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Circus don Chisciotte e le esasperanti contraddizioni della contemporaneità

Circus Don Chisciotte e le esasperanti contraddizioni della contemporaneità
Fermata Spettacolo

Ah, chissà come reagirebbe Miguel de Cervantes se sapesse di un suo bisbisnipote che si aggira di notte per una Napoli buia e spettrale, (re)incarnando tra le contraddizioni della modernità un Don Chisciotte malinconico e dotto, cercando di guadare immaginari laghi d’ombra e menzogna, evitando di bagnarsi e contaminarsi stando ben attento a porre i piedi su libri affioranti, dalle Critiche di Kant ai Mondi di Bruno, solida terra da contrapporre a liquide insidie. Perché questo Quijote partenopeo di Circus don Chisciotte, figlio di Ruggero Cappuccio che lo interpreta in questi giorni qui al San Ferdinando di Napoli, sposa la modalità più squisitamente italica d’interpretazione del personaggio, quella, cioè, di puro cavaliere pronto a combattere ogni possibile abuso e ingiustizia: non a caso il nostro combatterà pure, com’è d’obbligo, contro moderni mulini a vento (famigerate pale eoliche) che cercano di “condizionare pure l’aria”. Del resto, non è forse il don Chisciotte una tipica opera-specchio, in cui ognuno riuscirà a scorgere, alla fine, l’anima sua, o il momento particolare che quella sta vivendo in questo preciso momento, giocando con le ombre, traccheggiando con le luci, come il protagonista con i titoli dei libri, citati a piene mani dall’autore come i pesci e i favolosi – e numerosi – abitanti marini nella canzone de Lo guarracino, senz’altro ordine apparente che la rima e l’assonanza?

In una Napoli umidosa, ingiallita dalle luci al sodio di un’abbandonata stazione ferroviaria, Michele Cervante, anziano uomo di cultura che vive ormai nell’amarezza e nel rimpianto la propria condizione di intellettuale tradito e disilluso, si aggira circospetto nella notte: la scena, molto bella, disegnata dalla mano, felice come sempre, di Nicola Rubertelli, ci rimanda, nella cura sorprendente ed ossessiva dei particolari, a uno spazio di confine, sospeso, incerto sul suo prossimo divenire, sulla sua stessa identità di spazio. Se infatti una stazione è di per sé un tipico nonluogo, creazione archetipa della surmodernité più vieta, una stazione abbandonata potrebbe a ragione perdere i caratteri tipici dell’astoricità e dell’anonimato, mero recipiente d’ignota umanità, per tornare ad essere nuovamente – o per diventare, infine – spazio e luogo antropologico: abita, infatti, qui, un “figuro magico, un essere luminoso”, un infermiere disoccupato (Giovanni Esposito) che si chiama Salvo (nomen omen), che si trova lì perché venuto anni prima a Napoli proveniente da un paese di campagna (nostalgicamente evocato a più riprese) e progressivamente spinto ai margini, espressione di quella cultura dello scarto che ne ha fatto un barbone, un escluso. Cervante lo ribattezza Salvo Pancha, ricreando in tal modo, tra sguardo colto ma delirante da un lato e ignorante ma realistico dall’altro, la compresenza degli opposti e quindi l’assenza di certezze assolute che è tipica della nostra civiltà della contraddizione, così come del relativismo manierista del tardo Cinquecento.

Anche in questo spettacolo si conferma l’attenzione dell’Autore per la lingua: assistiamo qui a un vero e proprio sdoppiamento – pure questo, com’è ovvio, al di là della comicità un po’ scontata, espressione del contraddittorio e dell’ambiguo che caratterizza l’epoca nostra – tra il linguaggio basso, pratico, materiale, corporeo di Salvo e quello aereo, visionario, spirituale, poetico di Cervante, insieme ad un esasperata contaminazione in veneziano e siciliano, napoletano e italiano, oltre che da parti interamente recitate in spagnolo, inglese, francese, creando una particolarissima organizzazione della macchina teatrale, che raggiunge il suo acme con l’arrivo di nuovi personaggi, portati da vagoni erranti che si muovono senza locomotive, sospinti dal vento. Prima una coppia di ristoratori in disgrazia (Ciro Damiano e Gea Martire), poi un Duca decaduto (Giulio Cancelli), infine una principessa siciliana (Marina Sorrenti) appassionata di astronomia, completeranno la compagnia, impegnata in un “esperimento di rivoluzione per ritrovare ciò che gli umani hanno perduto”, per ritrovare, cioè, la bellezza del mondo. Proprio in questo, forse, il punto debole dell’intera operazione, per tanti versi lodevole, tentata da Cappuccio: da un lato il tutto si risolve inevitabilmente e banalmente in una sorta di operazione nostalgia di un favoloso passato dominato dall’etica e dalla bellezza, contrapposto al bieco contemporaneo sguaiato e farlocco; dall’altro si allenta, dopo un po’, la tensione drammatica, la bella favola gira un po’ troppo su stessa, mentre un odor di risaputo e rifritto aleggia nell’aria, verso l’immancabile conclusione che si vorrebbe ispirata e poetica. Molti gli applausi, certo, alla fine, ma, crediamo, più alla franca verve comica dei protagonisti che al testo in sé, che rimane un po’ in mezzo al guado, sospeso nel lago immaginario di cui dicevamo all’inizio, come sui libri su cui si cammina per non precipitar nel nulla.

Circus don Chisciotte e le esasperanti contraddizioni della contemporaneità
Fermata Spettacolo



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