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Neapolitan memories de “La serva padrona”

Neapolitan memories de “La Serva padrona”
Fermata Spettacolo

Aveva ventidue anni appena, Giovanni Battista Pergolesi, quando compose Il prigionier superbo: l’opera doveva esser presentata al San Bartolomeo – il miglior teatro dell’epoca, a Napoli, la cui platea fu poi trasformata in chiesa, la Graziella, alla Rua Catalana, espressione del farsi e disfarsi continuo della Città – nel Carnovale del 1733, ma il terremoto del novembre dell’anno prima, che sconvolse l’Irpinia e lambì Napoli, non procurando alla Capitale gran danno “se non d’avere lesionati molti Edificj di Chiese, Palazzi, e Case con poca mortalità, e per timore di replica si trasferì in Campagna molta Nobiltà, e gran numero di Persone Civili”, causò però anche la cancellazione della Stagione teatrale invernale, per cui il melodramma poté esser rappresentato solo alla fine dell’estate, per i festeggiamenti dell’Imperatrice e regina di Napoli Elisabetta Cristina: com’era d’uso il musicista scrisse pure per l’occasione un intermezzo brillante, La serva padrona e, come talvolta succede, nessuno più ricorda, ai nostri giorni, il lavoro principale, mentre il gioiellino leggero e festoso – che racconta d’una comunissima storia di padroni e di servette e del modo in cui le cose ben diversamente vadano rispetto alle apparenze e di come, in fondo, i rapporti tra le persone siano sempre più autentici rispetto alle convenzioni sociali – non uscì più dal repertorio di tutti i teatri e continuò ad essere rappresentato, al di là delle mode e dei gusti che inevitabilmente cambiavano. Certo, non era la prima opera buffa della storia: lo stesso giovanissimo autore, qualche anno prima, ne aveva scritta una di gran successo, Lo frate ‘nnammurato, tuttavia La serva padrona diventò – diremmo malgrado l’autore suo – un modello, un canone preciso cui chiunque volesse cimentarsi nel genere dovesse giocoforza adeguarsi. Merito d’un certo non so che filtrato dalla musica che, pur nella stereotipata fissità dei tre personaggi, il vecchio burbero babbeo, la serva belloccia e scaltra, il cameriere tuttofare ignorante e furbo, riesce ad esser tenera e al tempo stessa vivace, dolce e ritmata: fino a colpire, per la “nuova maniera” che veniva da Napoli, capitale riconosciuta della musica, fior di intellettuali che preparavano il campo alla modernità che, prepotente, stava per bussare alle porte d’Europa e del mondo a Parigi, capitale intellettuale del mondo d’allora: la querelle des buffons animò, proprio grazie alla Serva padrona e a simili lavori napoletani, il dibattito culturale che vide schierati insieme, per il rinnovamento a l’italienne, nientemeno che la Regina di Francia e Jean-Jacques Rousseau.

