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Andrea Appino – Il Testamento – Parte 2

Caro lettore,

Continua qui la recensione di “Il Testamento”, album di Andrea Appino, meglio conosciuto come frontman degli Zen Circus, del marzo 2013.

“Fiume Padre” ha uno degli approcci più fedeli ad un rock basilare del disco. Il testo è una fredda esortazione al disincanto: quando una persona si attacca all’amore come unica risorsa, ciò può non funzionare. Appino ci canta di lui che tenta di dissuadere bruscamente la compagna dal basare la sua vita su di lui, lasciandosi andare a parecchie considerazioni su come la speranza sia una cosa assolutamente negativa (filosofia che attraversa l’intero album, in fondo) in quanto bisogna stare con i piedi per terra e agire per cambiare le cose.

“Solo gli Stronzi Muoiono” narra dell’infanzia di Appino quando era un bambino molto scontroso con gli altri, dicendo addirittura che uccideva a sangue freddo gli altri bambini (ovviamente ingigantendo in modo grottesco la realtà). La struttura musicale, si nota, è un po’ anomala per Appino, e infatti questa traccia, insieme a “Schizofrenia” e (un po’ meno) “Fuoco!”, presenta una grossa influenza del produttore dell’opera, Giulio Favero de “Il Teatro degli Orrori”: la chitarra elettrica è suonata in modo così conciso da sembrare nei punti relativamente più melodici un sintetizzatore, mentre la voce ricorda, nelle strofe, la tecnica rap che ravviva l’aggressività di quanto è detto. La traccia è dedicata a uno dei suoi genitori, probabilmente al padre, ed tratta il tema della violenza: derivata dalle difficoltà psicologiche, le sofferenze e una mentalità troppo misantropica, in realtà poi imputata semplicisticamente solo al contesto sociale (come la violenza in tv per i bambini). Nella seconda strofa si incontra un’interessante personificazione del buio, metafora per la paura; nelle strofe principali, invece, si presentano grottescamente gli effetti di una cultura del pessimismo antropologico sui bambini e sugli uomini che diventeranno, effetto amplificato dal coro di voci bianche della fine.

“I Giorni della Merla” sono un punto cruciale dell’opera, tant’è che doveva chiamarsi, prima de “Il Testamento”, “La Festa della Liberazione” o, appunto, “I Giorni della Merla”; musicalmente, essendo dedicata ad un immaginaria figlia di Appino, si presenta come delicata ballata che oscilla tra l’elettronica e la dolcezza di una ninna nanna. Il freddo dei giorni della merla (secondo numerose tradizioni popolari, i più freddi dell’anno) è metafora, ancora una volta, per la sofferenza, che fa sentire vivo Appino, il quale ci racconta la sua vita in chiave immaginaria e molto tragica: figlio di sua madre violentata da suo padre perché consumato dalla routine e dal lavoro eccessivo. L’artista canta, poi, di aver messo su famiglia con una donna che ha messo incinta senza piani o progetti, che però gli ha regalato lo spiraglio di luce in questa vita colma di difficoltà: la sua unica figlia, che illumina grazie alla sua innocenza e immunità al freddo dei giorni della merla. I versi centrali sono densi di significato, poiché riassumono per la prima volta – volutamente – in modo lucido le sensazioni dell’io lirico dell’opera: “tuo padre è innocente/di tutto questo orrore/nessuno gli ha insegnato/a raccontare cos’ha dentro/e lui ha nascosto tutti/i mostri sotto al letto”; innanzitutto, il fatto che Appino racconti il motivo della sua sofferenza fingendo di dirlo a sua figlia e non all’ascoltatore è coerente con la sua chiusura verso il mondo che l’ha convinto a compiere il gesto estremo, poi si noti la ripresa della metafora che associa i mostri sotto al letto (ovvero l’uomo nero che si è già incontrato in precedenza) con tutte le difficoltà della vita, che permette di tracciare un parallelismo con la vita del padre stesso dell’artista, già lasciato intendere nei versi finali di “La Festa della Liberazione”, che addirittura si presta a porsi anche come frecciata al genitore stesso. Musicalmente, la traccia inizia col suono di un vibrafono, a cui poi si sommano effetti elettronici più o meno bassi e grezzi, che comunque concorrono a restituire la sensazione di freddo e vuotezza di cui parla il testo; infine, il ritmo è accelerato egregiamente dall’entrata di batteria, basso e cori (che entrano insieme all’immagine della bambina che porta vita e speranza), andando avanti.

“Tre Ponti” riprende il tema di quando aggrapparsi all’amore come unica risorsa non funzioni, legandosi, insieme, alla finzione della famiglia che nella traccia precedente Appino ha detto di essersi costruito. La traccia si presenta, dal punto di vista musicale, come una traccia ricca e originale, incalzante e spesso arricchita dai più disparati effetti elettronici, presentando inoltre nella parte finale l’unico assolo di chitarra dell’album. Dal punto di vista tematico, invece, si parla dell’instabilità e dell’incompletezza della vita basata unicamente sul nucleo familiare, che costringe la persona a sacrificare dei lati di sé in favore di esso e di generarne di nuovi; “forma mentis”, questa nuova, che viene poi inevitabilmente trasmessa ai figli. Accanto a questo tema, poi, trovano posto anche considerazioni legate al tema principale dell’album e alla sua filosofia e critiche sociali, disposte in modo regolare sulle strofe per dare una sensazione di armonia tematica anche se spaziando in diversi argomenti.

