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Racconto d’inverno e Otello, ovvero il sentimento del tempo

Racconto d’inverno e Otello, ovvero il sentimento del tempo
Fermata Spettacolo

Se per ventura fosse capitato ad un ignaro viaggiatore entrare per caso ieri sera nella gran Sala del Bellini qui a Napoli, all’oscuro di quanto si va rappresentando in quel Teatro già dalla scorsa estate – è del tutto superfluo sottolineare l’improbabilità dell’ipotesi – avrebbe trovato un gran rimescolìo di palchi, panche e palco: quest’ultimo, smodatamente cresciuto in avanti, ad occupare quattro quinti dello spazio prima destinato alla platea, si trova così ad essere al centro – non più solo metaforico – dell’attenzione degli spettatori: si svolge in tal modo l’azione in uno spazio inconsueto, acquistando improvvisamente una tridimensionalità e una profondità inusitata.

Il Globe del Golden Age d’Elisabetta – ciò che supponiamo fosse il Globe – ricostruito a Napoli ci fa render conto improvvisamente, con subitanea e imprevista rivelazione, di quanto la consueta scena del teatro “all’italiana” tenda a schiacciar l’azione sullo sfondo, costruendo, è vero, a volte, occasione per scenografie ricche e sontuose, piacere per gli occhi, ma rinunciando fondamentalmente ad una delle dimensioni di cui è fatto il nostro spazio: impossibile non costringere a chiedere a me stesso se fosse più realistica, più adatta alla rappresentazione, la macchina teatrale del barocco inglese, rispetto alla scena classica. Domanda evidentemente destinata a non aver risposta; quel che è certo è che ti vincola, questa soluzione, ad una maggior partecipazione, non foss’altro che per l’impercettibile ma significante sforzo che la mente tua deve fare per immaginarsi scene, fondali, alberi e colonne, perché, fatti salvi gli oggetti di scena le luci e i costumi, in nulla è distinguibile il sovraccarico salone di cattivo gusto dall’aula del tribunale, la reggia dei re e dei ministri dal tugurio del pastore. Così, le tre tragedie e le tre commedie del bardo, opportunamente abbinate, già presentate quest’estate per una sola sera, secondo la brillante e stimolante idea dei fratelli Russo, tornano per l’inaugurazione della Stagione nuova del Bellini, per una più ampia e comoda fruizione del pubblico: come in quell’occasione le opere son presentate accostando nella stessa sera una commedia e una tragedia – com’era in uso, del resto, all’epoca in cui furono scritte – e ieri sera è stata la volta di Racconto d’inverno e di Otello.

Poco rappresentata – immeritatamente, sottolinea il regista Francesco Saponaro – la prima è opera del Bardo ormai maturo, dall’ampio procedere che ha i tempi e le modalità dell’epopea, quasi romance come l’opera – Pandosto, or The Triumph of Time – da cui Shakespeare trasse, opportunamente modificandola per i fini suoi, il filo della trama con cui tessere una diversa tela: la riscrittura, di Pau Mirò ed Enrico Ianniello, si avvale della regia, come detto, di Francesco Saponaro, e dell’interpretazione di Luigi Bignone (Florizel), Rocco Giordano (Palluso/Carceriere), Tony Laudadio (Antigono/Pastore), Mariella Lo Sardo (Paolina), Vincenzo Nemolato (Autolico), Francesca Piroi (Perdita/Emilia), Marcello Romolo (Camillo), Leonardo Antonio Russo (Mamilio), Roberto Caccioppoli (Polissene), Edoardo Sorgente (Leonte), Petra Valentini (Ermione/Mopsa). Otello è invece la tragedia universalmente nota, e viene portata sulla scena nell’allestimento della Compagnia Nest, che vede l’adattamento e la regia di Giuseppe Miale di Mauro, la drammaturgia di Gianni Spezzano, l’interpretazione di Viviana Altieri (Emilia), Francesco Di Leva (Otello), Martina Galletta (Desdemona), Giuseppe Gaudino (Rodrigo), Adriano Pantaleo (Iago), Andrea Vellotti (Cassio).

Ambientata tra gli anni Cinquanta e i Sessanta del Novecento, la scelta registica del Racconto privilegia un andamento più decisamente classico e alcune precise opzioni stilistiche, a cominciare dalle musiche, con una overture geniale e di sicuro effetto: i principi reali entrano in scena ostentando la pienezza della loro giovinezza, accompagnati dalle note della Sinfonia dei Vespri siciliani, che ne sottolinea la felicità ma, insieme, finisce per diventare oscuro presagio di quanto andrà a succedere di lì a poco: non solo, dunque, mera notazione che focalizza il legame con la Sicilia diventa, insieme irruente e cantabile, tenera e forte, questa musica, puntuale contrappunto della sorte tragica che infrange un’utopia di pace, annientata da inutile violenza. La pizzica salentina accompagna invece l’ambientazione pastorale nella Boemia di pura invenzione teatrale della seconda parte, dove, con felice intuizione, lasciar parlare un dialetto che è un po’ la somma di tutti gli idiomi del nostro sud. L’Otello, d’altra parte, colpisce invece per la sua franca immediatezza, è più bruciante, nella scelta dichiarata, ambientandola nella Napoli contemporanea, d’una irruzione nella quotidianeità lordata di violenza, femminicidio, omicidio: la scelta conseguente delle musiche è, anche qui, pienamente condivisibile e si avvale del rap e delle musiche originali di Ralph P.

