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La ragione (è sempre) degli altri

La Ragione (è sempre) degli altri
Fermata Spettacolo

Quando ho saputo che Tato Russo avrebbe portato in scena, come regista e come interprete, La ragione degli altri, poco frequentata commedia di Pirandello, tornando in scena in questi giorni qui a Napoli, al “suo” Teatro Bellini, non ho potuto fare a meno di pensare che il dramma avrebbe conosciuto, in questo modo, una quarta – ultima, certo non definitiva – modalità di approccio. È noto infatti che questo lavoro – il primo, imperfetto e ancora sbilenco, scritto per le scene dall’Autore – ha conosciuto negli anni, a seconda dei tempi, dei registi e degli interpreti, almeno tre – finora – possibili letture, che corrispondono, inevitabilmente, ad altrettante ben delineate prese di posizione da parte di chi il teatro lo fa, lo vive, lo pensa: perché, posto che la ragione degli altri sia quel che conta, resta da stabilire chi siano gli altri di cui si parla e chi, invece, di quella ragione non goda, o ne possa vantar apparentemente di meno, disponendone, in realtà, moralmente ben più degli altri; in altre parole, pesa su questa commedia comprendere, nel turbinare borghese, farisaico e asfittico del triangolo moglie-marito-amante, chi dei tre, pur nell’evidenza della ragione di tutti, diventi ineludibilmente vittima di quella stessa ragione e tuttavia, o proprio in virtù di questo, protagonista del dramma, vincitore della disputa, sul piano etico prima ancora che drammaturgico.

Per Marco Praga, che per primo mise in scena la pièce, quando ancora si chiamava Se non così, non ci furono dubbi: la prima attrice, la grande Irma Gramatica, interpretò la parte dell’amante, riconoscendo con ciò il ruolo di protagonista al personaggio di Elena Olgieri, probabilmente perché è colei che, alla fine, rimane sola, sacrificandosi per il bene della figlia: la ragione è degli altri, ma lei, pur perdendo tutto, vince. Pirandello, tuttavia, non fu per niente d’accordo, e manifestò apertamente il suo dissenso, minacciando addirittura di non scriver più per il teatro! In verità, il personaggio riasonner, similmente a Leone Gala, a Lamberto Laudisi, al Ciampa del Berretto a sonagli, è, naturalmente, la moglie, e così per molto tempo si è considerata Livia Arciani la vera protagonista della pièce, anche se nell’edizione del 1920, visto che il marito venne interpretato da un attor di rango come Luigi Carini, si considerò invece Leonardo Arciani protagonista della commedia. Insomma, pirandellianamente, in questa commedia in cui tutti sembrano aver ragione e son tutti protagonisti, la ragione non ce l’ha veramente nessuno e un vero protagonista non sembra, per davvero, esserci.

Ora, considerando il caso di Tato Tusso, e pensandolo ovviamente fuori parte nel ruolo di Leonardo, è giocoforza pensare che avrebbe riservato a sé, facendolo diventare per ciò stesso protagonista, il ruolo del padre della moglie, quel Guglielmo Groa cui di solito si assegna la funzione di detonatore dell’esplosiva situazione che stanno vivendo i componenti del triangolo malefico che si è venuto a creare, catalizzatore cui fanno riferimento almeno due dei vertici di quel triangolo, che aspramente rimprovera il genero nel primo atto e consola la figlia nel secondo, più che altro paladino dell’onor borghese, per poi occultarsi una volta espletata la sua funzione: un po’ poco, in verità, per pensarlo in chiave di protagonista, tuttavia nelle intenzioni si parlava di una “riscrittura” dello stesso Russo, per cui…

Ebbene, partendo, anzi ripartendo dallo stesso Pirandello, l’Artista napoletano ci presenta la pièce come incistata all’interno di un contenitore più ampio: una compagnia d’attori sta per cominciare le prove, in uno spoglio palcoscenico, de Le ragioni degli altri… non dite che vi ricorda i Sei personaggi, ci pensa lo stesso Russo, in veste di Sommo Regista di una compagnia da cui pretende assoluta dedizione, a citare il capolavoro, sia visivamente – appaiono, i sei attori, avvolti in una nuvola di vapore azzurrino, come in una recente produzione di quella pièce… – sia nel testo – il più giovane attore riferisce che ci sono sei personaggi fuori la porta del teatro che chiedono di entrare, ma sicuramente, dice il Regista, avranno sbagliato commedia, qui non stiamo provando Il giuoco delle parti… – e ad aprire quindi un fuoco incrociato di gags, citazioni, battute: nell’assodata nozione di rottura della convenzione scenica, si esce e si entra continuamente, passando senza soluzione di continuità dalla realtà alla finzione e viceversa.

Così, l’attempato Maestro, critica feroce di certo Regista Impegnato, chiede agli attori di provare in maschera – portano in effetti tutti, all’inizio, sul volto una maschera che lascia scoperta solo la bocca – che poi, assicura, sarà tolta il giorno della prima, a testimonianza del percorso che dovranno fare da maschere ad attori consapevoli (finirà che prima uno, poi un altro, alla fine tutti toglieranno la maschera); opera tagli a piacimento sul testo, inserendo invece nuove espressioni e parole – ovviamente il turpiloquio – che gli sembrano più adatte a destare interesse nella contemporaneità; straparla dell’ingombrante Autore proclamando di voler arrivare alla “carne” superando i “teoremi”, ma poi, attempato e con tutti i problemi dell’età sua, manda a prendere in camerino un “integratore” che “lo tiri un po’ su”. E, certo, fare dell’umorismo sul maestro dell’umorismo è (potrebbe essere, sarà, avrebbe potuto essere) il massimo dell’umorismo.

