Get Even More Visitors To Your Blog, Upgrade To A Business Listing >>

Vangelo, Via Crucis laica dell’amore

Vangelo, Via Crucis laica dell’amore
Fermata Spettacolo

All’inizio, prima che tutto cominci, sul palco del Teatro Bellini, qui a Napoli, attendono undici poltroncine di velluto rosso, un grande pannello grigio alle spalle: Vangelo di Pippo Delbono comincia allora così, con gli attori in eleganti abiti da sera che prendono posto sulle undici poltrone, come partecipassero ad un rito, guardando fissi verso la platea. In verità tutta la situazione sa un po’ di déjà vu, rinviare lo sguardo agli spettatori è in fondo un vecchio trucco, si usava una volta – un’era fa – soprattutto per suscitare l’autocompatimento nel pubblico borghese. E in effetti forse l’Autore e protagonista, nascosto per il momento laggiù in fondo al teatro – non lo vediamo, ne sentiamo la voce – dice, fra l’altro, qualcosa che a questo processo mentale e drammaturgico si riferisce: afferma, in sostanza, che, in fondo, le chiese silenziose e semibuie, odorose d’incenso e morte, molto somigliano alle eleganti e avvolgenti sale dei teatri, celebrando a ben vedere un rito nell’un caso e nell’altro. Così, si comprende come il particolare motivo biografico che Delbono adduce come base dell’idea di questo spettacolo, promessa cioè alla madre morente, credente e forse un tantino preoccupata per questo figlio che aveva abbandonato la fede tanto tempo fa, sia in fondo occasione per ritornare, forse, sui propri passi, ripensare il percorso doloroso del proprio rapporto con Dio, a partire dall’urlo iniziale “Io non credo…” che è, insieme, confessione e attestazione, furore e laica preghiera, ulteriore tassello della ricerca che Delbono porta avanti, a ben pensarci, in ogni suo spettacolo, cercando se stesso e l’eternamente Altro, si chiami Dio o Prossimo, Bobo o Nelson o altro derelitto raccolto sulle spiagge del tempo nostro.

Dio, Gesù, diventa allora, come giusto, la forza dell’amore da contrapporre all’odore di morte, Eros contrapposto a Tanathos, autenticità a rito: e così lo spettacolo diventa parole e Parola, dolente mix di testimonianze e Annuncio della buona novella. L’Amore, la Vita, si trova probabilmente fuori dalle chiese – probabilmente fuori anche dai teatri – negli ultimi che incontriamo sulla nostra strada, posto che riusciamo a vederli. Non è un caso che l’Autore riferisca – è un continuo entrare e uscire dalla propria personale esperienza, anzi un risalire dalla particolarità della propria vita ad un grande, possibile, Progetto condiviso – di come spesso proprio nel momento in cui si raggiunge il punto più basso, il momento in cui si fa esperienza della propria fragilità, con la malattia, si possa trovare qualcuno, figura probabilmente di Qualcuno infinitamente Altro, con cui risalire e proseguire il proprio percorso: è stato così con Bobo, incontrato nel momento buio dell’AIDS, è il caso degli immigrati – “che ci fanno anche un po’ paura” – con cui spartire un pezzo della propria vita, spezzare il pane della condivisione, come il ragazzo afgano incontrato nel momento di una degenza in ospedale per problemi di vista e che viene a portare la sua esperienza fatta di mari solcati nella paura, morte che si prende gli amici più vicini, amarezza che si fa, nonostante tutto, beatitudine evangelica. Diventa così, questo spettacolo, testimonianza dell’amore, perché il Vangelo, la Buona Novella non è – almeno non dovrebbe essere – altro che questo, pur se oggi il vero messaggio risulta decisamente meno visibile, nascosto sotto la polvere delle abitudini, delle convenienze, del potere che ha ormai asservito l’amore.

