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Il “Prometeo” di Luconi, da tragedia a dramma borghese

Il “Prometeo” di Luconi, da tragedia a dramma borghese
Fermata Spettacolo

La grande tragedia greca è incarnata principalmente da tre scrittori: Eschilo, Sofocle e Euripide; distanti tra loro per periodi storici e per visioni del mondo.

Massimo Luconi sceglie, non senza rischiare, di portare in scena il più arcaico dei tre, ovvero Eschilo, con la tragedia Prometeo incatenato nel suggestivo scenario dell’anfiteatro degli Scavi di Pompei nell’ambito della rassegna Pompeii Theatrum Mundi che nasce dalla costola del Napoli Teatro Festival.

I drammi di Eschilo ruotano intorno a figure stilizzate, personaggi dal carattere inflessibile che si scontrano senza mai piegarsi e affrontano il proprio destino sino alle estreme conseguenze; più che rappresentare il singolo individuo sono personificazioni di emozioni e ideologie e lo stesso avviene anche per Prometeo, titano colpevole di aver rubato il fuoco al nuovo signore degli dei, Zeus, per donarlo agli uomini. Il furto gli costa una condanna atroce: il re dell’Olimpo lo incatena ad una montagna per l’eternità dove è torturato dagli elementi naturali e da un’aquila che ogni giorno gli stacca un pezzo di fegato, che poi ogni notte gli ricresce. Prometeo non può morire, è questa la vera punizione, è destinato ad un dolore e un tormento senza fine, in un tempo eterno e circolare in cui tutto si ripete uguale.

Il dramma eschileo, unico superstite della trilogia di cui probabilmente faceva parte, si incentra sull’ostinazione di Prometeo di non pentirsi e di portare avanti con caparbia testardaggine la sua posizione contrapponendosi al feroce e vanitoso Zeus che ne vuole la totale sottomissione.

Luconi sceglie non a caso un testo dalla fortissima connotazione politica, portando in scena l’anarchico ante-litteram, il primo ribelle della storia; di lui il regista dice infatti: “La vicenda di Prometeo, con la sua dolorosa e nobile immagine di ribelle, di uomo in rivolta, che accetta di scontare il proprio destino con intransigente e coerente consapevolezza, è carica di pathos senza tempo, di rimandi a momenti drammatici della nostra storia contemporanea”.

Il ruolo di protagonista è affidato ad un bravissimo Luca Lazzareschi che carica della giusta gravità la recitazione, mostrando un Prometeo sofferente ma mai vacillante, che accetta il suo destino con il vanto di chi non si è piegato alla tirannide; assolutamente toccante è anche l’interpretazione di Alessandra D’Elia nei panni di Io, la giovane donna trasformata in giovenca da Zeus e condannata a vagare per il mondo senza sosta; l’attrice riesce a rappresentare splendidamente tutto il tormento del personaggio, la follia che la sta annientando e la condizione di vittima senza colpe, incredula di fronte al dolore che le viene immotivatamente inflitto.

Molto suggestiva e ricca di pathos la parte del coro affidata alla sola Monica Demuru e la scelta di far cantare alcuni passaggi del testo in lingua originale.

Poco azzeccata forse la scelta di Gigi Savoia nel ruolo di Ermes, non per la performance dell’attore che è ben riuscita, ma per il tradimento che si fa all’opera originale in quanto la divinità è un bambino, un monello che canzona Prometeo più che un vecchio lacchè come quello di Luconi.

Al di là delle performance degli attori, e di alcune scelte riuscite e non, quello che non convince della rappresentazione è l’umanizzazione che si fa dell’opera trasformandola da tragedia a dramma borghese. Eschilo, come si diceva all’inizio, è il più antico dei tre tragediografi, il suo mondo è ancora quello delle grandi divinità e delle grandi passioni in eterna lotta tra loro; per lui sono fondamentali concetti come l’ate (l’accecamento), la ubris (la tracotanza), la dike (la giustizia) e la tuke (il caso) che rappresentano le forze che muovono il mondo in un universo in cui l’uomo non ha consapevolezza di se stesso e non si pone problemi che riguardano la propria interiorità, accettando quanto gli viene offerto dalla vita come volere divino.

Luconi umanizza il dramma eschileo e facendo ciò forse lo banalizza, non emerge la forza dirompente che l’opera doveva originariamente avere e la messa in scena rimane su una linea piatta in cui ci si trova davanti a personaggi (vestiti tra l’altro come straccioni dei giorni nostri) che si comportano e agiscono da uomini e non da divinità.

In questo modo si toglie al testo il suo principale punto di forza, di cui, privato dell’innocenza e dell’irruenza dell’infanzia, rimane solo la malinconia e il grigiore dell’età adulta, effetto ulteriormente amplificato dalla scenografia scarna ed essenziale in rame di Moussa Traore.

C’è da chiedersi a questo punto però se il problema sia la lettura data da Luconi o se invece sia l’impossibilità di portare in scena senza banalizzazioni e umiliazioni la grandiosità e la visceralità della tragedia greca in una società che, come già annunciava Lukacs nella raccolta di saggi Problemi di teoria del romanzo del 1938, ha perso ormai da tempo la capacità di vivere con épos.

Il “Prometeo” di Luconi, da tragedia a dramma borghese
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