Get Even More Visitors To Your Blog, Upgrade To A Business Listing >>

Il cappello di paglia di Firenze della perduta innocenza

Il cappello di paglia di Firenze della perduta innocenza
Fermata Spettacolo

Avevo già visto Questo allestimento de Il cappello di paglia di Firenze di Nino Rota nel 2014, quando fu presentato al Petruzzelli, a Bari: rivederlo ieri sera al Teatro San Carlo, qui a Napoli, se ha sortito l’effetto, ampiamente previsto, di delizioso piacere nel rivivere le disavventure del buon Fadinard, à la recherche del perduto cappello d’una madame d’esigua moralità, ha pure suscitato una serie di più ponderati pensieri sulla partitura di Rota, sull’enorme cultura musicale che intuisci sotto la fragile patina del puro divertissement, nell’inesausto e sapiente gioco di rinvii che continuamente opera il compositore, perfettamente assecondato, in questo, dalla regia di Elena Barbalich e le scene e i costumi di Tommaso Lagattolla.

Perché se il godevolissimo vaudeville, messo su dal giovane Rota con la complicità della madre, lascia senz’altro trasparire la proverbiale “fanciullaggine” dell’autore – anche se, come diceva Alberto Savinio, il fanciullismo dei musici molto musicali è nostro errore di visione, ci sembran tali perché essi sono creature estranee al nostro mondo – ci fa pure largamente supporre e immaginare il divertimento dei due nello scriverlo: a Torre a mare, fra il novembre del 1945 e il 27 aprile 1946, nell’assolata casa che avevano lì, poco lontano da Bari dove lui insegnava al Liceo musicale, Il cappello di paglia prende forma lentamente, composto da Nino ed da Ernesta Rinaldi, la madre, figlia del compositore Giovanni Rinaldi, valentissima pianista ella stessa, libretto e musica, “senza scopo pratico”, come Nino stesso ci dice in una lettera alla cugina, dunque senz’altro principio d’utilità che rispondere ad una interiore esigenza, il desidero di un sorriso, divertimento colto e sapiente condiviso in famiglia.

Tanto che poi fu chiuso in un cassetto e quasi dimenticato, per nove lunghi anni – l’inizio della carriera cinematografica, ottantasei film, la consacrazione con La Strada di Fellini – nove anni di buio, fino a che il Maestro Cuccia, cui il giovane aveva fatto sentire stralci dell’opera al pianoforte nel 1945, diventato Sovrintendente del Massimo di Palermo, nel 1955, se ne ricorda e la inserisce nel cartellone. Rota, come ci dice in una memoria, dovette “rovistare nei cassetti per recuperare lo spartito. Mi sembrava che non stesse in piedi. Ero terrorizzato. Ci lavorai sopra per tutto l’inverno. E il successo mi sorprese”. A volte la realtà sembra raccontar favole. Nel 1955 il teatro d’opera aveva sopperito alla crisi ricorrendo al repertorio – restituendo il posto d’onore nei cartelloni ai “classici” Verdi e Puccini scalzando i censurati Mascagni, Alfano e Zandonai – e al divismo quasi sportivo – la rivalità Callas-Tebaldi appassionava quanto quella Coppi-Bartali – allontanando il pubblico, prima molto interessato, dalle nuove proposte, giocoforza conducendolo invece solo ed esclusivamente a ricaricare la tradizione: del resto il linguaggio dodecafonico di Dallapiccola, di potenza intellettuale notevolissima, piacque agli addetti, mai al grande pubblico.

