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Convenienze ed inconvenienze teatrali di un Ingresso indipendente

Convenienze ed Inconvenienze Teatrali di un Ingresso indipendente
Fermata Spettacolo

Si cimenta, Maurizio De Giovanni, in un’impresa ben lontana da quelle cui è avvezzo: lasciando per l’occasione da parte i morti di camorra e le indagini del Commissario Ricciardi, il giallista napoletano s’avventura, stavolta, in una commedia ch’esser vorrebbe leggera ed elegante, futile ma non troppo, lieve e greve al tempo stesso. Son da modello, nemmeno troppo nascosto, certi film cui ci aveva abituato il graffio feroce ed ovattato insieme d’un regista come Billy Wilder (come L’appartamento, tanto per fare un nome non a caso): perfetto e godibilissimo congegno narrativo che però nasconde, a ben vedere, riflessioni ben più serie su temi come lo smarrimento della propria identità, l’irrisione di certi assoluti borghesi, la mercificazione sessuale, fino all’ineludibile necessità della maschera, unica possibilità di sopravvivenza; ovvero, sul versante teatrale, certi vaudeville alla Feydeau, ben oliati meccanismi costruiti attorno ad una danarosa borghesia di parvenu, che adora circondarsi d’oggetti  di valore, sintomatici d’una opulenza che è soprattutto promozione e successo sociale, e che freneticamente si muove in case di lusso dalle mille porte che si aprono su altrettante stanze e attraverso le quali compaiono e scompaiono a ritmo forsennato una quantità di personaggi, espressione d’una classe sociale inoperosa e senza alcuna preoccupazione economica. È composto, dunque, il modello di cui trattasi, come certi medicamenti cui ci rende avvezzi la moderna medicina, d’una capsula esterna, ben robusta e inattaccabile, che ha funzione di render appetibile il contenuto, amaro e altrimenti indigeribile: l’una e l’altra parte son interdipendenti e trovano anzi significato e senso loro nella reciproca esistenza dell’opposta porzione; da solo, infatti, il meccanismo teatrale, pur perfettamente oliato, non veicolerebbe altro che se stesso, risultando alla fin fine vacuo e vano e, d’altra parte, risulterebbe irricevibile un pur alto contenuto di profonda riflessione e acuto pensiero quando non fatto passare adeguatamente protetto attraverso le nostre ben munite difese. Così, questo Ingresso indipendente che si rappresenta a Napoli, al Teatro Diana, in questi giorni, per la regia di Vincenzo Incenzo, avrebbe nelle intenzioni di portare il pubblico che siede in platea, attraverso la risata, a rifletter sulle apparenze che spesso non coincidon con la realtà, essendo portati noi, spesso, a ragionar per pensiero programmato, per luoghi comuni, stereotipi bell’e fatti insufficienti a comprender l’essenza delle cose: in una parola, pirandellianamente, indossiamo – o ci vengono imposte, o noi ce le imponiamo – maschere che è opportuno che saltino via per mostrare, infine, il vero volto nostro.

