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“Der Zwerg” e “Il tabarro”: concerto doppio per Soli, Coro e Orchestra

“Der Zwerg” e “Il tabarro”: concerto doppio per Soli, Coro e Orchestra
Fermata Spettacolo

Son due piccoli gioielli, in programma qui al San Carlo, diversi eppure in qualche modo complementari, che vengono presentati insieme in forma di Concerto, a conclusione della Stagione 2015-16. Il primo, Der Zwerk, di Alexander von Zemlinsky, espressione della cultura viennese al massimo del suo splendore, fu messo in scena a Köln nel 1922, è alla sua prima rappresentazione in assoluto al Teatro San Carlo; il secondo, Il tabarro, che pure mancava dal Teatro napoletano dal 1960, fu inserito da Giacomo Puccini, com’è noto, nel Trittico, che ebbe il suo battesimo a New York nel 1918. Quasi coevi, dunque, i due lavori, ma molto diversi tra loro per tematiche, stile, tessitura musicale.

Non si può comprendere appieno Der Zwerg se non nella storia e geografia sue, perché altrimenti, al di là di una mera fruizione del dato musicale, che pure è naturalmente importante, correremmo il rischio di lasciarci sfuggire buona parte della sua integra cognizione, le mille e più variabili che l’hanno infine generata. Ignorare infatti che l’Autore sia vissuto in quel particolarissimo crogiuolo intellettuale che si indica di solito come finis Austriæ, vuol dire tagliar fuori gran parte delle nostre possibilità d’analisi, come se pretendessimo intender Raffaello al di fuori e al di là di ciò che chiamiamo Rinascimento. E un particolare rinascimento visse appunto Vienna tra il finir del secolo romantico e l’inizio di quello breve, sbocciando le arti e il pensiero di nomi come Klimt, Kokoschka e Schiele nelle arti visive, Strauss, Mahler, Schönberg e lo stesso Zemlinsky in campo musicale, mentre nasceva la psicologia dinamica di Freud e Adler, tutto un mondo che fiorisce dalla decomposizione del vecchio Impero e che troverà più tardi in Joseph Roth il suo cantore più grande. È evidente come questo prepotente germogliare d’arte e pensiero abbia prodotto un reciproco contagio, una benefica contaminazione reciproca. Così in Der Zwerg confluiscono certe suggestioni decorativiste di derivazione klimtiana, ma che in fondo son già nel testo d’origine, quell’apparentemente innocua favoletta morale d’Oscar Wilde – Il compleanno dell’Infanta – così ricca di suggestioni visive d’esuberanza floreale, di colori esotici, di brillar d’ori e rifletter d’acciaio: d’analogo testo dell’esteta inglese pochi anni prima Strauss aveva tratto la sua Salome, compiendo in fondo analogo percorso; così, pure, è difficile ignorare la malia e l’attrazione che le idee nuove che scandagliano per la prima volta i territori inesplorati del nostro essere: non è forse la bruttezza del Nano simbolo e metafora della nevrosi che ammorba le nostre povere vite, e di cui spesso, come il Nano, ignoriamo perfino l’esistenza, pur subendone le pesanti conseguenze? In tal modo la consapevolezza del proprio essere, attraverso la nostra specchiata visione, può sfociare, ambiguamente, nella morte o nell’inizio d’una vita nuova.

