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Ivanov, luci d’inverno e distimiche (in)certezze

Ivanov, luci d’inverno e distimiche (in)certezze
Fermata Spettacolo

Più che di depressione – almeno della depressione che noi moderni civilizzati siamo abituati a considerare e osservare – l’Ivanov che in tre ore di spettacolo Filippo Dini va delineando qui al Teatro Bellini di Napoli sembra soffrir più che altro d’attacchi d’ira e d’infrenabili furori. Al dottor Čechov non poteva certamente sfuggire il nesso che certe forme di melancholia hanno con taluni collerici stati: null’altro che due facce della stessa medaglia, come, del resto, già sapevano gli antichi; e se questa pièce ha, da sempre, poco convinto pubblico e critica, è stato proprio perché, prova generale d’altri capolavori, troppo è sembrato incentrarsi sullo stato patologico del protagonista, la depressione, appunto, sin a farlo giungere al suicidio. Il lavoro, in gran parte riuscito, di Dini, premiato del resto da pubblico e critica, è stato proprio tirar fuori dal testo quanto di più prettamente čechoviano vi risiede, non rinnegando l’ormai consolidato ritratto dell’uomo irrisolto e irresoluto con sé e con gli altri, ma facendone prototipo dell’uomo che verrà, quando avrà imparato perlomeno a esprimere, tramite l’ironia, lo struggente, incompiuto desiderio di Qualcosa (persona? luogo? amore?) sconosciuta e inconoscibile ma di cui inconsultamente si trova a desiderar di viverne, malinconicamente, l’irrealizzato avvento, l’inesausta epifania. Fa diventare Ivanov, Dini, dunque, archetipo incompiuto – e pertanto, per molti versi, più fascinoso – dell’uomo čechoviano: lo fa rivoltando il testo, buttandola in commedia, cercando la (ri)scrittura, quasi, d’un gemino farsesco – il vaudeville tante volte invocato per Zio Vanja e Tre sorelle – sorta di sviluppo d’una buffonesca Gegenwelt che trova il suo necessario mezzo espressivo nell’ironia – la tragedia è ormai troppo seria per questo nostro mondo – che permette l’impiego del paradosso, dell’onirico, del colpo di scena, dell’opulenza felliniana, della corrotta lingua d’una contemporanea volgarità. Non si stupiscano, pertanto i nostalgici d’una visione čechoviana dai languori pallidi ed esangui, lontana – eh sì – mille miglia dall’autentico: ne basti, per prova, assistere ad un allestimento diretto da Konchalovsky o da Tuminas o da Nekrošius e si vedrà come cambi il senso di certe battute, come si possa accedere, improvvisamente, a una modalità nuova, a un punto di vista diverso, a un mondo finora insospettato sotto, a fianco, a lato il monotono esistente, il risaputo quotidiano.

Di più: in quest’allestimento Dini trova il modo – pure, anche se dovrebbe esser regola precisa d’ogni regia degna di tal nome – di far parlare all’autore la lingua del nostro contemporaneo spleen, andando, dice lui, a cercar in seno a noi stessi – con orrore o meraviglia – l’Ivanov che è in noi, gettando un Ivanov in mezzo a noi, dico io, per vedere l’effetto che fa, cosicché nel variegato mondo della vaporosa società rappresentata, giocare a riconoscere nelle fattezze dell’uno o l’altro personaggio (ogni attore ne fa due, aumentando godimento e dileggio della bigamia teatrale), questo o quel conoscente, questa o quella innamorata, perfino, chissà, un po’ di se stessi perfino in lui, il protagonista, untore, alla fine, di una lamentosa peste, quella dell’avvilimento e della rassegnazione egoista, che contagia tutta la rosa dei personaggi che lo circonda. Un contagio, un’infezione, che ci riguarda da vicino, sembra suggerire il regista, con le nostre ossessioni stanche, i nostri luoghi comuni, le nostre ostentate onestà, le nostre più innominabili bassezze.

All’entrare in sala la scena è già aperta, il protagonista è seduto a un tavolo basso sulla destra, sotto un albero spoglio, legge un libro con molta concentrazione; quando inizia lo spettacolo, Borkin (Fulvio Pepe) lo raggiunge non visto, raccoglie una pistola dal tavolo e la punta alla testa di Ivanov: uno scherzo assurdo che dà il la all’intero spettacolo, accordato sul tono dell’ironia palese che nasconde il dramma, quasi ne provasse imbarazzo o, peggio, vergogna. Ha sposato per amore cinque anni prima, il quarantenne Ivanon, proprietario di terre che non producono abbastanza, Anna Petrovna (Sara Bertelà), ebrea che ha ripudiato la sua fede per amor suo, così da essere diseredata dai genitori. Da un anno Ivanov si è accorto di non amare più la moglie, ora gravemente ammalata; con loro vive il Conte Šabel’skij (Nicola Pannelli), fanciullesco e svagato zio di lui e che si adopera per aiutare Anna, visto che sempre più spesso Ivanov esce per andare a casa di un amico, Lebedev (Gianluca Gobbi): di questo lo rimprovera il giovane curante di Anna, l’intransigente dottor L’vov (Ivan Zerbinati), che raccomanda un soggiorno in Crimea per la tisi che affligge la sua paziente, ma Ivanon confessa di non aver soldi per farlo. Quando, per l’ennesima sera, si allontanerà, Anna deciderà di seguirlo, accompagnata da L’vov. Il salotto di casa Lebedev è frequentato da un’umanità grottesca e volgare, l’avida padrona di casa, Zinaida Savišna (Orietta Notari) riceve la giovane ricca vedova Marfa Babakina (Ilaria Fallini) e il codazzo dei suoi pretendenti; unica nota positiva, la giovane figlia di Lebedev, Saša (Valeria Angelozzi), idealista come sanno solo i giovani, innamorata della vita e dell’amore, che offre se stessa a Ivanov: Anna sorprenderà i due che si baciano. Alla fine, sarà proprio lo stesso Ivanov, messo alle strette da Anna, a rivelarle la verità sulle sue condizioni di salute, che ignorava: sta per morire. Un anno dopo, nel giorno delle nozze tra Ivanov e Saša, in mezzo a interminabili discussioni tra tutti i presenti, Ivanov deciderà di uccidersi, dopo aver supplicato invano Saša di non sposarlo.

Un gruppo di ottimi attori regge il gioco del regista, descrivendo una civiltà sull’orlo del baratro, troppo cieca per avvedersene, al centro la complessità del vivere, perché l’uomo non è “una macchina semplice e poco complicata, in ognuno di noi ci sono troppe viti, troppe valvole e ruote”: intorno, una natura rigogliosa e gelata preme alle porte, alle finestre degli interni disegnati da Laura Benzi, scene mobili dal fascino suggestivo di case perse nell’immobilità di spazi sterminati, rischiarati da luce assoluta che non riscalda ma  genera invece ombre commoventi sui muri, a raddoppiare l’emozione. Mi hanno ricordato, queste belle scene, certi quadri di Andrew Wyeth, con le sue silenti allusioni a un altrove percepibile ma sconosciuto e inconoscibile, presente e reale pur se avvolto da un quid di assoluta immaterialità: ecco, mi è sembrato che, in qualche modo, questo mondo potesse ben costituire non solo la cornice dove far svolgere gli eventi, ma esser tutt’uno con la storia, i drammi, gli amori, le disillusioni sulla scena e, da questa parte, in platea, consentire, infine, che il turbamento si sciolga in applauso.

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