Così, Il cappello di paglia, con la sua musica distesa e charmant, con la sua fitta rete di citazioni e rinvii, per le atmosfere vagamente fané che evocava, fu scambiato dalla critica, tra cortesi e imbarazzati elogi – si trattava pur sempre d’un musicista di musiche da film! – per un ritorno al passato, un nostalgico omaggio ad una stagione, quella della Grande Lirica, ormai tramontata; solo recentemente la critica sta ritornando sui suoi passi e riconoscendo a Nino Rota – e a quest’opera in particolare – il posto che gli spetta: egli intuì – e solo di intuizione musicale si tratta, i fondamenti teorici verranno più tardi, quattro anni dopo con la nascita del Gruppo 63 – che il passato, visto che non può essere distrutto, perché il suo disfarsi porta al silenzio, come in effetti avverrà di lì a poco, può essere però rivisitato: con ironia, in modo non innocente, citandolo “tra virgolette”, giocando sul rimando per creare un’irresistibile corrente tra me che cito e te che ascolti.

Questo il significato ultimo della fitta rete di riferimenti e richiami, incisi, insistenti ricordi, frammenti, che caratterizzano l’opera, fin dal libretto, costruito sulla folle journeé di Fadinard, vaudeville d’Eugène Labiche – Un chapeau de paille d’Italie – che a sua volta sembra anch’esso invito alla rivisitazione, costruito com’è sulla folle giornata de Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais: sol che, prese le debite misure al mondo e alla storia, non più alla berlina finiscono i nobili, ma l’imperversante, asfissiante borghesia da arrampicamento sociale con le sue ipocrisie pudibonde.

Rota non fa altro che tradurre in suoni ciò che Labiche aveva detto in parole, attraverso cadenze e spunti melodici che non sono mai espressivi in sé, ma proprio per quello che richiamano: per esempio il finale del III atto, Io casco dalle nuvole, così scopertamente rossiniano nella sua caratura, produce il suo effetto ironico proprio in quanto viene riconosciuto rossiniano, ma in una condizione affatto diversa dall’opera originale, lo stesso effetto che ha citare una battuta di Shakespeare in un contesto del tutto diverso, in modo da suscitare straniamento, nonsense, ironia che apre nuove prospettive, diversità di punti di vista, segno di una perdita dell’innocenza che sta tutta nella diversa intenzione. E così, nella trama fittissima della partitura vedi scorrere – impossibile un elenco completo – Verdi e Wagner, Puccini e Gounod, Rossini e Offenbach, Mascagni, Strauss e Debussy, oltre, naturalmente, all’autocitazione, brani passati e futuri – rispetto alla data di composizione dell’opera – dalle colonne sonore dei suoi film, da Il birichino di papà a Le miserie di monsù Travet a Lo sceicco bianco.

La regia di Elena Barbalich sposta l’azione di 70 anni circa, dalla metà del secolo romantico – epoca in cui è ambientato sia il libretto sia la pièce di Labiche – agli anni venti turbinosi e folli del secol breve: scelta ch’è parsa più da interpretare come urgenza estetica e di gusto e di costume, dato che nessun serio aggancio alla storia reale degli uomini presenta l’opera di Rota, se non il labile cenno di critica sociale di cui s’è detto, vestita più di sorridente e bonaria ironia che non d’acidità graffiante e corrosiva. Insomma, il radicar la storia in quell’epoca così drammaticamente ricca di contrasti sociali – il primo dopoguerra che così ben poco mostrò d’aver appreso dalla severa lezione della Grande Guerra, incubando le grandi mortifere illusioni del secolo – nulla implica se non sul piano puramente estetico.

Ed è infatti proprio qui, sulle notevoli implicazioni visive – staremmo per dire visionarie – che questo allestimento si gioca la carta sicuramente vincente: i costumi bellissimi e le scene geniali di Tommaso Lagattolla – che per questo vinse, con gran merito, l’Oscar della Lirica 2015 – sottolineano e arricchiscono l’eleganza della musica, così disinvoltamente ricercata e in bilico tra la consapevolezza d’un impossibile ritorno al passato e l’affettuosità dello sguardo che (ri)crea un presente ricco e sereno: richiamo – forse – alla leggenda che vuole il giovane Rota ispirato dal film che René Clair girò nel 1928, tratto dalla stessa commedia di Labiche.

