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Andrea Appino – Il Testamento – Parte 1

Caro lettore,

L’opera che recensirò oggi è “Il Testamento” di Andrea Appino, uscito nel marzo 2013 come primo lavoro del frontman degli Zen Circus, gruppo pisano da qualche anno molto popolare nell’ambito della musica indipendente in lingua italiana. Chi conosce il gruppo, però, non si aspetti affatto di trovarne delle tracce: lo stile presentato è radicalmente originale. Col gruppo, Appino era noto per testi dalla carica fortemente ironico e satirico e melodie piuttosto semplici, come in un punk molto meno aggressivo di quello classico; da solista, il musicista rivela un lato di sé molto serio, carico di pathos, e ancora polivalente, versatile sia sul piano tematico che prettamente musicale, ma sempre coinvolgente e diretto. Nella loro produzione in italiano, quella più recente, gli Zen Circus si ponevano spesso come moderni giullari (nel senso buono) che si battevano per diffondere un messaggio profondo attraverso una satira così forte da rischiare in alcuni punti di svalutare la qualità della loro comunicazione – staremo a vedere se quest’abitudine verrà cambiata o rimarrà intatta nel nuovo album, in uscita tra meno di una settimana, “Canzoni Contro la Natura”; per di più, qualche volta m’è sembrato che alcune tracce finali fossero leggermente sottotono rispetto al resto delle loro opere e ancora che qualche sezione conclusiva di loro canzoni fosse un po’ ripetitiva, del genere di quelle parti strumentali che funzionano bene negli spettacoli live per esaltare il pubblico ma che si prestano poco ad un ascolto più riflessivo ed introverso.

Invece, “Il Testamento”, ancora, è radicalmente diverso, e per i miei gusti molto migliore, pur continuando ad apprezzare lavori degli Zen Circus. L’opera è un concept album la cui idea di fondo è molto interessante: il canto straziante di dolore di un Appino suicida, che ha molti spunti per colorarsi di critiche sociali, che lascia il disco come testamento, appunto, alla sua famiglia, intesa però come concetto allargato degli affetti dell’artista, filtrato naturalmente dalla mente inacidita di un uomo che ha sofferto. I testi sono spesso estremamente poetici, ma cangianti in stile e tono quando serve; la musica è sempre orecchiabile e coinvolgente e quasi mai banale, ben attenta a ciò che deve trasmettere sull’onda del progressismo di stampo floydiano, capace di stravolgersi d’improvviso senza stonare. Persino il genere è quasi indefinibile, da tanto le tracce appaiono tra loro e anche dentro di loro, sempre essendo, però, miscelate in modo perfetto: musica cantautoriale, indie rock, elettronica, ballate, rap, metal, folk e svariate altre influenze possono essere trovate in quest’album.

Il proemio all’opera è costituito da “Il Testamento”, traccia che dà il titolo all’album, che si apre con il suono di un complesso d’archi per quasi un minuto, finché sorprende sfociando in una energica sezione a chitarra elettrica, adatta a gettare l’ascoltatore nella vicenda. Con l’acquietarsi della base, Appino entra cantandoci la sua intenzione suicida direttamente dal cornicione da cui si sta per buttare, in un climax che porterà al momento fatale. Già dalla seconda delle dieci strofe, inizia a raccontarci della sua vita, filtrata dal meccanismo freudiano della negazione: ha sbagliato, è stato solo, ha pagato, è caduto, ma a sentire lui è stato tutto per sua scelta e vissuto felicemente, come se non volesse ammettere nemmeno davanti a sé stesso le sue debolezze; nel frattempo, archi e piano si sovrappongono al resto degli strumenti conferendo, là dove serve, un clima ora malinconico ora più energico. L’apice arriva improvvisamente quando avviene l’estremo gesto, quando Appino canta di gettarsi dal cornicione dipingendo il momento con svariate immagini, come se si sforzasse di rappresentarlo in modo positivo a coronazione della sua facoltà di scegliere, che gli dà il diritto di compiere il suicidio; è appellandosi a questa scelta che ci giustifica il gesto: nel momento in cui il suo dolore ha iniziato a condizionare la sua vita e libertà, decide di metterci fine. Infine, si notino i cori che slanciano la potenza delle strofe finali, specialmente grazie al contrasto che si crea tra la linea melodica mantenuta dalla prima voce e le variazioni delle seconde voci.

