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Andrea Chénier tra le rovine della follia umana

Andrea Chénier tra le rovine della follia umana
Fermata Spettacolo

È un maggiordomo in livrea che, discoste le cortine del sipario – dopo aver guardato (con curiosità?) il pubblico che affolla il Teatro Petruzzelli – segna l’inizio di questo Andrea Chénier in scena qui a Bari in questi giorni, facendo coincidere il primo accordo della partitura con il batter della mazza sulle assi del palcoscenico (significativamente, questa partenza è simmetrica a quella del secondo atto, con la sostituzione del maggiordomo con un sanculotto, della mazza col tricolore rivoluzionario). Si allarga così, lo sguardo dello spettatore, sulla scena di questo primo atto, che il libretto d’Illica puntigliosamente ambienta in provincia, nel castello dei conti di Coigny, sul finire di una giornata d’inverno del 1789, nella gran serra del giardino d’inverno, precisando la sua natura d’imitazione pretenziosa di quella di Casa d’Orléans o di quella Kinsky.

È, dunque, una abitazione di piccoli nobili, orgogliosi della loro chiusa e pelosa provincialità che ospita per una sera le star locali, l’Abatino che porta nuove – non buone – da Parigi, il pensionato “romanziere”, un giovane poeta: uno spaccato di quella società piccola e perbenista, anch’essa tuttavia toccata dalle nuove idee che stanno diffondendosi, la Rivoluzione che sta per gettare il grido suo pel mondo. Disegnano questo mondo incipriato e vano, la musica del giovane Umberto Giordano e i versi di Pierluigi Illica, e poi la sua fine, e la speranza di un sistema di valori nettamente migliore che ben presto svanisce sotto l’incessante calar della ghigliottina, lugubre emblema d’una rivoluzione che divora i suoi figli, in modo emblematicamente divergente, paradigma d’una sofferta non univoca visione e giudizio sulla follia della storia.

Perché è poi, il mondo d’Andrea Chénier, ben più complesso di quanto possa sembrar di primo acchito, liquidato al tempo suo come espressione verista del teatro in musica, simile in molto a ciò che i Mascagni e i Leonacavallo, e poi pure i Puccini e i Cilea andavano in quegli anni producendo: risalta, a ben vedere, ben stagliato, sebbene scisso tra una – più che veristica, realistica – popolanità piena e spiegata che canta l’amore (anzi l’Amore), con tratti, indizi e forme che ancora facciamo fatica a distinguere da quelli dall’appena trascorso secolo romantico e, dall’altra parte, trattenuta parabola intellettuale e ragionata sul potere e sui modi con cui esso irretisce e corrompe menti e ideali, in particolare indagando i rapporti ch’esso intrattiene con l’arte, e con gli artisti in carne ed ossa.

Così, mentre il musicista intesse la sua musica di gonfio empito drammatico, il poeta non risparmia strali e amarezza e ironia agli idoli del potere, che mai non cambia al mutar delle stagioni, e sempre sa servirsi d’uomini diversi e di alternative idee, ritrovandosi tuttavia, i due, in uno stile rinnovato: sbaglieresti, a vederlo imparentato alla ricerca d’effetto e lacrima così adatta ai tempi, al sentire dell’italietta nazionalista fin de siècle, piena solo d’orgoglio e millantata gloria. C’è qualcosa in più, in quelle emozioni che s’innalzano e che poi si lasciano a metà, frammentate come le rovine di un tempio, mai lasciate all’abbandono estatico, perfino nei momenti del ricercato climax, rivendicando il primato del gesto drammatico sulla figura bella, della scena sulla romanza, dell’ininterrotta corrente del flusso di coscienza.

E, allora a ben pensarci, diventa del tutto occasionale perfino l’ambientazione storica ai tempi del Terrore, che pure sembra esser così pregnante e soverchiante: interessa solo in quanto topico momento di cambio di potere, che mette in crisi e alla prova uomini, idee ed estetiche. E la stessa storia d’amore è pur’essa solo pretesto e, nella sua ineffabile inverosimiglianza si rivela per ciò che è, storia che non ha storia: se pur l’amore tra Maddalena e Andrea poteva esserci, viene dalla circostanze del tutto proiettato e rinviato in un ipotetico e inesistente futuro.

Di chi è innamorata, Maddalena, se non dell’idea dell’amore, di un inesistente e fumoso fantasma della mente? E a quest’idolo è disposta a sacrificare la vita, in un incomprensibile crescendo d’esaltazione simbolica e retorica: realismo e verismo avrebber fatto magari cantare ai due il rimpianto dell’amore non nato, soffocato sul nascere dal fango e dalla protervia umana. Cantano essi invece – e a pieni polmoni e con certezza d’indiscusso sentire – la bellezza della morte che li libera finalmente!