“Godi” è presentata da Appino come citazione, per tono della voce e figure retoriche, di Lucio Dalla; lo stile è molto confidenziale, anche se il clima creato, che prepara ad una canzone chitarra e voce, è sorprendentemente arricchito, senza però esagerare, da una seconda chitarra elettrica che entra in più momenti e in più modi durante la traccia. Il testo continua a saltare da considerazioni di tipo generale a esempi presi dalla vita quotidiana della famiglia di Appino; il tema principale è, comunque, la fragilità delle cose umane e della vita, spesso erroneamente affrontata dall’uomo medio con l’etica del “carpe diem”, del cogli l’attimo (“tu dici: ‘godi/godi adesso che puoi’/e poi che succede?/non si gode più/si apre un cratere/dove cadi giù”), il tutto decorato con preziose allitterazioni, tra le altre figure che compaiono. La prima porzione di testo, inoltre, è dedicata ai godimenti della vita, sempre letti con un’ombra di cattivo presentimento (sottolineato e riassunto, in modo apparentemente casuale, dal “ecco, vedi? lo sapevo”) dell’ultimo verso prima della sezione principale, mentre la seconda porzione è dedicata al disfacimento delle cose belle, come ciclo naturale delle cose. La canzone sembra finire dopo la seconda sezione principale, ma riprende con un’ultima strofa impreziosita dall’anafora del termine “libero”, che conclude introducendo la reazione del malato alla fragilità delle cose – alzando il dito medio, ovvero chiudendosi di fronte al mondo – e insieme riprende il concetto della prima traccia dell’opera.

“Schizofrenia” è divisa tra una sezione dominata da un riff molto curato e bilanciato di chitarra acustica a cui si sovrappone un fischio, a tratti stravagante, e un’altra ai limiti del metal dove torna una voce incalzante e simil-rap, fino a formare la parte più aggressiva e travolgente del disco. A parlarci è la schizofrenia personificata, che però altro non è che la parte di noi stessi influenzata dalle sofferenze che abbiamo patito: ecco che torna il tema del rapporto di odio/amore dell’individuo con sé stesso. Il discorso è pronunciato in modo spasmodico, atteggiamento sottolineato dalla presenza di numerose anafore e metafore. La parte di noi stessi che è nostra nemica è frutto dei nostri dolori, ma finisce poi per influenzare prima le persone che vengono a contatto con noi (“son la tara dei tuoi figli/e l’amante del tuo amore”), poi le nostre stesse idee, rese irrazionali (“sono certo che la guerra/l’hanno vinta i disertori/e che la pace è un’invenzione/di poeti e di scrittori”); per sottolineare le contraddizioni che porta, da questo punto di vista, la malattia mentale, nella seconda parte della canzone si aggiungono copiosamente le figure retoriche dell’antitesi e dell’ossimoro. La terza parte diventa ancora più concitata, ma melodica, per poi collassare nell’insania della parte finale: l’inno dello Stato francese canticchiato in modo sempre più distorto fino a trasformarsi nelle urla di un pazzo, che diventano sorprendentemente un ottimo ponte per passare alla traccia successiva. Infine, il “risperidone” di cui si parla nel penultimo verso della canzone, è, per chi non lo sapesse, il farmaco prescritto solitamente a chi soffre di schizofrenia.

“1983”, il cui titolo vuole suggerire la ripresa del tema dal discorso di Natale tenuto quell’anno dall’allora presidente della repubblica Sandro Pertini, è una chiusura perfetta per l’album. Sotto un arpeggio molto tranquillo, reso malinconico da delicati effetti a sintetizzatore e che stride con l’aggressività della traccia precedente, Appino canta di un uomo qualunque di quella generazione (e inevitabilmente delle successive, se il legame tra ideali dei genitori e dei figli non fosse ancora stato sufficientemente esplicitato) rovinato dalla routine lavorativa. In contrasto con la foto da giovane trovata dell’ipotetico interlocutore, che traccia una personalità di speranza e di voglia di cambiare il mondo, l’arrivo dei figli e del bisogno di incessanti orari lavorativi riduce l’uomo medio ad una vista “a testa china”, rendendo l’umanità sterile di quelle rivoluzioni tanto sognate. Il testo è assolutamente uno dei più belli di tutta l’opera, di cui cito la parte dove, tra l’altro, si associa metaforicamente l’uomo ad una barca: “ma i figli arrivano sempre/quando non te l’aspetti/ed hanno bocche grandi/e mangiano i difetti/che pensavi pregi poco tempo prima/e la barca rema con la testa china/ed i palazzi intorno/crescon come funghi/il lavoro impazza/i giorni son più lunghi/crescono i canali alla televisione/e pensi sempre meno alla rivoluzione”; la metafora, per completezza, è ripresa più avanti in “e la barca affonda/senza un’avventura”. Quando si descrivono i figli che, cresciuti, ringrazieranno i genitori per la loro statura (che s’è trasmessa loro; nella cultura della superficialità conta solo l’aspetto esteriore e quindi non si ringrazia per nient’altro) e lasceranno la loro mano, la base musicale si spezza, mimando in modo eccellente questo gesto; i figli sono condannati ad andare nel “Paese nuovo”, che è un Paese dominato dal conformismo, dalla vuotezza e dalla routine, le cui immagini, decantate dal testo, sono evocate anche da una forte e anomala base elettronica, martellante ma non ripetitiva, che dà sia un’idea di modernità, sia richiama qualcosa come l’idea di una catena di montaggio metaforica.

Questo era “Il Testamento” di Appino, che purtroppo ho scoperto e presento troppo tardi per il tour acustico che è stato svolto. Un grandissimo album, meritevole a ragione del premio Tenco “miglior opera prima” per le produzioni musicali indipendenti nello Stato italiano. Lo consiglio vivamente a chiunque, sia per divertirsi con della musica diretta e accattivante, sia per, contemporaneamente, avere molti spunti di riflessione artistici, filosofici e sociali.

Ciao, Ema




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