Accuratamente vengono scelti i brani proposti: un passo delle Confessioni di Agostino, Cosa amo quando amo te accostato al Prévert di Questo amore riesce a far ben comprendere la bellezza dell’Amore universale contrapposto al Dio che si venera nelle chiese, “sempre e solo maschio”, meglio il Diavolo, fa più simpatia – Simpaty for the Devil – almeno probabilmente è bisex, facendoci ben comprendere che l’unico messaggio che interessa l’Autore è quello di una forma universale d’amore, eros indistinto da agape, unici destinatari gli ultimi, evocati da Pasolini in Profezia: “Essi sempre umili/essi sempre deboli/essi sempre timidi”. E poi, naturalmente il Vangelo: Delbono sceglie alcuni passi molto significativi dei Vangeli canonici: non è, questo, il “Vangelo secondo Delbono” e nemmeno un collage di brani di vangeli apocrifi a bella posta scelti per dimostrare ciò che si vuole. Il primo brano è quello dell’adultera: la condanna implicita della tanta ipocrisia che ancora alligna nelle nostre chiese – e fuori – si coniuga, in questo caso, sul riconoscimento di Gesù come colui capace di parlare d’amore, anche se molti vorrebbero farlo tacere. Il discorso della montagna, letto da Delbono mentre scorrono le immagini di profughi in un campo di grano, prosegue questo percorso intorno alla figura di Gesù: sono gli ultimi i beati, sono gli ultimi i felici, anche se ancora oggi, dopo due millenni, queste parole sono misconosciute, annacquate, equivocate. La crocifissione è la tappa successiva, evocata da Delbono con grande potenza: il corpo di Nelson, magro e ossuto come il Cristo morto di Holbein è il vero Corpo di Cristo, contrapposto ai nostri grassi tempi, crocifisso da un consesso di rossi sacerdoti sulle note potenti del convito di pietra che chiude il don Giovanni di Mozart con l’inferno che si apre sotto i piedi del peccatore, sotto i nostri piedi.

La musica gioca comunque un ruolo molto importante nello spettacolo: l’Orchestra e il Coro del Teatro San Carlo, diretti da Gabriele Di Iorio esegue le musiche di Enzo Avitabile che scandiscono i vari passaggi di Vangelo con grande efficacia, come in una laica e appassionata Via Crucis. Accanto a queste, la musica viene utilizzata in funzione di volta in volta provocatoria – la scena del Diavolo con Delbono in giacca rossa, corna e forcone al ritmo di Simpaty for the Devil – ironica – la caricatura di Gesù che canta Tu sei l’unica donna per me di Alan Sorrenti – evocativa – un lied di Schumann accompagna il pubblico elegante sulle poltrone rosse all’inizio – suggestiva – il citato Don Giovanni a cenar teco del povero cristo crocefisso – liberatoria – la danza sfrenata sulle note di Jesus Christ Superstar. Alla fine, Delbono porta in scena Gianluca, l’attore Down della compagnia, che, come un bambino, viene messo in una culla, vicino a un cavallo a dondolo: la rappresentazione visiva della frase di Gesù: “se non ritornerete come bambini non entrerete mai” segna il punto di arrivo di questo appassionato percorso sulla fede che non può evidentemente trovare migliore conclusione che questa. È il bambino, il suo punto di vista, la sua capacità di vivere l’amore in modo totale e senza ipocrisie, il modello, paradossalmente evangelico, di una fede adulta e consapevole che trova nella verità il vero fondamento della libertà, perché è la verità che ci farà liberi: certo, “se Cristo me l’avessero raccontato così, forse sarei diventato un buon cristiano. Come voleva mia mamma”. A cui dedica, ancora una volta, la sua fatica.

Vangelo, Via Crucis laica dell’amore
Fermata Spettacolo



This post first appeared on Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E, please read the originial post: here

Share the post

Vangelo, Via Crucis laica dell’amore

×

Subscribe to Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E

Get updates delivered right to your inbox!

Thank you for your subscription

×