“Che il Lupo Cattivo Vegli su di Te” è una traccia di stampo gotico, animata principalmente da sezioni a chitarra elettrica dal carattere punk. Dedicata ad un qualche bambino che simboleggia tutta l’umanità, la canzone sembra a prima vista una grottesca e provocatoria “ninna nanna al contrario” (come è già stata più volte definita), ma in realtà si trasforma in un vero canto d’affetto carico di un messaggio importante quanto misantropico. Al bambino si canta di dormire nonostante il clima di violenza e malvagità che regna sul mondo, in cui “dorme per sempre l’agnello di Dio”, abitato dalla gente che vive di maldicenze, ipocrisie e tradimenti. Nella seconda strofa la traccia si carica più chiaramente di un significato profondo: la società moderna, abitata dai “plebei” che un tempo furono focolaio delle rivoluzioni popolari più importanti ma che oggi i media istruiscono al consumismo, costringe l’uomo a “nascondere in fondo al cuore la sua diversità”; l’unico augurio è che il lupo cattivo e gli altri animali veglino su di noi, che ci proteggano gli esseri che vengono demonizzati e ritenuti inferiori dall’uomo moderno (che guarda al progresso e disprezza la natura e la sua natura), quindi che l’umanità riscopra finalmente la sua armonia col resto del creato.

“Passaporto”, aprendosi con una serie di accordi ad organo ecclesiastico che mutano rapidamente in una sezione di chitarra e batteria, ci presenta un testo strutturato sulla metafora di un verbo chiave per reggere il senso della canzone (“passare”), carattere che si trovava già negli Zen Circus. Infatti, la traccia è un’amara esortazione all’attività, il dilemma di quanto tempo convenga impiegare a prepararsi per viaggiare e agire nella vita rispetto a quanto ne rimanga per farlo effettivamente, contando anche l’inconsistenza e la fuggevolezza delle cose e del tempo. Dal punto di vista musicale, la traccia arriva alla strofa chiave articolandosi nella struttura compositiva, per poi fluire in un raffinato arpeggio ripetuto più volte mentre un climax strumentale porta ad una sezione più dura, dominata dalla chitarra elettrica distorta, e ad un nuovo testo, sotto il quale si segnala un arrangiamento di flauti.

“Specchio dell’Anima”, dedicato ad un’ipotetica compagna di Appino, si fa portatrice di una visione dei propri guai come interni a noi: il messaggio è che il nostro peggior nemico siamo noi stessi. La traccia si gonfia di un riff metal rapidamente, fondendo chitarra elettrica distorta a dei sintetizzatori, finché la base si appiana per lasciare spazio, dopo una pausa teatrale, al testo; un testo che degenera repentinamente in una dichiarazione di rancore, odio e misantropia, presto arricchito da un battito selvaggio. Appino si colpevolizza ironicamente per la rottura con la compagna, imputando la colpa alla sua sincerità contro lo squilibrio mentale della sua interlocutrice; la fase che riprende il tema metal della canzone completa il messaggio ribaltando le sorti, ovvero dipingendoci un protagonista paranoico e annebbiato da questo sentimento, che semplicemente tentava di proiettare la sua malattia, sempre in lettura freudiana, alla compagna. Il contrasto tra l’uomo malato che soffre dei presunti orrori di come gli appare l’umanità e tra la realtà del mondo è reso fonicamente dalle diverse voci con cui vengono alternati i termini “paranoia” e “realtà”, il primo urlato con voce distorta e il secondo detto con fermezza e limpidezza vocale. La proiezione del protagonista sulla presunta causa del suo male e la verità di autodistruzione trova compimento nella seconda strofa, in cui il cantante proietta addirittura questo sull’altra, esortandola a ricercare le cause del male dentro la sua guerra interiore tra paranoia e realtà, che però è alla fine propria forse di ognuno di noi.

