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Fedra nostra contemporanea, contaminazioni d’Oriente, furori mediterranei

Fedra nostra contemporanea, contaminazioni d’Oriente, furori mediterranei
Fermata Spettacolo

Certo, è per noi piuttosto difficile fino in fondo comprendere quali fossero i sentimenti e le emozioni del pubblico del I secolo dopo Cristo, suscitati dall’assistere ad una tragedia come Phædra di Lucio Anneo Seneca, che oggi rivediamo qui reincarnata in questa Fedra al Teatro Grande di Pompei, ad opera del potente adattamento registico di Carlo Cerciello: gente smaliziata, per molti versi ormai distante dal mondo greco classico, così aperta alle influenze che venivano dall’oriente, già contaminata, anche se alla lontana, dall’influsso di quella nuova religione che pur dal vicino oriente veniva, che predicava d’un dio che si faceva uomo fino alla morte. E, di sicuro, ogni adattamento, ogni traduzione, porta in sé, alla radice, pure il senso del tradimento: sta alla cultura, alla sensibilità, alla professionalità di chi s’assume il ruolo di condurre il gioco, far sì che, delle tante infinite possibili infedeltà, si possa arrivare a quella che riesca, per un caleidoscopico incastro ben riuscito, a farci rivivere, pur giocando con diversi contesti e situazioni, quelle stesse emozioni, per noi che viviamo l’oggi, trasformando il gran teatro in una potente macchina del tempo, non già trasportandoci in un altrove di cui non comprenderemmo alcuna coordinata, ma donandoci la possibilità di rivivere quelle vicende con la sensibilità nostra, le nostre miserie e le nostre idealità, desideri, grettezze, passioni.

Dimostra, Cerciello, nella concreta essenzialità della sua regia, da un lato, la comprensione di quali fossero l’altezza, la lunghezza e la profondità in cui si muoveva l’autore e quali le passioni che negli spettatori del secolo suo suscitasse la visione d’una tal tragedia, dall’altro la sapienza di contestualizzare questi contenuti e questi sentimenti, andando ben oltre il banale contemporaneo trasdurre, che tanto spesso si riduce a trasbordare situazioni e personaggi in una quotidianeità che diventa solo, inevitabilmente, operazione volgare e violenta, nella sua scoraggiante prevedibilità e sostanziale inutilità, quando non sia puro gioco fine a se stesso. Opera, allora, tra comprensione e sapienza, prima d’ogni altra cosa, il regista, sul testo, con interventi non solo sulla lingua, ma pure sulla struttura: così, elimina quasi del tutto citazioni e riferimenti a popoli antichi e vetuste città, poi a relazioni al mito che risulterebbero, soprattutto nell’utilizzo delle genealogie, del tutto ostici e quantomai inutili ed estranei al moderno spettatore, mettendo in luce, invece, concetti, rimandi, richiami a idee ed immagini universali che a questo punto assurgono senz’altro a chiavi di volta dell’intera costruzione.

Seneca, poi, fa aprire la tragedia dalla monodia ritmica di Ippolito, il lungo intervento che celebra la scelta eversiva del giovane principe, il suo rifiuto della sessualità, l’amore, invece, per la selva, la caccia, dedicandosi così ad Artemide piuttosto che ad Afrodite; a questa dichiarazione d’intenti e, potremmo dire, scelta esistenziale di Ippolito, segue l’altrettanto lungo prologo di Fedra, già preda della passione, del furore della brace che arde le carni, in una struggente quanto esplicita scelta sentita come contro natura dalla protagonista: sceglie, Cerciello, di innestare l’uno sull’altro i due monologhi, creando, dunque, una sorta di dialogo a distanza, in cui, alla soluzione testuale, fa riscontro pure quella scenica. La selva che fa da sfondo, costituita dagli alberi stilizzati della scena disegnata da Roberto Crea, è infatti, visivamente divisa in tre zone: la prima, dorata, è il regno ove si muove la regina e le sue ancelle, asfissiante palazzo reale dove tutto, dagli abiti della corte – sorta di kimono completo di obi (i magnifici costumi si devono alla matita di Alessandro Ciammarughi) – a quello della regina – imbalsamato nella rigidità dell’etichetta e dell’istituzione – alla rigida codifica dei movimenti – come in un rituale dove tutto è previsto e prevedibile – tende al soffocamento di ogni libertà, in una asfittica e ossessiva fame d’aria; la seconda, selva verde lussureggiante, è l’ambito in cui invece vive Ippolito, selvaggio figlio d’amazzone, insieme ai più liberi compagni di caccia e d’avventura; al centro, alberi neri fan da corona ad una porta buia, il regno dell’Ade dove da tempo è scomparso Teseo, a inseguir l’ultima delle sue imprese e da dove poi ritornerà alla fine della tragedia.