Certo, in primis, la gelosia: come fa a non saltare agli occhi? La gelosia, “idra fosca, livida, cieca, col suo veleno se stessa attosca” è sicuramente al centro dei due testi, motore delle vicende, assumendo tuttavia caratteristiche discordi e diverse origini: scoppia inconsulta e cieca, in assoluto contrasto col vissuto reale dei personaggi, altra giustificazione non cercando e non trovando se non in se stessa, del tutto avulsa dall’agire dei personaggi, nel Racconto, quasi morboso esito d’un malefico virus – come diremmo noi – o d’irridente malìa – come all’imprecisato tempo degli eventi avrebbero pensato; in Otello, invece, è, come si sa, frutto paziente del lavorìo di Jago, obbedisce dunque ad un ben preciso disegno eterodiretto, inizia piano a diffondersi nella predisposta e fertile mente d’Otello per crescere poi, e lievitare ad ogni inconsulto e malinteso segno, alimentato d’ogni sconsiderata negazione, da qualsivoglia incauta smentita.

Ad una diversa origine del male risponde, poi, una divergente evoluzione, che prelude ad ineguale prognosi, risolvendosi in guarigione nell’un caso, in morte nell’altro: così, nel Racconto di Saponaro la vediamo nascondersi e rintanarsi negli angoli bui e grigi dell’immaginato palazzo di Leonte, fuggir via dalla luce accecante di Sicilia tanto da lasciar in penombra le dimore dei re, ben lontano dalla supposta allegria dei semplici, nutrirsi del dolore fino a gravar del peso suo le indebolite strutture del potere – e il pesante trascinar del trono dall’incurvito e dolente principe è eloquente più d’ogni discorso – fino ad un passo dall’esito in tragedia; l’osserviamo, invece, quello stesso male, nell’Otello di Miale di Mauro, repentino fiorire nel bianco accecante del banchetto nuziale di Desdemona, matrimonio tremendo e rifulgente di luce malata che sembra uscito dalla penna dell’autrice – chiunque sia – de L’amica geniale, ove più che mai s’addensano e s’incarnano e s’affrontano le tensioni inquiete e ostili generate dagli uomini e dalle donne d’una Napoli – cancellando perfino il ricordo della preziosa Cipro del Bardo – che cresce e prospera nel kitsch degli esagerati gesti, della violenza trattenuta e mascherata, nutrendosi – fino a morirne – degli sguardi obliqui e fasulli di chi guarda senza vedere e ascolta senza sentire, bruciando vita e gloria nello spazio angusto dell’unica giornata.

Perché poi, a ben vedere, è il Tempo, ad assumere il ruolo di vero protagonista delle due storie, un po’ per scelta dell’Autore, un po’ di chi lo mette in scena. Si dilata, così, la storia del Racconto, nel lungo percorso di sedici anni: itinerario inusuale, per un dramma, sì da farlo avvicinare, ai tempi e ai modi dell’epopea, ma che trova proprio nello scorrere del tempo giustifica e significato. La stessa struttura bipartita dell’opera – prima la Sicilia della corte e della tragedia, delle infondate accuse, del male oscuro del principe, poi la Boemia insolitamente solare e pastorale, dell’eterno rinnovarsi della primavera e dell’amore, premessa di una risoluzione positiva che non potrà che avvenire se non in Sicilia, dove tutto era cominciato – trova raccordo proprio nel personaggio del Tempo, rappresentato dal regista come un uomo senza volto, al di sopra e al di là di caratterizzazioni legate alla precarietà dell’effimero: e se è vero che, com’è ovvio, la comparsa in scena del Tempo serve, narrativamente, a sottolineare il trascorrere di ben sedici anni, è tuttavia impossibile non scorgere in questa vera e propria apparizione, situata al centro dell’opera, il manifestarsi profondo di un “sentimento del tempo”, come poteva intenderlo Ungaretti, sintomo dello scontro, nell’uomo barocco come in quello contemporaneo, tra l’essere e il voler essere, “in preda… all’esaltazione della propria infallibilità fantastica di facitore, e al sentimento della propria precarietà”.

Lo ritroviamo pari pari, a ben vedere, questo stesso sentimento del tempo, pure nell’Otello di Miale di Mauro, anche se in apparenza d’opposto segno: sceglie, il regista, di condensare il tempo della tragedia in uno spazio estremamente breve, inventando il banchetto nuziale e facendo esplodere lì la gelosia del protagonista, arrivando perfino a talune forzature narrative. Se, infatti, il dono nuziale d’Otello alla sua sposa – il fazzoletto su cui Jago costruisce la sua rete – viene consegnato durante il matrimonio, sotto i nostri occhi, come avrebbe potuto esser dimenticato dall’infedele Desdemona nell’alcova di Cassio? È sì, la gelosia d’Otello, frutto malato d’una malapianta cresciuta in un terreno fertile, ma Otello non è affatto un folle, Jago non avrebbe avuto molto spazio di manovra in questo caso. E tuttavia crediamo che la forte esigenza di stringere i tempi della tragedia per renderli perfino più violenti e brucianti di quanto non siano nell’originale, possa giustificare, almeno in gran parte, certi squilibri della narrazione.

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