“Fuoco!” è forse la traccia più semplice musicalmente, ma non un punto dolente perché guadagna in orecchiabilità e approccio diretto senza rinunciare a un messaggio di fondo più che dignitoso. Il fuoco, metaforicamente, è la parte dell’uomo che diffida dai suoi simili, che può sfociare in guerre come succede continuamente nella storia e che viene messo a dura prova, qualche volta non felicemente, nell’esperienza dell’amore. Questa parte della natura umana, probabilmente ingigantita da un Appino (ovviamente nella finzione artistica) malato, si rivela difficile da gestire, in quanto può portare ad un’illusoria ultrasocialità se soffocata oltremodo (“tutta questa fretta di passare l’inverno/e scoprire che l’estate è solo un altro inferno”, con “inverno” ed “estate” come metafore per i periodi della vita vissuti rispettivamente soli e in compagnia), oppure in un odio ingiustificato e alla fine insostenibile verso gli altri se troppo assecondata. Infine, è apprezzabile l’anafora della parola tempo con cui si apre il testo: “il tempo delle mele è finito da un pezzo/è tempo di bruciare come si faceva un tempo”.

“La Festa della Liberazione” è una deliberata citazione di “Desolation Row” di Bob Dylan, da cui viene ripresa la struttura; la canzone, in stile folk e dominata soprattutto da chitarra acustica e armonica a bocca, è una concessione fatta al tipico cinismo satirico alla Zen Circus, affrontato però con quel pizzico in più di compostezza che gli permette di non allontanarsi troppo dal clima del resto dell’opera. Non senza ricorrere a parecchie citazioni di membri della sua famiglia, il messaggio di Appino è ancora una volta profondo: la gioventù che, vivendo nella bambagia di una società in cui i problemi sembrano risolti e si è sempre in clima di festa (come il giorno della festa della liberazione), non ha più il contatto con la realtà della vita in cui bisogna attivarsi per combinare qualcosa e non rimanere inermi burattini della superficialità, infatti “sbronzi d’autorità”. Il tema della superficialità viene periodicamente richiamato da metafore che hanno per oggetto concetti del campo semantico sessuale, a ricordare l’ossessione del mondo dei media per questo campo; sotto l’ottica di questa mentalità, per esempio, perde valore quella del nonno di Appino, presa ad emblema di una generazione impegnata a lavorare duramente per migliorare il mondo e che ha tra l’altro permesso a quelle successive di festeggiare questa oltraggiata festa della liberazione. La poca profondità della gente del terzo millennio, poi, si riflette anche in una religiosità piatta e fatta di superstizioni e tradizioni inutili, capaci di deviare la mente dei falsi fedeli e di fargli ripudiare una spiritualità sana.

“Questione d’Orario” riflette sulla salute mentale in modo originale: essere considerati normali dalla società è solo una questione di esprimere l’opinione più consona al momento nel momento giusto, metaforicamente di salire sul treno giusto quando è opportuno. La canzone prende in esame il caso particolare del papà di Appino e di sua madre. Con lui, rampollo di famiglia conservatrice e cattolica, l’artista dice di aver avuto un rapporto parecchio conflittuale perché il suo non aver affrontato adeguatamente alcune difficoltà della vita l’hanno portato a conservare una mentalità da bambino, motivo per cui tornerà e s’è già presentato più volte nell’album. Infatti, il papà, ancora bambino ma già confuso e/o portato a confondersi (“vestito da bambina”), sta viaggiando trascinato da sua madre e dalle sue idee sul treno sbagliato (quindi verso la pazzia). Come ombra dietro a questo viaggio si cela l’uomo nero, il babau dei bambini, che diventa metafora, qua e più avanti, delle nevrosi del padre, che arriverà più tardi a dominarne la vita. Infine, nelle sezioni caratterizzate da una frenetica e opprimente sezione a chitarra elettrica, si cela anche un riferimento, probabilmente, allo pseudo-razzismo tra Nord e Sud dello Stato italiano tipico di una mentalità conservatrice.

Ciao, Ema




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