Tre mondi inconciliabili, dunque, chiuso ciascuno nella propria incrollabile “diversità”: la Fedra di Imma Villa è insuperabilmente astratta e umana insieme, fanciulla e regina, fragile e forte, riuscendo a rendere magistralmente, e tutto insieme, da una parte l’algida e ferrigna maestà regale, chiusa nel manto reso algido dalla inflessibilità della forza, crisalide immonda del potere, magnifico e barocco emblema d’energie ancestrali concretizzate in forme enfatiche, che non a caso viene, una volta dismesso dalla protagonista, eretto come inviolabile, imperturbato totem nell’area regale; dall’altra la debolezza della donna, che di quell’abito fortezza e prigione insieme, trova la forza, tuttavia, di liberarsi: come se riuscisse, l’attrice, a riprodurre congiuntamente – non sembri inopportuno il paragone, molte mi son sembrate le citazioni, le contaminazioni, i rinvii all’opera lirica e alle sue rituali forme (non solo per le belle musiche di Paolo Coletta) – il conturbante gelo di Turandot e la disarmante tenerezza di Liù, fino all’estremo sacrificio.

Nella mente confusa della protagonista, Teseo e Ippolito appaiono sovrapposti, rivelando sorprendenti analogie nella scoperta diversità: da ciò discende la decisione – audace ma inappuntabile della regia – di scegliere lo stesso attore, Fausto Russo Alesi, per le due parti: riesce ad essere decisamente convincente nel rendere – come nelle note di regia – sia il puer dell’uno sia il furor dell’altro, tanto da sembrare a tratti, se non sapessimo il contrario, sdoppiarsi nel rinviare alla follia del viver nell’apparente rinuncia dell’uno, stordendo volutamente nell’attonito silenzio della natura il rifiuto e dell’amore e del potere, e, d’altro canto, nel ritorno dal regno dei morti dell’altro, asservire tutto il proprio essere alle esigenti necessità del potere: se il manto regale di Fedra ha la forza di rimanere rigidamente eretto, una volta che l’umano è venuto meno, quello di Teseo è semplicemente un abito, il potere in questo caso non risiede in alcun apparato esterno, è ormai connaturato all’uomo, tutt’uno con esso, identificato e inscindibilmente fuso nella persona stessa del re.

Accanto ai protagonisti, ma non seconda a loro, Bruna Rossi riesce a cavare dal personaggio della nutrice, molto più di quanto ci si aspetterebbe: ella non è solo rigida e amorevole fantesca, incarnazione dei valori tradizionali: riesce nell’impresa di rivestire, per entrambi i protagonisti, i panni della mater ch’essi più non hanno, e di una mater dotata d’altissima e durissima autorità; e son panni che, pur visivamente nulla hanno di dimesso o di servile, né, come le ancelle del coro, si richiamano ad un oriente lontano e congelato nella ossessiva ripetitività del rito: essa appare cosciente pienamente del suo potere e delle sue convinzioni, fino ad incombere, incarnazione d’una ragion di stato inflessibile e severa, sui protagonisti, poco propensa a credere ai vecchi dèi falsi e bugiardi, quanto piuttosto alla libera e cosciente determinazione degli uomini. Evidente segno dei tempi cambiati.

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