Der Zwerg

Narrano dunque Il compleanno dell’Infanta e Der Zwerg, nel libretto che scrive Georg Klaren, d’una capricciosa Infanta di Spagna che festeggia il suo compleanno godendosi i numerosi regali che dai vari regnanti d’Europa e del Mediterraneo le sono arrivati: fra questi, il più curioso, il più godibile, è un nano – dono del Sultano – di stupefacente bruttezza, che ha la particolarità d’esserne all’oscuro. Non ci vuol molto a capire dove la storia vada a parare, tra il malizioso e crudele flirtare della principessa, il dono d’una rosa bianca, un ballo, il perduto innamorarsi dello gnomo, il disvelamento del proprio aspetto fisico attraverso uno specchio, l’umiliante disprezzo nel rifiuto della principessa, il fermarsi, alla fine, del cuore del Nano. Karen, che infarcisce l’originale racconto di citazioni wagneriane e simbolismi psico-sessuali, trasmutando lo zotico nano in un malinconico musicista tardoromantico, che s’immagina cavaliere senza macchia e paura, forza in tal modo l’identificazione con l’Autore della musica per vari motivi autobiografici. Zemlinsky aveva una madre, infatti, d’ascendenze sefardite e immaginava anch’egli antiche origini nobili supposte dalla dubbia particella “von” d’origine paterna; inoltre molti hanno voluto vedere nella crudele e leggera Infanta le fattezze inequivocabili d’Alma Schindler, poi Mahler, femme fatale e personaggio centrale della Vienna del tempo, allieva di Zemlinsky, con cui il musicista, afflitto anch’egli da indubitabile bruttezza, ebbe una breve relazione, il cui ricordo lo segnerà per la vita; ancora, nel 1908, il giovane pittore Richard Gerstl dagli allucinati autoritratti, che aveva una relazione con la sorella di Zemlinsky, Mathilde, si impiccò di fronte al grande specchio – così centrale in Der Zwerg – di cui si serviva per le sue opere. Da questo incandescente e così sensibile materiale, Zemlinsky ricava una partitura appassionata ricca d’estenuati lirismi, colori jugendstil e tensione a tratti isterica, zeppa di citazioni fin de siècle, ossessioni veriste, adduzioni all’operismo francese e perfino all’operetta viennese: a fronte dell’angustia dell’atto unico, il musicista crea a sorpresa una (sovra)struttura che si compone d’arie e recitativi, ballabili e interludi, cui non è estraneo un uso consapevolmente wagneriano del leitmotiv, più d’uno per il Nano – riflesso della molteplicità e complessità del personaggio, soprattutto affidati alla sonorità insieme sognante ed epica del corno inglese (chissà se poetica suggestione del Siegfrieds Rheinfahrt) – cui fa da contraltare il solo tema dell’Infanta, fissa nella sua immutabile, disperante frivolezza: se pure il libretto non registra la sconsolata conclusione del racconto wildiano (alla constatazione del fermarsi del cuore del Nano, la principessa esclama: “In futuro, quelli che vengono a giocare con me non abbiano cuore”), è il compimento della partitura, con lo stridente accordo in do minore, ad aprire enigmaticamente ad un finale aperto, tanto verso la possibile redenzione del Liebestod, come, invece, verso l’estasi irrazionale e illusoria dell’attesa di Erwartung. Il che, tutto sommato, ben rappresenta anche l’esatta incertezza del musicista, sospeso tra passato duro da abbandonare e futuro affascinante ma incerto.

Il personaggio del Nano mette duramente alla prova la voce del tenore, tesa com’è tutta sugli acuti: è il tenore americano Scott MacAllister che presta la sua voce all’impresa, uscendone vincitore, grazie a una modalità duttile che si piega ad ogni sensibilità del personaggio, di gran complessità, come abbiamo visto, pure sotto il profilo interpretativo. D’altronde, Nicola Beller Carbone non è da meno, nel personaggio dell’Infanta Clara: il soprano, affermata interprete straussiana, dimostra prepotenza e insieme sensualità vocale, pure sulle zone acute del registro, raggiunte senza apparente difficoltà. Di voce buona e robusta è dotata Majella Cullagh, dal gradevole timbro e dalla bella linea di canto, che dona alla compassionevole Ghita grande musicalità e sensibilità interpretativa. Ancora, il baritono Thomas Gazheli fa di Don Estoban un autorevole Haushofmaister, grazie alla voce potente e gradevole insieme.

