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L’impossibilità di essere normale di Minetti

L’impossibilità di essere normale di Minetti
Fermata Spettacolo

Eccolo, dunque: torna Thomas Bernhard a rompere le scatole all’Austria sua e al mondo – chi sa cosa direbbe di quest’Europa in cui la sorte ci fa vivere oggi – ma, soprattutto, a fornirci un supplemento di capacità di comprensione di ciò che ci sta intorno, intelligenza del mondo e delle cose. Torna coi suoi chilometrici monologhi, coi suoi disegni oscuri e ingombranti, torrenzialmente logorroico e, pure, irresistibilmente spaventato, aspro e ruvido e talentuoso cantore appassionato della negatività, sempre pronto a scriver dell’unica cosa di cui sa, se stesso, sapendo ogni volta ritrovare e farci riassaporare “un piacere che si unisce al fastidio”. Così è pure per questo suo Minetti, arrivato al Teatro Mercadante di Napoli in questi giorni, complesso autoritratto – e non potrebbe essere diversamente – che si riflette nella persona del suo attore-feticcio, quel Bernhard Minetti – nomina nuda tenemus – che molti considerano il più grande attore tedesco del dopoguerra; la regia è di Marco Sciaccaluga, la portentosa interpretazione di Eros Pagni; se si considera che alcune pennellate di questo ritratto di un artista da vecchio si ispirano a Ensor, pittore delle maschere e della provocazione visionaria, da sempre artista incompreso, tal quale il nostro autore, le premesse per una messa in scena dall’inaudita complessità e dalle prospettive inusuali ci sono tutte.

Il Minetti della finzione scenica è un attore, dunque. Ma non uno qualunque. Ha smesso di recitare da anni, si è ritirato in una piccolo paese lontano in mezzo al nulla, dopo essere stato cacciato da Lubecca, sua città natale, ben trent’anni prima, colpito dall’ostracismo dei suoi concittadini, costretto a lasciare la direzione del teatro di quella città, colpevole di aver “negato la letteratura classica”, nascosto, alla fine, nella soffitta della casa della sorella. Ma lì, nella sperduta Dinkelsbühl, si è sempre tenuto in perfetto allenamento, recitando l’unico classico di cui è lecito parlare e che valga la pena mettere in scena: Re Lear. Ma ora ha deciso di tornare in mezzo agli uomini, nella vita ordinaria, in una quotidianità che dà l’idea d’essere sprezzata e amata al tempo stesso. Entra in un albergo a Ostenda: tutta la pièce si svolgerà in questo stesso ambiente, nella hall un po’ anonima che diventa luogo dei ricordi – “com’è cambiato” – dell’attesa, della protesta, spazio comunque dell’ultima rappresentazione: è come, insomma, se in quella hall, in quella notte, ci fossimo anche noi, e lo spazio stralunato non fosse altro da ciò che realmente è: palcoscenico di teatro, in una funambolica fusione del personaggio, dell’autore, dell’attore, la finzione teatrale cedendo il posto alla “realtà”, comunque artefatta, dell’attore che recita l’attore che recita l’autore, su di una scena che rappresenta un albergo che è una scena teatrale. Il disegno scenografico (di Catherine Rankl) asseconda questo punto di vista, una pedana girevole provvede a restituire alla platea visuali diverse dell’unico luogo, scandendo il lungo monologo, diventando giocoforza centro di gravità non solo fisico, ma soprattutto psicologico e spirituale, come se in questa notte – una notte particolare – il centro del mondo fosse proprio qui, a Ostenda, e kafkianamente, anche se tu non lo sai ancora, Dio, il Mondo, la Natura, chiamalo come vuoi, si sta occupando di te, e proprio di te, e solo di te.