Ci viene raccontato, dunque, in questa pièce, la storia di Massimo Pesello (Giovanni Scifoni), impiegato in apparenza debole di cuore e d’ingegno: il suo cognome vien volentieri, insistentemente, scientemente, ovviamente, storpiato grevemente in “Pisello” da Ludovico (Pierluigi Misasi), rozzo direttore della non meglio precisata azienda in cui lavora – e questo già la dice lunga sul livello di battute che ci aspetta, sempre in bilico tra la pura volgarità e il fascino retrò del vecchio avanspettacolo – ma il povero impiegato tutto sopporta in vista d’una sognata quanto improbabile promozione. Dunque il Pesello pensa e spera che, mettendo a disposizione del suo ancor voglioso capo il suo appartamento, opportunamente fornito d’ingresso indipendente, per galanti incontri con Rosalba (Serena Autieri), una bionda escort-logopedista che di Ludovico è diventata amante fissa, meglio possa raggiungere il grado di capufficio per la via più breve, che, si sa, passa sempre per l’alcova. Comincia allora a saper, la pietanza, d’inevitabile e scontato déjà vu, tutto sembra richiamare il citato film americano, eleganza dell’originale a parte; se poi s’aggiunge la balbuzie del protagonista, ben si comprende come si sia costantemente a caccia di trite situazioni in cui si possa ben sfruttare il lieve difetto fisico del personaggio, in uno, invece, con l’eccessivo proromper fisico delle protagoniste (oltre alla bionda escort, fa bella mostra di sé anche una formosa e procace bruna, Valeria, interpretata da Tosca D’Aquino, casta fidanzata del protagonista). Rosalba, decisa a costringere Ludovico a lasciar la moglie Giuliana (Biancamaria Lelli), che lui descrive come vecchia, brutta e insopportabile, pretende che nell’appartamento di Massimo si svolga una cena, cui dovrà intervenire, oltre a Massimo e a lei, che si farà passare per la cuginetta del padrone di casa in visita, anche la fidanzata Valeria, Ludovico e Giuliana. La cena, disturbata dalle incursioni della vicina (Fioretta Mari) occupa tutto il secondo atto e sarà nel corso di essa che le maschere verranno via, le apparenze lasceranno il posto alle “verità”, tutto scorrerà liscio come l’olio – o quasi – verso l’immancabile happy end, con gran tripudio dei buoni (che prima erano cattivi o comunque negativi) e grande scorno dei cattivi (che prima erano buoni o comunque positivi). Tutto a posto, tutto perfetto?

In verità ciò che fondamentalmente sembra mancare allo spettacolo non è tanto la grazia o l’eleganza (nonostante un deciso puntare al trivio, tra doppi sensi poco ambigui e un insistente discorrer di tubi, fori, rubinetti falliformi – di cui si mostra, a scanso d’equivoci, pure un bel disegnino, perché nulla si lasci all’immaginazione); non è solo l’originalità o la novità (si pesca dal repertorio a piene mani, la battuta della cerbottana come femmina fedifraga del cervo la diceva già Macario e forse è ancor più antica); non è neanche la genuinità e la freschezza (sembra il tripudio dei luoghi comuni, delle idee della maggioranza silenziosa, del totale imborghesirsi dei sentimenti e dei pensieri). No, ciò di cui più ho sentito la mancanza, come l’aria a colui che sta annegando, è l’assenza totale di verità: se intenzione dell’autore era mostrar la distanza tra essere e apparire, ebbene, alla prova dei fatti, alla vuota parvenza non si sostituisce, cadendo la maschera, una qualunque reale verità e libertà, ma un’altra maschera, un altro stereotipo, un altro feticcio, come se i personaggi fossero in eterno condannati a recitar le loro nevrosi, passando da un cliché all’altro. Così, l’amante fatale in abito rosso fuoco che poco lascia all’immaginazione è, certo, una maschera, ma lo è anche la prostituta onesta e di gran cuore che sembra star sotto a quell’abito. Così è per il balbuziente e debole impiegatuccio che con un bacio (sic!) si trasforma in un leone (dove l’abbiamo già sentita?), così per la fidanzata tutta casa e chiesa che nasconde sotto sotto la torrida amante (del tubista!), per la moglie vecchia e rompiscatole che invece si rivela buona e saggia, per il donnaiolo rozzo e maschilista che è tale sol perché ha paura della morte e finisce preda del demone meridiano. Il pubblico sembra gradire, d’altra parte probabilmente sa, fin dalla prima scena, dove e come si andrà a parare e, saggiamente, sta al gioco. Consiglierei, a tutti quelli che si occupano di teatro, la visione d’una straordinaria operina di Donizetti, Le convenienze ed inconvenienze teatrali, dove vengono, appunto, mostrati i guai delle “inconvenienze”, cioè delle novità e dell’originalità, rispetto alla più comoda strada delle “convenienze”, convenzioni, cioè, ben conformi alle esigenze dell’artista e alle aspettative del pubblico. Tuttavia, se non si osa mai…

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Fermata Spettacolo



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