Teatro San Carlo

Il tabarro è il pannello tragico del Trittico, ma a questa destinazione Puccini arrivò tardi, a composizione ormai avvenuta e dopo aver composto anche le rimanenti parti che lo compongono: l’idea di trarre un’opera da questa cruda vicenda di barcaioli della Senna gli venne a Parigi, assistendo alla rappresentazione de La houppelande di Didier Gold, nel 1813. Affidò a Giuseppe Adami la stesura del libretto e si mise all’opera, ma il completamento della Rondine gli portò via tempo, per cui concluse l’opera nel 1916, e solo dopo l’incontro con Giovacchino Forzano, autore dei libretti di Gianni Schicchi e Suor Angelica, si decise a unire Il tabarro a queste altre due a formare Il trittico. È con tutta probabilità l’unica opera di Puccini che in qualche modo si potrebbe definire verista, per quanto valga il concetto stesso di opera verista: ma si noti che, sotto questa presunta, tardiva e non scontata adesione all’apparenza verista, Puccini procede, invece, secondo uno schema classico del tutto estraneo ai canoni veristi, articolata com’è l’opera in una prima esposizione in cui vengono presentati i personaggi, poi in una fase di sviluppo, in cui si espone l’amore clandestino e la nostalgia dei personaggi, infine in una fase di epilogo, in cui il tradimento viene scoperto e si corre verso l’omicidio. A queste tre fasi corrispondono musicalmente tre sezioni della partitura, prima con un Maestoso, poi un Allegretto, infine un Allegro, con una perfetta corrispondenza tra le esigenze dell’azione drammatica e quelle della forma musicale; ambientata nei bassifondi di Parigi, sulle rive della Senna, narra la storia di un adulterio consumato tra la moglie di un padroncino di un battello di trasporto merci sul fiume e uno scaricatore: quando il marito tradito se ne accorgerà, la vicenda precipiterà rapidamente verso l’ovvia conclusione dell’omicidio. Tutta giocata sull’idea del tempo che passa, sulla tragedia incombente che scorre inesorabile (come il fiume) con moto circolare verso la sua inevitabile conclusione, è volutamente priva di grandi arie cantabili, cupa e tesa, tanto da non piacere per nulla a Toscanini.

Grande protagonista del Tabarro è Giorgetta che, pur nella brevità della partitura e nell’assenza di arie dedicate, entra a buon diritto nel novero delle grandi figure femminili pucciniane, vittima dell’amore, della passione, del destino: Amarilli Nizza è sicuramente oggi una delle interpreti migliori e più richieste per i tre ruoli del Trittico, capace di interpretarli tutti con grande convinzione e determinazione, sia sotto il profilo vocale che drammatico. Anche in questa occasione ha dimostrato le sue doti di notevole artista, dotata di timbro acuto d’apparente semplicità e di grande incisività che riesce meglio quando, come in questo caso, la scrittura diventa frammento più che indugio nel canto aperto e spiegato. Antonello Palombi si è dimostrato, nel ruolo di Luigi, l’operaio amante della protagonista, ancora una volta tenore dalla voce possente piena e corposa, dotata di squillo ed incisività, cercando tuttavia, con successo, modulazioni e chiaroscuri. Voce potente e stile drammaticamente sobrio e misurato ha dimostrato il baritono Rodolfo Giugliani, nel ruolo di Michele, il marito tradito.

Sia la prima che la seconda parte del Concerto prevede l’impiego del solo Coro femminile: come sempre le artiste del Coro del San Carlo, dirette da Marco Faelli, han dimostrato pieno rispetto dei tempi, amalgamando le loro voci a perfezione con i solisti. L’Orchestra del San Carlo ha dato, probabilmente, una delle migliori prove della stagione, diretta da Maurizio Agostini: ottima mano, riesce a cogliere l’autentica cifra musicale delle due partiture, il clima lussureggiante e ambiguo della prima e l’atmosfera torbida e inesorabile della seconda, che il pubblico apprezza riservando, sia alla fine de Der Zwerg, sia de Il tabarro, caldi e convinti applausi, a dimostrazione di un gradimento, da parte del pubblico, non epidermico alla musica del Novecento, nella speranza, magari, di poter assistere, in una prossima Stagione, alle due opere rappresentate in forma integrale.

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