a ondate, come ancora ci trovassimo – perché c’eravamo anche noi, su quella nave – in mezzo al mare, ci vengono in mente – e non ci abbandonano più – le parole di un altro poeta, che diceva di una terra che nessuno ha mai detto, che nulla attendeva se non la parola che sgorgherà dal fondo come un frutto tra i rami.

L’amant, come un frutto tra i rami
Fermata Spettacolo



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