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La storia dell’umanità in un giorno di pioggia di Ascanio Celestini

La Storia dell’umanità in un giorno di pioggia di Ascanio Celestini
Fermata Spettacolo

“Questa è la storia di un giorno di pioggia. Questa è la storia di una barbona che non chiede l’elemosina e di uno zingaro di otto anni, della barista che guadagna con le slot machine e di un facchino africano, ma anche di un vecchio che chiamano Giobbe. Questa è la storia del Cinese, di una madre che fa la zuppa liofilizzata, e di un paio di padri che non conosco il nome. Questa è la storia di una giovane donna che fa la cassiera al supermercato e delle persone che incontra”.

Inizia così il nuovo spettacolo di Ascanio Celestini in scena a Palazzo Reale per la decima edizione del Napoli Teatro Festival dal titolo “Che fine hanno fatto gli indiani pueblo? Storia provvisoria di un giorno di pioggia”, secondo capitolo di una trilogia iniziata l’anno scorso con lo spettacolo Laika e destinata a concludersi nei prossimi anni.

Ascanio Celestini è un attore, regista, scrittore e drammaturgo o più semplicemente (e magnificamente) è un cantastorie, un narratore abilissimo che racconta la Storia attraverso le persone che la vivono, estraendo i singoli individui dal calderone degli anni e degli eventi, uno che ha “la capacità di cantare attraverso la cronaca la storia di oggi come mito e viceversa”, come dissero di lui quando ricevette il Premio Ubu Speciale nel 2002.

E mito e cronaca si intrecciano anche in questo spettacolo, presentato dall’autore stesso come uno studio incompiuto e da perfezionare ma in fondo già perfetto così.

Le storie raccontate da Celestini, sul palco insieme al fisarmonicista Gianluca Casadei, sono quelle di coloro che vivono ai margini della realtà urbana; non c’è bisogno di collocarli in una città precisa perché essi si trovano ovunque, consumati da una società che li ignora e li disprezza al contempo, le loro vite sono legate le une alle altre senza che essi se ne accorgano, diventati ormai pezzi interscambiabili di uno stesso meccanismo senza fine.

All’inizio della storia c’è Violetta che fa la cassiera al supermercato, è la regina della cassa anzi, potrebbe avere vent’anni come cinquanta nulla cambierebbe la sua esistenza spenta e ciclica, quello spostarsi continuo dal punto A (casa) al punto B (supermercato) e viceversa, invisibile a casa agli occhi di sua madre che sa solo chiederle com’è andata la giornata e invisibile a lavoro agli occhi dei clienti che pagano, salutano e vanno via.

A fare dei lavoretti al supermercato di Violetta c’è Domenica, una barbona che non chiede l’elemosina e che vive col cibo in scadenza che il supermercato le dà in cambio delle mansioni che svolge; Domenica ha un fidanzato di nome Said, è un magrebino che lavora come facchino del supermercato e la ama moltissimo, le vorrebbe regalare la bicicletta di cui ha bisogno per andare da un cassonetto all’altro in cerca di rame e il cappotto che la riparerebbe dal freddo d’inverno, ma ha il vizio del gioco e tutto ciò che guadagna lo spende il sabato in una slot machine.

Con Said lavora Giobbe, un uomo del paese, umile, trasferitosi in città molti anni prima con la moglie; i due hanno avuto un bambino, intelligentissimo e sveglio, ma malato che è morto durante l’adolescenza. Di chi è la colpa di quella morte? Ovviamente dello zingaro di 8 anni che fumava fuori scuola di suo figlio e lo prendeva in giro per la sedia a rotelle e che sicuramente gli aveva gettato addosso qualche maledizione, lo stesso zingaro che ha insegnato a Domenica come rubare portafogli al mercato e che quando, da adulti, l’ha scoperta con un altro uomo, l’ha riempita di botte e poi è scomparso.

Domenica muore un giorno, all’improvviso, e rimane a terra per due ore perché nessuno ha il coraggio di avvicinarsi a quella barbona sporca che potrebbe trasmettere chissà quale malattia; la gente passa, la guarda e pensa di lei le cose peggiori, ma che ne sanno quelle persone di chi era Domenica? Sanno per caso delle sofferenze, degli abusi, dei tentativi di suicidio, delle perdite? No, così come non sanno niente di Said o dello zingaro, ma ne parlano sentendosi autorizzati da un senso di superiorità che giustifica la presunzione di conoscere senza sapere.

Il filo rosso che li collega tutti è la pioggia, evocata dagli indiani d’America con danze tribali e benefica perché portatrice delle anime dei morti nel loro passaggio dal cielo alla terra e proprio i fantasmi delle persone care sono il balsamo per i protagonisti di questi racconti, il dolce (seppur triste) pensiero che li accompagna in ogni momento.

Ascanio Celestini travolge con la sua prosa e la sua recitazione irruente, una pioggia anch’essa che cade sullo spettatore a volte lieve e rinfrescante, a volte fitta e dolorosa ma che non lascia mai indifferenti; creatore di una catarsi alla maniera ellenica, che tira fuori il marcio dell’essere umano, lo sviscera e lo mette in bella mostra per poi spingerlo via, alleggerendo il cuore.

Ma il vero motivo per cui bisogna ringraziare Celestini per lo spettacolo Che fine hanno fatto gli indiani pueblo? non è la lucida visione del mondo o la crudezza delle sue storie nè la bravura nella recitazione o la brillantezza della sua prosa, no. Il vero motivo per cui bisogna ringraziarlo è la tenerezza che riesce a trovare raschiando il fondo di quelle vite, è il messaggio di speranza che emana una luce calda nel buio della miseria umana, una speranza fatta di latte a lunga conservazione e biscotti in scadenza.

La storia dell’umanità in un giorno di pioggia di Ascanio Celestini
Fermata Spettacolo



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