Comincia, alla fine, la prova: il primo atto si svolge nella redazione del giornale La lotta, come da copione, pur tra le continue interruzioni del Regista – d’altra parte è pur sempre una prova… – per correggere, emendare, commentare: alla fine, quando deve entrare in scena Guglielmo Groa scopriamo che il Regista sarà anche l’Attore che lo impersonerà, con qualche incertezza, dimenticando la parte, incespicando di frequente, sembra che l’Attore debba seguire necessariamente le orme del Regista. Con una certa difficoltà dovuta all’assenza di qualche attore, sostituito come si può dalla sarta, tra prove costumi (non vanno bene gli anni ’20, meglio gli anni ’50) delle primedonne, bisticci, battibecchi, arrangiarsi ed ingegnarsi, s’arriva alla fine del primo atto, sulle note della Marsigliese, suonata per celebrare la vittoria delle opposizioni e dell’onorevole Nitto Ruvo, che si sovrappone alla notizia che Leonardo ha una figlia con la sua amante. Il second’atto, a casa dei coniugi Arciani, comincia subito dopo, nello studio “arredato con ricca e sobria eleganza”; Guglielmo è “sdrajato su la greppina con una coperta su le gambe, un giornale su la faccia”, ma la didascalia viene letta sostituendo l’antiquato “greppina” con il più moderno “chaise longue”, e pronunciato in modo sbagliato come “cess long” in modo da suscitare l’ovvia risata del pubblico.

Sipario, fine della prima parte. Solo con l’inizio della seconda parte dopo l’intervallo si comprende il perché di questa apparentemente bizzarra cesura appena all’inizio del secondo atto: sotto il giornale Tato Russo è stato sostituito da un altro attore che interpreterà tutta la prima parte della scena, per poi essere nuovamente sostituito quando si entra nel vivo del dramma. E allora, sì, la musica cambia: Russo offre al suo pubblico una grande interpretazione della scena e, arrivando così al cuore, alla “carne”, Guglielmo Groa non si limita più ad esser “teorema”, puro espediente teatrale, ma padre che soffre per la figlia, in questo drammone ancora acerbo del Pirandello ancora non padrone appieno del mezzo di cui si serve: ci sono cose, tuttavia, in questo lavoro, e questa scena è fra quelle, che, avendo ventura d’incarnarsi in un Attore, sanno trovar la strada di restituire il teatro all’intera sua vocazione più autentica e duratura. “Dove sono i figli è la casa”, la frase, dal sapore ancor reazionario e borghese, detta da Livia al padre proprio in questa scena, diventa il nucleo centrale intorno al quale Pirandello costruisce tutta la sua riflessione, ed è lo stesso identico punto di partenza di Russo, che però giunge a risultati, se non opposti, certamente diversi.

E lo fa soprattutto attraverso la grande scena madre che, all’epoca, si era soliti inserire nel secondo atto ma che invece Pirandello fa scivolare all’inizio del terzo: il confronto tra le due primedonne si svolge in una tensione palpabile, in una scena spoglia – la casa di Elena “umile stanza, destinata a più usi”, ma qui assurta ad archetipo di casa (la casa dov’è la figlia, dunque casa per eccellenza) – in cui il tavolo e le sedie sono semplici rinvii a icone familiari, a una comune memoria collettiva: se questa è la casa, non può che esserci un’unica donna. Il confronto è serrato, tra la moglie e l’amante: l’equivoco iniziale, che si tratti di una disputa per il possesso del marito, del maschio, è ben presto fugato: Elena rinuncerebbe ormai serenamente a lui, l’amore, se pure c’è stato, ormai è finito, quasi con sollievo lei lo vedrebbe andar via senza chiedere nulla, cambierebbe città, si sistemerebbe diversamente con la bambina: ecco, si comprende che proprio questo è il punto, la bambina diventa – come tanto spesso nel nostro quotidiano – ostaggio dei sentimenti, oggetto d’egoismi incrociati, allora, al tempo in cui la commedia fu scritta, e ancora negli anni ’50, in cui Russo ha deciso provvidamente di ambientare questa scena, plumbei e asfittici, fino ai giorni nostri tormentosi, che questa vicenda incrocia più volte, come in questa prova che, ripetutamente, implacabilmente, insistentemente ci fa accostare il qui ed ora al lì e allora facendoci scoprire costantemente nuovi ma, pure, infallibilmente uguali.

Il finale è l’inevitabile, ovvia conseguenza di tale intelligente rilettura di questo Pirandello ancora acerbo: dovrebbe andar via, la bambina, l’oggetto della contesa, con il padre, verso un avvenire sicuramente ricco – non sappiamo se felice – in una famiglia ricomposta dalla forza – dalla protervia – del decoro borghese, mentre l’amante può consolarsi al pensiero d’aver quantomeno, con il suo sacrificio, dato un futuro alla figlia, persa nel lamentoso finale “il cappellino almeno… voglio che sia bella… aspetta… aspetta …” (inutile notare quanto sia profondamente imbevuta, anche e soprattutto questa ragione, di perbenismo tradizionalista e benpensante). Russo sceglie, con grande sensibilità, un diverso esito, facendo scappar via la bambina da questo mondo asfissiante degli adulti, sparire in una nuvoletta di vapore azzurrino, suggerendo “il finale giusto della commedia. La bambina ha capito tutto! Le ragioni di uno, le ragioni dell’altro… E le sue ragioni?”: la ragione (è sempre) degli altri, mai di chi non ha voce.

La ragione (è sempre) degli altri
Fermata Spettacolo



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