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Questi fantasmi seducenti e ambigui dei nostri incubi

Questi fantasmi seducenti e Ambigui Dei Nostri incubi
Fermata Spettacolo

Scrisse Questi fantasmi, Eduardo – stando almeno a una di quelle leggende che spesso s’incontrano nella storia della vita sua – sul filo della memoria d’uno strano personaggio, prestidigitatore dilettante incontrato ad una festa di amici, che sosteneva, in perfetta buona fede – o almeno così sembrava – aver incrociato più volte, mentre rientrava, un fantasma che usciva, ben vestito di tutto punto, compresi cappotto e cappello, da casa sua: lo spirito beneducato lo salutava con un cenno di capo, pur senza proferir parola, mentre il nostro ne chiedeva alla moglie, che invece sosteneva non aver visto nessuno! Non bastasse, il ricordo correva parallelo con un’altra storia, appartenuta al patrimonio di memorie familiari: Eduardo Scarpetta da bambino aveva vissuto sulla pelle sua una vicenda che in qualche modo avvicina il padre Domenico a Pasquale Lojacono, il protagonista della commedia, sfrattato con tutta la famiglia e come lui alla ricerca affannosa d’una casa e di un senso alla vita sua; ne aveva trovata una, di casa, infine, a Vico della Salute, una casalone sacchiato che si diceva abitato da un monaciello, casa antica, solenne ed ampia che non trovava acquirente né affittuario proprio a causa dell’incomoda presenza.

Dall’incrocio dei due spunti, veri o falsi che siano non ha evidentemente alcuna importanza, Eduardo ricavò, alla fine degli anni trenta del secolo breve, negli anni ruggenti del Teatro Umoristico I De Filippo, un abbozzo di atto unico, Tutto per tutti, in cui descrive il protagonista, Arturo Penta, con una di quelle sue didascalie che sembran prese da un romanzo, come “sui trentacinque anni, bruno, alto, svelto nei gesti e nel parlare. Napoletano fino alle ossa… non si sa mai quando parla sul serio e quando per burla… adora la moglie e per la sua incerta posizione finanziaria non può darle, non dico una vita agiata ma neanche la sicurezza di un piatto di minestra… vive di speranza, di piccoli espedienti… tutto per la moglie”.

Sembra già di vedere Pasquale Lojacono, che, dopo dieci anni, nel 1945, in Questi fantasmi avrà evidentemente quarantacinque anni, come specifica la nuova didascalia, “viso tormentato… sguardo irrequieto… pallidissimo”: la guerra, probabilmente, non sarà passata invano, lasciando cicatrici profonde, e quell’atto unico, scritto solo per far ridere la gente, adesso è diventato qualcosa di molto più complesso, il vecchio abbozzo è cresciuto, appartiene alla Cantata dei giorni dispari, dove stanno le cose serie che mantengono però anima allegra, nella obliqua inquietudine di Pasquale è facile rispecchiarci tutti, crediamo o meno ai fantasmi, perché i fantasmi li creiamo noi, segni intangibili delle nostre irraggiungibili speranze disperate, anzi siamo noi, che abitiamo le grandi case barocche dell’anima, ampie come palcoscenici, dove possiamo senza tema recitare il copione che ci è stato dato, affacciandoci alle finestre dove il mondo guarda e pretende di capire.

Torna a casa, a Napoli, Questi fantasmi, al Teatro Bellini, grazie alla Compagnia Elledieffe, l’acrostico di Luca: Carolina Rosi ha voluto che i panni di Pasquale Lojacono fossero rivestiti da Gianfelice Imparato e che la regia fosse affidata a Marco Tullio Giordana, scelte quanto mai felici, non foss’altro per il pudore e la sobrietà elegante con cui ambedue hanno affrontato questo compito non facile. Mettere in scena oggi un testo di Eduardo si può fare in molti modi, superando quel gap non solo psicologico costituito dalle registrazioni di Eduardo, che hanno pesato per anni come macigni, messe in scena in cui l’attore e regista sembrava quasi volesse affermare, con l’autorità che derivava appunto dall’essere anche Autore, l’impossibilità a diversamente agire, congelando e imprigionando come in una crisalide le infinite possibilità che i testi suoi potevano offrire: così, accanto a interpreti che hanno saputo tradurre le commedie sue fino a tradirle, fino a disvelarcele come fonte d’infinite possibilità e risorse, altri ce ne sono, ed è questo il caso, in cui si sceglie una maniera apparentemente più legata a quell’universo eduardiano che sembra far parte di noi da sempre.