No, non son per nulla reali, i personaggi del dramma, maschere dietro cui si nascondono le diverse intenzioni degli autori che ne muovono i fili, a confessati e inconfessati fini: prova ne sia, ancora, il continuo, incessante rifiuto dei personaggi di viver l’oggi, spesso ricordando o raccontando ciò che già è avvenuto, o confessando se stessi in una introspezione che ha sapore e odore del secol breve molto più che di quello dei lumi, oppure ancora progettando un domani migliore certamente, certo più ricco, più poetico, più pietoso dello scomodo e inospite presente: così è per Andrea il poeta, così per Maddalena l’ex ragazzina viziata, così per Gérard il rivoluzionario traviato, anime erranti che attraversano quel tempo, fino alla morte, affamati d’un altrove che forse non esiste se non nelle loro speranze e fantasie.

In questo senso la scena, così proficuamente architettata dalla matita di Ricardo Sànchez Cuerda, che a perfezione serve l’attenta e solo apparentemente tradizionale regia d’Alfonso Romero Mora, efficacemente riesce a produrre il senso dell’inquieto divenire, dell’instabiltà evanescente del presente in confronto al passato e al futuro, con alcuni semplici accorgimenti: il piano scenico, che delimita in basso uno scorcio della sala, nel primo atto, risulta fortemente inclinato in avanti, così da restituire, insieme ai piani sghembi e obliqui delle pareti e all’angolo che ne risulta, molto eccentrico rispetto al fuoco della sala, un punto di vista molto particolare, come non esistessero linee perpendicolari ed angoli retti, ma solo linee di fuga, prospettive ingannevoli verso un centro infinito che si pone al di là del nostro sguardo, favorendo il movimento verso un altrove situato ben oltre la nostra portata.

Il soffitto, poi, presenta inquietanti e pericolose lesioni, certo presagio del crollo, non solo metaforico, di quel mondo dorato: lo ritroveremo, nel secondo atto e nel terzo, quel tetto, ormai del tutto in pezzi, ma con tutti i brandelli, spostati e divelti, ma tuttora surrealisticamente ancorati pervicacente al cielo, mentre, con un po’ di fatica, riesci ancora a scorgere, sul devastato panorama di Parigi, oltre il Ponte Peronnet che obliquamente e con gran pendenza attraversa la scena, residui dei bei finestroni all’inglese della serra originaria, dai vetri in pezzi, dall’architettura ormai frantumata ma tuttora presente, schegge mute presenti pure nel terzo atto, dove andranno a far da parete, precaria e raffazzonata, al vasto standone adibito al Tribunale di Salute Pubblica.

Poi, al quarto atto, ti ritrovi nella sala della serra del primo atto, completamente in pezzi, i vetri tutti rotti, il gran lampadario dorato a terra in pezzi, un ambiente devastato ma tuttavia ricomposto, come il soffitto, che si (ri)presenta come al primo atto, crepato ma ritornato dov’è giusto che sia, come a volerci indicare, forse, una possibile ricomposizione e riscatto della vita, oltre tutto quel dolore, oltre tutto quell’odio, oltre ogni umana speranza, oltre perfino la morte, che viene col sole del mattino ma che pur deve soccombere all’Amore.

Il giovane direttore Michele Gamba ha diretto l’Orchestra del Teatro Petruzzelli con sonorità piene ma sapendo addolcire i toni con sapienza al momento giusto, riuscendo a donare al “frammento” quella pienezza timbrica così caratteristica per una partitura come questa: solo, notiamo, in certi momenti, un qualche problema di coordinamento tra buca e palcoscenico, per cui a volte la voce dell’orchestra copriva quella degli interpreti. Peccati veniali, tutto sommato, per una prestazione più che buona, nel suo complesso, come quella del Coro, diretto da Fabrizio Cassi.

Perfettamente in parte il trio dei protagonisti: è dotato di un timbro vocale potente e ricco, il tenore Martin Muehle, dall’ottima presenza scenica, che riesce, con la sua voce da autentico tenore drammatico a dar vita ad un protagonista appassionato, forse poco ricco di sfumature, ma tuttavia del tutto convincente, soprattutto con il passar del tempo: mentre lascia qualche perplessità nel pubblico il suo Un dì all’azzurro spazio, la temperatura si alza con Io non ho amato ancora, e poi con Come un bel dì di maggio, fino al molto applaudito duetto finale con Maddalena, che, fiera e indomita, ha trovato la sua interprete ideale in una travolgente quanto credibile, sia vocalmente sia scenicamente, Svetla Vassileva: piena di temperamento, capace di donare al personaggio la giusta misura di dramma introspettivo e cantabilità lirica che trova il suo apice ne La mamma morta, molto apprezzata dal pubblico barese. Che, ovviamente, non ha lesinato applausi – ampiamente meritati – per il beniamino di casa, Claudio Sgura, oggi cantante in costante ascesa che dona al suo Gérard una presenza scenica perfetta fatta di trattenuta violenza e beffardo orgoglio, insieme all’emissione sicura e dal carattere scuro, senza cadute d’intonazione e di gusto.

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