Rimandi, sottili allusioni, espliciti rinvii visivi giocati sull’essenzialità degli elementi fondamentali – linee, cerchi, poligoni – che costruiscono un’ambientazione che sa cogliere, significativamente, il passo tra art nouveau e razionalismo, riuscendo a colpire per la potenza visiva che accompagna quella musicale: è come se regista, scenografo, coreografo (Danilo Rubeca) e autore delle luci (Marco Giusti) si fossero provati – e possiamo dire in gran parte riuscita l’impresa – a (ri)fondare l’opera, quasi a renderla più cinematografica possibile: e questo, si badi, non attraverso una mera e formale proposta di brani filmici (s’è visto anche questo, e recentemente), ma invece andando alla radice del far cinema, che è rendere immagine la musica e musica l’immagine.

Si guardi per esempio alla scena delle modiste, o a quella del temporale: nulla più di realismo c’è nella musica che incalza col suo ritmo e che si rende visibile nel gioco delle luci, dei colori e del gesto; nulla più di realismo c’è nelle immagini che evolvono in impalpabili giochi di luce e colore che s’inseguono e si perdono. Così, la più astratta delle arti prende la sua rivincita, senza infierire, sulle arti visive, rendendole, per quanto possibile, puro pensiero e concetto: commosso omaggio al musicista che dedicò soffertamente la propria arte e la propria vita al cinema, ma anche alla lirica che del cinema è la più diretta antesignana. E di questo certamente era consapevole il maestro Rota.

Ottimo il cast, a cominciare dal giovane direttore Valerio Galli, che fa un gran lavoro, riuscendo a far esprimere all’ottima Orchestra del Teatro San Carlo un’inedita ricchezza di colore e brillantezza che restituisce a chi sta in sala – forse da meglio curare il controllo sonoro tra buca e palco, perché in certi frangenti l’orchestra copriva le voci – l’atmosfera leggera e ironica che certamente riflette la scrittura elegantissima di Rota, passata tuttavia al vaglio della sensibilità e della consapevole cultura del direttore. Perfette e puntuali le entrate del Coro, diretto da Marco Faelli, in quest’opera soggetto non secondario della sua riuscita, anche sul piano scenico e drammaturgico. Gli acuti perfetti e l’eccellente dizione caratterizzano l’interpretazione di Pietro Adaini, ben a suo agio nei dinamici e faticosi panni di Fadinard, ruolo chiave attorno al quale ruotano gli altri personaggi, a cominciare dall’eccellente Gianluca Buratto, il suocero brontolone Nonancourt, austero contadino francese trascinante e coinvolgente.

La voce di Zuzana Marková ha certamente le qualità giuste per questo ruolo, voce espressiva e sicura, fresca e giovane, dal fraseggio curato e incisivo, delinea una Elena ironicamente tenera sposina, delicata e fragile ma, pure, energica e decisa. Tutti ben al di sopra della media gli altri ruoli, dall’Anaide di Anna Maria Sarra, dalla voce dalle ampie sonorità e buone capacità recitative, al risoluto e militaresco Emilio di Dario Giorgelè, mentre Bruno de Simone si segnala – potrebbe essere diversamente? – per la perfetta dizione, lo spessore della voce, l’inconfondibile vis teatrale dell’eterno topos del marito geloso costituito dal personaggio di Beaupertuis. Particolare menzione, ancora, per la perfetta e charmant baronessa di Champigny di Anna Malavasi e la bella e brillante modista di Daniela Mazzucato, mentre il Maestro Salvatore Lombardo ha lasciato, per una volta, la buca dell’orchestra per indossare l’elegante giacca bianca del grande violinista Minardi, con grande senso del teatro.

Il cappello di paglia di Firenze della perduta innocenza
Fermata Spettacolo



This post first appeared on Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E, please read the originial post: here

Share the post

Il cappello di paglia di Firenze della perduta innocenza

×

Subscribe to Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E

Get updates delivered right to your inbox!

Thank you for your subscription

×