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Il giuoco delle parti: memorie deliranti di un ottuagenario

Il giuoco delle parti: memorie deliranti di un ottuagenario
Fermata Spettacolo

Mettere in scena un dramma, ai nostri giorni, in cui una signora viene importunata in casa sua da alcuni gentiluomini ubriachi che pensano di trovarsi al cospetto d’una prostituta; cercare un aggancio con la contemporaneità nel conseguente duello che ne segue – doppio, alla pistola e alla spada(!) e all’ultimo sangue(!); la morte di uno degli sfidanti come ultimo risultato degli eventi: tutto questo, in verità, molto sa di cose un tantino datate, appartenenti ad un passato e ad obblighi sociali del tutto incongrui, nel bene e nel male, con il nostro disfunzionale presente. Fare risaltare intatta, dunque, la modernità del meccanismo pirandelliano, lasciando in secondo piano quanto di vetusto c’è in un dramma come Il giuoco delle parti – in cui, in verità, fin dal titolo traspare tale irrisolta patina d’antichità, con quel trittongo della prima parola evidente come enorme macchia di muffa, quasi una patente, acclarata certificazione di vecchiaia – può sembrare ardua impresa. Come si ricorderà, la pièce già alla metà del secolo breve risultava piuttosto appartenere alle minori del Maestro siciliano: fu solo grazie al recupero della Compagnia dei Giovani e alla reinassance pirandelliana di Valli – De Lullo – Falk – Guarnieri, che avvenne la riscoperta di questo testo, che fu in verità il secondo dramma affrontato dalla Compagnia, dopo l’enorme successo dei Sei personaggi, in una edizione ormai mitica con Romolo Valli nei panni di un freddo e malefico Leone Gala, una bellissima e smaniosa Rossella Falk, un controllato Carlo Giuffé. In un raffinatissimo ambiente impreziosito dalle scene e dai costumi di Pierluigi Pizzi, ispirati all’arte di Felice Casorati, le vicende assumevano una rarefazione astratta del tutto diversa ed aliena rispetto alla modalità con cui si era soliti, fino a quel momento, affrontare il testo, più sulle tonalità della commedia, se non della farsa boccaccesca: del resto, pure la novella da cui traeva trama e ispirazione, Quando si è capito il giuoco, autorizzava in qualche modo tale modalità, perché più vicina ai modi ed al sentire d’una borghesia medio bassa, e per qualche maggior concessione al riso e al dileggio, rispetto alla versione teatrale.

Si comprende allora, il senso dell’operazione di questa ripresa del Il giuoco delle parti al Teatro Mercadante qui a Napoli in questi giorni, fino al 18 dicembre: Umberto Orsini, che ne è il protagonista, autore, insieme a Roberto Valerio e Maurizio Balò, dell’adattamento, ha per prima cosa ben situato temporalmente la vicenda, inquadrandola in una data ben precisa, il 22 agosto 1918, nell’anno, cioè, della prima al Quirino di Roma. In tal modo gli inevitabili, numerosi e già detti riferimenti ad un mondo ormai scomparso, riescono a questo punto del tutto naturali, anche perché contrapposti ad un presente, del protagonista, di malvissuta vecchiaia, di brontolosa attesa della morte, tra infermieri, medici e sedie a rotelle, tra altissime mura da residenza sanitaria che però si rivelano ben permeabili a ricordi e stati d’animo, che traspaiono dalle pareti traslucide, traversando, grazie alla luce loro, pareti che sembrano ovatta, trattenute, e sostenute, da un traliccio che ha tutta l’apparenza, in tal modo, della gratra d’una prigione o di una carcere, come si chiama, anche qui con evidente arcaismo, nel testo. In quest’ambiente di controllata esistenza, luogo in cui vive ai limiti della cognizione, trasfigurato spazio della mente più che realtà materiale, Leone Gala vive i suoi fantasmi e le passate esperienze, come un delirio che si confonde senza soluzione di continuità con l’effettività, convivendo del tutto gli invisibili – tranne che a lui – fantasmi del passato con gli abitanti del presente: e la vivida rivisitazione di ciò che fu, in tutta evidenza, conserva intatto, pur nell’impotenza della conservata memoria remota, la forza prorompente del turbamento delle emozioni. Ha voglia di proclamare la sua verità, Leone, straparlando d’energia della ragione che svuota del suo imprevedibile e liquido e vischioso contenuto le “uova” che la vita gli scaglia contro, sì da ridurle a leggeri e inoffensivi gusci vuoti, l’ossessivo, pervadente persistere del passato non trae certo la sua forza dalla robusta ragione e dai sofistici ragionamenti, ben altro è il vorticare delle passioni che hanno lasciato il segno, ancora bruciante e urticante e lancinante la cognizione del dolore che ancora vive e sanguina. Via la serena, glaciale atarassia del Leone giovane che apparteneva al passato, l’imperturbato orizzonte che gli permetteva dormire senza sogni la notte prima dell’assassinio è solo, quello sì, un pallido ricordo, la fedele ragione diventa allucinazione, travisamento, miraggio: il nuovo Leone, il vecchio, vive nel tormento dell’inferno un presente agitato dal rimorso di non aver vissuto “le debolezze di un uomo”, dal rimpianto di non aver trovato “la tranquillità di un dio”.

Umberto Orsini è un vecchio in giacca da camera che, dall’alto della sua sedia a rotelle, domina la scena e il mondo: comprendi come questa interpretazione sia null’altro che frutto maturo di un approfondimento, di una riflessione, da parte di un grande attore, su un grande testo di un grande autore. Regista e attore sono – dovrebbero essere – pedagoghi della parola teatrale, maestri nell’insegnare a noi, che ci troviamo al di là di quell’immaginaria parete che è il proscenio, l’arte di comprendere noi stessi e il mondo, rendendo fruibili, per le nostre limitate possibilità, per i nostri sensi atti solo a percepire il presente, ciò che d’eterno fu scritto allora, con i mezzi, le parole, i gesti d’allora. Ebbene, quando questo si verifica, il teatro, semplicemente, vive: gli applausi sono solo la certificazione definitiva di una comprensione e dell’orgoglio che ne deriva. Accanto al capocomico occorre ricordare quanti, insieme a lui, hanno contribuito alla riuscita di questa vera e propria lezione di teatro e di vita, per primi coloro che insieme a Orsini hanno – non riscritto, certo – ampliato, liberato, sminuzzato per noi il testo: come non notare che, accanto all’Attore, in questa traduzione, ci sia il Regista, Roberto Valerio, e, meno scontatamente, l’autore delle scene, non mera cornice dove far svolgere la vicenda, ma, soprattutto in questo caso, autore del medium attraverso cui si fa strada il nostro intendimento, la nostra intelligenza delle cose. Poi, gli attori: Alvia Reale è una Silia capricciosa, sensuale, imprevedibile; Totò Onnis restituisce un Guido Venanzi superficiale, prudente fino alla viltà, alla fine, però, a suo modo coraggioso; Flavio Bonacci è un dottor Spiga non di maniera, che interpreta pure il medico della residenza di cui è ospite l’anziano protagonista; un Barelli futurista e al limite del bozzetto è quello disegnato da Woodi Neri, mentre Carlo de Ruggieri è l’impareggiabile e impertubabile Filippo, detto Socrate, oltre che premuroso infermiere della struttura.

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