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Traslucide trasparenze marine del Simon Boccanegra

Traslucide trasparenze marine del Simon Boccanegra
Fermata Spettacolo

Opera complessa, Simon Boccanegra, spesso d’oscura e complicata macchinosa intelligenza: capita spesso di vederla, a teatro, come pure ieri sera qui al San Carlo di Napoli, accompagnata al rituale ormai scontato di taluni giovani o non avvezzi frequentatori animatamente discutere sul senso e l’esito della trama, abbastanza contorta e inverosimile – figlia anch’essa, come il Trovatore degli anni convulsi e romantici, di quel García Gutiérrez dalla famigerata sbrigliata fantasia – persa tra le due Marie, di cui una ribattezzata pure Amelia, e i Fieschi e i Grimaldi, e i salti d’epoca repentini, per poi finire sconcertati dall’inusuale ricchezza di voci maschili a fronte dei femminili, dall’assenza d’arie memorabili, pur in presenza di musica tanta e bella. Certo non è l’opera popolare che il medio melomane possa legittimamente aspettarsi da Verdi, luogo inedito piuttosto della sperimentazione, della verifica e del vaglio, ancora in mezzo al guado pericoloso delle mille insidie dell’insaputo, prova generale della collaborazione tra il compositore e il giovane Boito, come se forme nuove, già presenti in fondo e in varia maniera da Don Carlo ad Aida, cercassero di trovare affannosamente e finalmente compiutezza e maturità e pacificazione, che s’incarneranno poi, di lì a poco, in Otello e Falstaff. E tuttavia ecco riapparire a tratti – ben più d’un tratto, in verità – la forma chiusa, l’antico che insistentemente continua a farsi strada nella mente del vecchio compositore, insieme al travaglio che accompagna la comparsa della novità, del cambiamento, continuo mutare dell’arte, come della vita.

Diventa così, in qualche modo, dunque, Simon Boccanegra, anche addio al passato, a certe insistite cellule e tinte e toni musicali che pure avevano accompagnano il compositore per tutta la vita; e poi, poi pure i fantasmi occorra ormai spariscano all’alba dell’atto ultimo, come le brume oscure della notte: diventa così Simone ultima metamorfosi del mito dei miti verdiani, estrema declinazione dell’eterna e sempre cangiante idea di paternità – e che padre! – che viene ad aggiungersi e a compiere la lunga schiera di padri egoisti e teneri, calcolatori e ingenui, spesso tragici difensori dell’onore e dell’ordine costituito contro il potere rinnovatore e sovvertitore dell’amore che ha accompagnato tutta la vita di Verdi. Otello e Falstaff non contemplano padri e Boccanegra appare comunque indenne da quella sorta di opsimathia che tanto spesso ha riguardato questi ciechi genitori. Anche da questo punto di vista Simone è padre anomalo, rispetto allo standard verdiano, in continua incessante ricerca dell’inseguito e mai raggiunto modello del Re Lear, lungamente vagheggiato e mai realizzato: dopo la scontata e felice agnizione, diventa padre giusto e amabile e, perfino di fronte alla scoperta che l’amante della ritrovata figlia è l’aborrito nemico Gabriele Adorno, di buon grado si lascia convincere dalla figlia delle buone intenzioni del giovane e li benedice, lasciandogli perfino in eredità la berretta di primo abate, invece di lanciarsi nella prevista invettiva-cabaletta di sangue e maledizione. Uomo di mare e di pace, Simone specchia e riflette l’essenza sua e della città – come fosse un indissoluto unicum – nell’onnipresente mare, sulla cui cellula musicale, eternamente eguale, eternamente cangiante, Verdi costruisce la sua partitura, come lo scrigno della parabola, da cui tirar fuori cose vecchie e cose nuove.

E il mare – potrebbe essere diversamente? – è pure alla base dell’idea registica di Sylvano Bussotti, originale uomo di cultura, d’arte e musica, artista poliedrico e raffinato che firma regia, scene e costumi di questo allestimento, realizzato nel 1979 per il Regio di Torino; da allora, evidentemente, di acqua – come quella del mare – ne è passata sotto i ponti, i gusti son cambiati, le tecniche – sceniche e drammaturgiche – pure, e forse di più, quasi quarant’anni non passano evidentemente invano. Ciò detto per amor della verità e della cronaca, il vostro recensore deve chiedersi necessariamente se il peso degli anni pesi implacabilmente sulla rappresentazione (ciò che comunemente trova sintesi nella parola “datato”) oppure se, al contrario, questo incontrovertibile dato di fatto non influisca per nulla sulla fruibilità di questa messa in scena, rendendo l’opera, anzi, piacevole e avvincente. Il giudizio, evidentemente, come la verità, sta nel mezzo; il mare è giustamente al centro dell’idea di Bussotti, perfetto riflesso del concetto verdiano: mare che è più idea platonica che realtà (non a caso non si cura d’esser realistico più di tanto, affidandone la resa visiva a cilindri rotanti, non per amor d’una desueta tradizione ma proprio per sottolinearne l’appartenenza ai noumeni e agli archetipi più che ai fenomeni e alle cose transeunti), sempre uguale a se stesso eppure sempre mutevole, perfettamente in linea con il clima culturale di quegli anni – anche non volendo citare il solito Wagner e il Tristano, con cui, al di là dell’apparenza, il mare del Boccanegra ha tanti punti in contatto, a partire dal fortissimo irresistibile movimento ascensionale infinito, anticipa di qualche anno, sul piano della musicalità del verso L’onda dannunziana, sul piano musicale La mer di Debussy – fondamentale archetipo del movimento da cui derivano tutti i cambiamenti e le forme, la vita stessa, non proponendosi un obiettivo descrittivo – non è certo musica a programma – piuttosto indicando il mistero, attraverso la mutevolezza e l’incertezza, teso a un’estetica del sottile, del leggero, del mobile e insieme del forte e dell’implacabile, dell’immutabile e dell’eterno.

