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Van Gogh e la prigionia di un bianco assordante

Van Gogh e la prigionia di un bianco assordante
Fermata Spettacolo

In una lettera a suo fratello Theo Vincent Van Gogh scrive: “C’è un tipo di fannullone, il fannullone per forza, che è roso intimamente da un grande desiderio di azione, che non fa nulla perché è nell’impossibilità di fare qualcosa, perché gli manca ciò che gli è necessario per produrre, perché è come in una prigione, chiuso in qualche cosa, perché la fatalità delle circostanze lo ha ridotto a tal punto; […] se vuoi puoi considerarmi tale”.

Nel 1889, in seguito ad un attacco di follia che lo aveva portato a tagliarsi un orecchio, il pittore si ricovera nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy in Provenza dove gli viene permesso di continuare a dipingere fino a quando non tenta il suicidio ingerendo i suoi tubetti di colori, di lì il divieto di avere in stanza i suoi attrezzi del mestiere e il periodo di riposo forzato dall’arte.

Da questo episodio, che costringerà Van Gogh alla stasi e all’immobilità artistica, prende spunto l’opera di Stefano Massini Van Gogh. L’assordante rumore del bianco con cui il drammaturgo fiorentino vinse nel 2004 il Premio Tondelli e che è andato in scena in questi giorni al Napoli Teatro Festival, in prima nazionale, con Alessandro Preziosi nel ruolo del pittore e Alessandro Maggi alla regia.

Massini coglie lo spunto dalla vicenda biografica di Van Gogh per trattare un tema caro alla drammaturgia sin dall’antichità ovvero, come afferma lo stesso autore, “il labile confine tra verità e finzione, tra follia e sanità, tra realtà e sogno”, esplorando contemporaneamente il concetto di libertà individuale di cui cerca di tracciare i confini.

Il pittore è chiuso in una stanza bianca, accecante per quanto è candida, anzi assordante come recita il titolo, e lì la sua pazzia anziché scomparire sembra crescere sfociando in una percezione della realtà dai confini sempre più sfumati in cui il protagonista non sa riconoscere ciò che è vero da ciò che non lo è.

Privandolo dei colori, quelli per disegnare e quelli dell’ambiente circostante, Massini pone Van Gogh di fronte a se stesso, in un assenza che crea fantasmi e che porta ad un inevitabile autoanalisi da cui è difficile uscire vincitori.

Il titolo evoca in maniera brillante questa condizione: il bianco diventa un rumore ed è assordante come spesso viene descritto, in una coesistenza ossimorica, il silenzio. Non è in questo caso la presenza di qualcosa ad alimentare la follia ma è la sua assenza, il bianco come sottrazione di colore e non come massima espressione di luce, il bianco come un buco nero in cui il protagonista non riesce a stare, incalzato dai suoi aguzzini, il narcisistico psichiatra della clinica e gli infermieri dell’ospedale, e da cure obsolete che gli provocano solo maggiore inquietudine.

Massini prova a far uscire il protagonista dal suo autismo attraverso una figura-ponte, il direttore del centro Peyron, desideroso di sperimentare una nuova cura per i malati di mente, l’ipnosi, e affascinato dai dipinti di Van Gogh e dal tormento e la bravura che essi trasmettono.

Il momento dell’incontro tra i due è il più travolgente dello spettacolo con un Preziosi stremato dopo due quasi due ore sul palco e per questo ancora più realistico e un Francesco Biscione incalzante e sfacciatamente teatrale; è qui che il pittore mette su una tela bianca le sue emozioni e i suoi pensieri, aprendo quel rubinetto emotivo chiuso dalle autorità dell’ospedale e lo fa non con i colori ma con le parole, buttando fuori i dolori, le solitudini, la sensazione di inadeguatezza.

Alessandro Preziosi foto Francesca Fago

Nonostante un inizio sottotono, in cui non accade molto, lo spettacolo a poco a poco entra nel vivo e sorretto da un magnetico Alessandro Preziosi, bravissimo e intenso nel suo ruolo, giunge alla conclusione a vele spiegate con un monologo del protagonista emozionante e catartico.

Il tutto è reso ancora più suggestivo dalla scenografia curata da Marta Crisolini Malatesta che riproduce sulle pareti il quadro del pittore Campo di grano con volo di corvi, ma in bianco; solo sul finale una luce gialla calda inonda tutto il palcoscenico, restituendo a Van Gogh non solo i colori ma anche la libertà di usarli, vederli, toccarli per esprimere i tormenti interiori che fin da bambino lo accompagnano.

Così come il bianco rappresenta il silenzio, il giallo, onnipresente nelle opere dell’artista, rappresenta la parola ritrovata, non solo nella voce ma anche nella mente un tempo offuscata dalla follia.

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