Tuttavia, occorre tener presente che in definitiva, come sempre, la verità è ben più complessa delle nostre semplificazioni: questo allestimento andato in scena l’altra sera, e che così gran successo sta riscuotendo, ha evidentemente ancora qualcosa da dire a noi che abitiamo il tempo dell’oggi, non è solo incomparabile documento che fotografa con tagliente acume un tempo difficile della storia della città e del Paese, quello del dopoguerra, in cui i guardaporte rubavano galline e meloni ai condomini, in cui la gente si faceva il caffè – e aveva il tempo di sorbirselo tranquillamente – sul balcone parlando col dirimpettaio, ma diventa fotografia e giudizio del contemporaneo, al netto delle vicende in qualche modo datate che sulla scena si vanno rappresentando: nelle sue note di regia Marco Tullio Giordana, maestro della scena, come lo chiama Caterina Rosi, dice che “emerge dal testo… anche un sentimento che ritrovo intatto in questo tempo, un dolore che non ha mai abbandonato la città e insieme il suo controcanto gioioso, quello che Ungaretti chiamerebbe l’allegria del naufragio”.

È questo, a ben pensarci, a fornirci la chiave di lettura più autentica di questo allestimento, come sempre ricercando, pena il completo snaturamento del testo e dell’intento di Eduardo, il perfetto equilibrio tra dolore e allegria, che diventano il passepartout grazie al quale la vicenda da sgangherata gag di fantasmi parodistici diventa parabola dell’impossibilità di comunicare, apologo sull’uomo di oggi e i suoi sogni obliqui, popolati di contraddizioni, incoerenze, ambiguità vissuti prima con se stessi e poi con gli altri.

Riesce perciò ad essere, Gianfelice Imparato, un Pasquale Lojacono convincente proprio nella misura in cui si distacca, in qualche modo e per sua propria strada, da Eduardo: se Pasquale Lojacono differiva da Arturo Penta perché l’esperienza della guerra lo aveva reso più pensoso e le miserie del dopoguerra l’avevano scavato dentro fino a portare alla luce del sole una sorta d’innocente ambiguità, di fronte alla quale la reazione degli altri – in scena come in platea – era di benevolo scetticismo, il protagonista della nostra quotidianità è decisamente più cinico, più avvertito, ha definitivamente perso l’innocenza e i sogni sull’altare del denaro, più fermamente e più scopertamente ce lo ritroviamo fratello nei nostri personali tradimenti, nella notturna metamorfosi dei sogni in incubi popolati di fantasmi seducenti e ambigui nella loro apparente benignità, fino a che il denaro non finisca per costituire ormai l’unico carburante per i sogni che restano, se restano, indipendentemente da come poi uno effettivamente se lo procuri: “Giulietta e Romeo dovevano essere ricchissimi, se no dopo tre giorni si pigliavano per i capelli…”, “Il lavoro onesto è doloroso e misero…”, “perché il coraggio te lo dà il danaro… e senza danaro, si diventa timidi, paurosi. . . senza danaro si diventa delle carogne” sono frasi scritte da Eduardo e pronunciate da Lojacono ma credo che mai prima d’ora siano risultate così evidenti nella loro crudezza e nella loro attualità.

Stesso discorso per Maria, così magistralmente interpretata da Caterina Rosi: a rivedere le immagini delle vecchie registrazioni la moglie di Lojacono è una donna che vive soprattutto di silenzi e di attese: la sua condizione di donna, e di donna fedigrafa che vive enormi sensi di colpa nei confronti del marito la rende, probabilmente, così taciturna e circospetta. Ci ritroviamo oggi sul palcoscenico del Bellini una donna in tutta evidenza diversa, che non ha perso in femminilità ma che ha acquistato, e molto, in consapevolezza e risolutezza, fino a compiere il gesto finale di lasciare comunque la casa dei fantasmi per andar via, non importa in definitiva dove, per cui pure le parole finali di Pasquale che parla con Santanna, “Sotto altre sembianze?….È probabile… chissà” acquistano un significato del tutto diverso: se prima potevano ambiguamente e beffardamente intendersi come una porta lasciata aperta ad un altro possibile amante della moglie, ora sono da riferire solo al denaro che potrebbe arrivare per altra strada, con tutta evidenza, quel denaro che diventa il vero protagonista della commedia, sinistro idolo che merita ogni umano sacrificio e a cui vendere l’anima.

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Fermata Spettacolo



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