Approda, il vecchio attore Minetti, nella hall dell’albergo di Ostenda, scena della suprema rappresentazione, venendo da una tempesta: la neve copre le spalle del lungo cappotto che indossa, le tese del suo cappello, in mano ha un ombrello e una grande valigia. La tempesta è il mondo di fuori, il reale da cui proviene l’attore e a cui tornerà, dopo aver vissuto per un po’ in quest’isola – è infatti come l’isola per il naufrago, la scena per l’attore – che felice non è, piuttosto possiede l’amorfa tranquillità delle cose nonviventi, e un calore, certo artificioso artefatto dell’arte, ma comunque dalla temperatura inversamente proporzionale al desolante freddo del “fuori”, regno della nullificazione e dell’inganno, della menzogna e dell’odio: “me ne starò un po’ qui”, attore sulla scena che però non recita per il pubblico, ma “contro il pubblico”. Dopo aver rifiutato il sistema, dopo esser(si) esiliato nel nulla amaro e degradato, l’attore “prima attrae il pubblico / poi lo disgusta”, obbedendo, pur non facendo più parte del sistema (che è stato infatti costretto a lasciare, acquistandosi una sprezzante indipendenza), alla sua originale e scomoda vocazione: “andare sempre nella direzione opposta, senza temere / il dileggio e la derisione”, perché il privilegio dell’attore è, pure, inesausta sua maledizione: “l’attore deve esibire / la sua presenza inquietante”. Perché “il mondo pretende di essere divertito / e invece va turbato / turbato turbato / ovunque oggi ci volgiamo / null’altro che un meccanismo per divertire / Occorre precipitare tutto / nella catastrofe dell’arte”.

Ma, apparentemente, Minetti non è venuto solo a godersi per un po’ il calduccio, ha speso tutto quello che ha, tagliandosi fuori ogni possibilità di pentimento o salvezza, per questo viaggio: deve incontrare il direttore del teatro per un grande ritorno sulla scena. Lo aspetterà invano per tutta la serata, Godot del suo rinnovato sogno, proclamata speranza, di recitare “Lear con la Maschera di Ensor”: la sua ri-partenza non può che nascere sotto questi auspici; non basta Shakespeare, non basta Lear, occorre anche Ensor e la sua maschera, sotto cui celare l’essenza di Lear e permertere all’attore di esistere, perché “l’attore si accosta allo scrittore / e lo scrittore distrugge l’attore / esattamente come l’attore distrugge lo scrittore”. Così Ensor riduce Lear a maschera (come dice il pittore: “queste maschere piacevano molto anche a me, perché offendevano quel pubblico che non mi aveva compreso per niente” e sembra di sentire Bernhard) perché “il pubblico deve essere terrificato dall’attore” e la maschera di Minetti, ben celata fino alla fine nella grossa valigia, è “la maschera più orrenda / che sia mai stata fatta”. Accanto a questa maschera, le altre: il pretesto è che questa è la notte di San Silvestro e tutti sono in maschera, maschere grottesche o ingenue, a volte baroccamente elaborate, a volte stilizzate nella loro rappresentazione, rivelano la gioiosa tranquilla anaffettiva ferocia degli avventori, degli “altri”, alieni spiriti che incrociano il palcoscenico questa notte.

Questi visitatori della notte hanno, nella scelta registica che ne fa Sciaccaluga, le fattezze delle vuote immagini della onorata società dello spettacolo, dai teppisti di Clockwork Orange alle drag queens del Rocky Horror Picture Show simulacri vuoti e fracassoni, privati di parola perché carenti di senso e di espressione in una spettrale sequenza che interrompe, chiosa, condisce, culminando nel simulacro del Bardo, l’Autore archetipico, indossato, perfino, alla fine, dall’intero cast, tranne che da Eros Pagni. L’attore offre una prova di grande rilievo, al centro del difficile prisma, come abbiamo visto, dalle molte facce: sa attraversare il lunghissimo monologo incarnando di volta in volta la nostalgia triste, l’ironico disprezzo, la vanagloriosa esaltazione, la rabbia urlata e incontenibile, badando ad evitare la celebrazione istrionica dell’arte del recitare e dell’attore al centro della scena, affermando e insieme negando la sua rilevanza. Alla fine, sceglie di scrivere la parola fine – “ecco l’arte drammatica” – questo Minetti di Sciaccaluga e Pagni, seduto su una panchina, esposto di nuovo ad intemperie e neve, indossando l’orrenda maschera di Ensor, mentre si consuma intorno a lui l’ultima definitiva beffa delle maschere-pinguino.

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