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Un maestro di cappella alla prova d’orchestra

Un maestro di Cappella alla prova d’orchestra
Fermata Spettacolo

Uno dei temi che spesso si ritrova, percorrendo la storia del teatro in musica del setto-ottocento, fino ad arrivare alle raffinate stilizzazioni novecentesche, è il tema del commento, di volta in volta variamente declinato, al mondo del teatro ed ai personaggi che lo abitano, colti nell’acuta osservazione dei difetti loro, in drammaturgie che il più delle volte ricorrono all’espediente metateatrale per narrar ciò che oggi chiameremmo backstage e che una volta si chiamava dietro le quinte. Cantanti e musicisti, impresari e attori, le mogli e i mariti, gli amanti e i figli, sono i protagonisti di questo variegato mondo che mette in scena intermezzi e farse, ma pure serissimi melodrammi: dalla Dirindina di Scarlatti all’Ariadne auf Naxos di Strauss, dal Fioravanti de Le Cantatrici villane al Cilea d’Adriana Lecouvreur, passando per le donizettiane Convenienze e inconvenienze teatrali e – perché no – in fondo pure per Tosca, le opere che trattan di teatro hanno sempre incontrato il gusto del pubblico e, da sempre, stimolato la fantasia degli autori.

Così è pure per Domenico Cimarosa che contribuì al genere, se così si può chiamare, con L’impresario in angustie, scritto sulla scia de Il teatro alla moda, di Benedetto Marcello, che in quegli anni – siamo tra il 1780 e il 1790 – segnò una ripresa, appunto, della parodia teatrale; venuta in completo oblio nel secolo romantico, venne riscoperta nel secolo breve, dimostrando ancora una volta, almeno in quanto a gusto, quanto sia valido l’assioma di Giambattista Vico: in ogni caso non varrebbe la pena parlarne se non per il fatto che la sua trama sembra proprio quella del nostro Intermezzo comico, anche se molto più strutturata e resa complessa pure dall’intervento di vari altri personaggi. Possiamo immaginare – nulla sappiamo della genesi del Maestro di cappella, terza opera in programma in questi giorni qui all’Aperia della Reggia di Caserta, per il Festival dell’Opera buffa del Teatro di San Carlo, nemmeno l’anno di composizione, ritrovandolo pubblicato ben dopo la morte del musicista – come argutamente nota Mariano Bauduin, che introduce, in una sorta di prologo, la nostra messa in scena, che sia frutto dell’improvvisazione cui l’Autore era costretto dal pubblico alla fine della rappresentazione della farsa.

Cimarosa è infatti uno dei propugnatori della riforma – o moda, o capriccio, o stile – che volle portare a due gli atti della farsa, dai tre che eran prima: il pubblico rimaneva male e a gran voce esigeva qualcosa in più. È, dunque, lecito pensare che il Maestro di cappella sia nato come “prolungamento” improvvisato dell’opera principale: narra infatti L’impresario in angustie delle pretese di due prime donne che mettono sotto pressione poeta e musicista per avere le parti migliori, mentre i due “artisti” scopiazzano allegramente musica e versi da altri autori; alla fine il povero impresario finisce in miseria per le spese pazze della compagnia. Il maestro di cappella mostra appunto il nostro compositore alle prese con riottosi musici che cerca di condurre a più miti consigli, una sorta di felliniana Prova d’orchestra senza bisogno del surreale deus ex machina finale, visto che, alla fine, cantando lui stesso ogni parte strumentale, riesce nell’impresa di far eseguire ai musici l’aria nello stil sublime di quei celebri maestri che sapevano tanto.

Mariano Bauduin crea sapientemente, attorno all’essenziale nucleo della farsa originaria, una drammaturgia lievemente più complessa senza pesare più di tanto, utilizzando parti recitate (dalla commedia di Richard Brinsley Butler Sheridan Il Critico, ovverossia le prove di una tragedia) e parti musicali (brani da Le Cantatrici villane di Fioravanti e La Dirindina di Scarlatti); operazione sicuramente lecita, visto che la partitura originale a noi pervenuta sicuramente è frutto di interpolazioni con brani di Paisiello, oltre che di Cimarosa, a dimostrazione della disinvoltura, per noi incomprensibile, con cui si trattava allora la materia. Ne vien fuori un quadretto godibilissimo e scorrevole, molto elegante e piacevole in cui un burbero quanto vanesio compositore – Paolo Bordogna in stato di grazia – canta recita e dirige una divertita ensamble di valenti musici dell’Orchestra del San Carlo. Accanto all’onnipresente protagonista, la Sua Signora, una brontolona e gelosa Antonella Morea, una Canterina, una civettuola Benedetta Torre, il Lacché, un puntuale Armando Aragione. Il pubblico mostra di gradire l’operina, le sue musiche e le battute che si scambiano i vari personaggi, che volentieri si lasciano andare a qualche gustosa gag condita di battute in vernacolo, a chiudere piacevolmente questa I edizione del Festival dell’Opera Buffa.

Un maestro di cappella alla prova d’orchestra
Fermata Spettacolo



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