Mare che per Bussotti è davanti e dietro, sopra e sotto, a destra e a sinistra, pervade la scena, traspare attraverso le forme rivelandone la fuggevolezza e la labilità al dì là dell’apparenza d’illusoria solidità e granitica potenza: disegna le scene, l’artista fiorentino, come fossero neogotici quadri di chiare città chiuse nelle mura turrite che racchiudono cattedrali dagli alti campanili, portici dai capitelli infiorati che lasciano intendere al di sotto varchi ombrosi e infidi, spesso tenui velature che traslucono ai labili bagliori del sole come gocce di rugiada che presto s’arrenderanno al calore, polittici dall’ingannevole doratura pronta a cedere alla forza dell’odio e del potere, riferimenti allegorici e simbolici, citazioni dell’arte preraffaelita che rimandano ad un medioevo astratto e favoloso, assolato e onirico, ad usum dei posteri più che dei naturali abitanti di quei fiabeschi anni. Così anche i costumi, colorati e vivaci, ricordano molto le illustrazioni dei sussidiari ad uso nelle scuole di tanti anni fa – non so dell’oggi – che i giovani studenti utilizzavano per render meno indigeste le lunghe pagine scritte a mano delle ricerche; meglio, ancora, al medioevo fantasioso e fantastico delle tavole del Principe Valiant di quel grande artista che fu Alex Raymond, che tanti sogni addusse ai giovani di quegli anni lontani, epoca vera solo nell’immaginario degli eterni adolescenti: scene, costumi e regia “tradizionali”? Fate un po’ voi, come vi piace, qualsiasi cosa voi intendiate per “tradizionale”. Ciò che io ho visto è un punto di vista ben originale e fuori da ogni possibile moda, lontanissimo dal polveroso folclore che taluni si ostinano a chiamare fedeltà al libretto e che diventa misura di ogni possibile giudizio.

Non così originale, purtroppo, la direzione di Stefano Ranzani: non possiamo che ripetere i concetti già espressi di recente, per l’ultima Lucia di qualche mese fa: il direttore dà l’impressione di aver sempre ben salde le redini dello spettacolo, evidenziando pregi e limiti di una partitura, come detto, “imperfetta” in senso di tensione verso una pienezza imminente; il problema è la mancanza di grandi idee musicali, fino ad apparire, in certi frangenti, un po’ ruotinari certi passaggi, un po’ superficiali talaltri aspetti – perdendo l’irripetibile occasione di sottolineare proprio l’imperfezione in cui risiede il fascino di questa partitura – cui comunque fa da contraltare la gran professionalità dell’Orchestra e del Coro, puntuale nelle entrate e sempre perfetto dal punto di vista musicale, non essendo certo imputabili ad esso e al suo Maestro Marco Faelli certe ingenuità nel movimento delle masse e dei solisti: certo, converrebbe alla ripresa della regia, di Paolo Vettori, cercare di curare di più questi aspetti, evitando di dare l’impressione, più volte registrata, di elementi che si muovono all’interno delle scene come corpi estranei o come alieni visitatori di quelle ignote lande. La vera sorpresa – e piacevolissima – della serata è stata comunque il giovane baritono Amartuvshin Enkhbat, nelle vesti del protagonista, voce generosa di cui certamente sentiremo parlare molto nei prossimi anni: bella voce, molto bene a fuoco negli acuti, padronanza di tecnica, controllo perfetto dei volumi, dalla grande credibilità scenica, a me ricordava, la voce sua, quella d’un grande baritono di qualche anno fa e di cui per ovvio pudore tengo il nome per me, augurando comunque a questo bravo cantante una altrettanto luminosa e lunga carriera.

Accanto a lui, Giorgio Giuseppini, da me particolarmente apprezzato, conferma la consueta professionalità sua, dalla tecnica consolidata che si unisce ad una interpretazione misurata e adeguata, senza nessun cedimento alla caratterizzazione, ieratica e sprezzante al punto giusto, come ha da essere per il nobile personaggio di Fiesco. Problematica, invece, per molti versi, l’interpretazione dell’Amelia di Davinia Rodríguez, dall’ottima presenza scenica ed espressiva cui peraltro fa da contraltare una voce che, piuttosto bella sugli acuti, anche se si apre e spesso diviene grido, soffriva nei gravi d’emissione monocorde e compromessa da particolari risonanze tanto da apparire come intubata. Leonardo Caimi, Gabriele Adorno, ha invece una voce da tenore lirico puro e schietto, tradizionalmente italiano, dal timbro piacevole ed espressivo che, unito a ha una bella ed eloquente presenza scenica, gli consente di superare efficacemente la prova. Dai carteggi risulta come Verdi fosse assillato, per la prima alla Fenice, dalla ricerca di un baritono comprimario che riuscisse ad affrontare la complessità del personaggio di Paolo Albiani, in pratica un bozzetto sperimentale – anche qui – per ciò che domani sarà Iago: in poche parole, un co-protagonista. Ebbene, Gezim Myshketa regge benissimo la prova, grazie alla perfetta tecnica vocale, alla voce dal bel colore scuro ma limpido che riesce senza sforzo a produrre suoni morbidi e dalla giusta robustezza, unita alla brillante presenza scenica, per un ruolo in cui spessissimo il canto cede il posto al declamato.

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