Ripropone, dunque, il San Carlo, all’Aperia della Reggia di Caserta, prima rappresentazione del Festival dell’Opera buffa Napoli e l’Europa, La serva padrona: allestimento già rodato, per la regia di Mariano Bauduin, già andato in scena nel Foyer del Teatro nel 2010; l’Aperia è una delle strutture forse più spettacolari della Reggia e del Parco, e questo è già di per sé notevole, visto che lì non mancano certo mirabilie. La struttura fu costruita in origine per contenere un’enorme vasca piena d’acqua che doveva servire in caso di guasto dell’acquedotto carolino: per quest’uso non è mai stata utilizzata, per cui con Gioacchino Murat lo spazio fu dedicato all’allevamento di api (di qui il nome di “aperia”), per esser poi, con l’ultimo Borbone, trasformata in serra. Al centro del bell’emiciclo neoclassico fu collocata una statua di Cerere di Tommaso Solari, richiamata, in quest’allestimento firmato Nicola Rubertelli – almeno per alcuni elementi che ad occhio e croce credo provengano dal bel gazebo del Don Pasquale di De Simone – dalla riproduzione del Ratto di Proserpina di Bernini. Ora immaginate una casa della Napoli fin de siècle, il signore attempatello in giacca corta, chiara, estiva (è un bel maggio arioso, si sente il vento che agita le fronde), l’immancabile paglietta, il corto bastone da passeggio (i bei costumi sono di Marianna Carbone); entra il sole, in quella casa, inondando di fiotti di luce un salottino di vimini, il grammofono a tromba, un paravento cinese, il ritratto di San Gennaro, tavoli e tavolini, infinita accozzaglia delle buone cose di pessimo gusto che qualche anno dopo un poeta saprà rievocare ripensando a nonna Speranza. Esce, lo attende magari al Gambrinus Ferdinando Russo che, seduto al tavolino con Gabriele d’Annunzio, prova a tirar giù due versi su cui poi Francesco Paolo Tosti costruirà una musica un po’ struggente e malinconica, come va di moda in quegli anni, ma che ben serve a render vivida la vucchella dell’amante nu poco pucurillo, appassuliatella.. Poco più in là, a un altro tavolino, Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao discutono animatamente sull’opportunità o meno di fondare un nuovo quotidiano per la città: lo chiameranno Il Mattino, lui firmando i fondi come Tartarin, lei i mosconi come Gibus; un po’ discosto un poeta scontroso – non è boria ma timidezza – scrive i versi d’una canzone eterna, forse la più bella della lunga estate della musica di Napoli: “Fresca era ll’aria, e tutto lu ciardino addurava de rose a ciento passe” e oggi sembra ieri e ieri l’altro ieri: è con questi versi, che il regista Mariano Bauduin decide cominci la rappresentazione, quasi a legare insieme quella con questa tradizione, quella con questa bellezza.

E dunque il capolavoro della “nuova maniera” di Napoli non poteva avere migliore allestimento che questo: nell’ambiente settecentesco la riscrittura scenica da belle époque è “teatro” delle schermaglie che l’uggioso Uberto e la lesta Serpina (nomen omen) rivivono in versione “comica finale”, con gags di effetto sicuro, grazie anche alle preziose doti attoriali dei due cantanti – Rossella Locatelli e Filippo Morace in stato di grazia – il cui gesto scenico nulla ha da invidiare ad ottimi attori di prosa. Come nell’edizione del 2010, il personaggio di Vespone, il servo infedele, normalmente muto e mimico, viene con successo affidato ad una attore chansonnier, Ernesto Lama, che canta dunque la siciliana Chi disse ca la femmina sa cchiù ‘e farfariello, aria che nell’altro capolavoro di Pergolesi, Lo frate ‘nnammurato, vien cantato dalla serva Vannella, mentre brani per chitarra e mandolino sono eseguiti da un solista vestito in frac, che a un certo punto lascia lo spazio riservato alla piccola ensemble di elementi dell’Orchestra del Teatro San Carlo, diretti da Maurizio Agostini, per accomodarsi serenamente in scena. Certo, il luogo consente queste libertà, come pure l’entrata trionfale di Vespone travestito da carabiniere, che percorre mezzo emiciclo strombazzando in sella ad una bicicletta! In ogni caso è da sottolineare la perfetta e sorprendente acustica del sito, che ha permesso una esecuzione che pienamente ha rispettato l’originale partitura, con particolare attenzione a ritmi e colori. La Serpina di Rossella Locatelli rivela una voce importante e rotonda, ben controllata e di pasta omogenea: Stizzoso, mio stizzoso e Lo conosco a quegli occhietti, sono resi con gran perizia, anche se il momento migliore è, naturalmente, A Serpina penserete, schiettamente elegante ed ironico, parodia dei toni “alti” della musica barocca, pomposamente lacrimosa, in realtà espressione anch’essa delle tante astuzie messe in opera: da notare l’accompagnamento con il mandolino del brano, particolare anche per Pergolesi. L’Uberto di Filippo Morace offre il meglio di sé ne Son imbrogliato io già sapendo cercare – e trovare – il giusto tono tra il guitto e il sincero, lui che è il primo a sorprendersi di vivere nientemeno che una storia d’amore, un amore assurdo e strano per quei tempi, tanto da vergognarsi quasi (che dir per me non so s’è amore, o s’è pietà) del suo primo timido affiorare. Ma è certamente con il trascinante e ritmato finale Mi sta per te nel core, tratto dal Flamino dello stesso autore, che l’operina trova la sua esaltante ed ironica conclusione, tra il ti-pe-tì di lei e il ta-pe-tà di lui. Alla fine grandi applausi per tutti.

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