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Nel labirinto delle delizie terrene [terza parte]

Nel Labirinto Delle Delizie Terrene [terza Parte]

Alamut

“Le isole, le penisole, i continenti; le coste, i fiordi, i golfi e le insenature; montagne, torrenti, fiumi, istmi e altri limiti naturali lungo i quali i popoli si sporgono, intravedono e sognano tesori da scoprire; queste ed altre meraviglie hanno ritratto nelle loro carte geografiche Al-Idrisi, Tolomeo, Anassimandro e altri illustrissimi maestri, le cui opere non temono il confronto con gli affreschi di Goreme o i superbi mosaici di Santa Sofia.

“Ora ammiro l’opera dal celebre cartografo ed esploratore cinese Xuánxū e ne magnifico la cura dei dettagli, la minuziosità con la quale ha raffigurato le bestie esotiche, i mostri marini, le isole viventi, e nel farlo mi domando quante storie trovino spazio in un planisfero, quali avventure si nascondano dietro la raffigurazione di un territorio, e quanti miti nascano dalla sua contemplazione.

“Lo sguardo sorvola terre e oceani in cerca di prodigi nascosti: un ammasso puntiforme sta per una spiaggia di sassi, quella che sembra una virgola può rappresentare una conca tra due crinali, un affastellamento di triangoli verdi sta per una foresta. Ma un occhio accorto può discernere dettagli ben più significativi nelle mappe di Xuánxū, come la presenza di sottilissimi solchi che avvolgono i suoi globi, li dividono in lembi di terra e acqua, formando una fitta rete. Per secoli il loro significato ha costituito un enigma.

“Nei commentari ai lavori del cartografo cinese, l’autore si riferisce a queste linee come ad uno strumento prettamente grafico, utilizzato per riportare misure e proporzioni nella maniera più fedele possibile; mentre è nei commentari ai commentari che il celebre geografo ed esploratore arabo Al Nadhil suggerisce un’ipotesi inedita circa la loro funzione. Nella sua instancabile disamina delle fonti – un oceano di carta e inchiostro tale da colmare la biblioteca di Agrabah fino ai soffitti – Al Nadhil ha scoperto un tratto comune che lega alcune cronache degli esploratori: la predeterminazione. C’è chi partì per affari e finì per ritrovare una città perduta; altri fuggirono dalla legge o dai creditori e naufragarono in acque che ora portano il loro nome. Vissero avventure stupefacenti, videro bestie incredibili, esseri straordinari e terre meravigliose. Storie troppo incredibili per Essere del tutto veritiere, ma accomunate da una caratteristica: l’idea che una forza misteriosa attirasse gli esploratori verso un luogo preciso e che nessuno sforzo riuscisse a sottrarli al loro destino. Visti a ritroso, quegli eventi apparivano ineludibili, come se i nuovi territori reclamassero la loro stessa scoperta e nulla avrebbe potuto impedirlo.

“Secondo Al Nadhil, Xuánxū deve aver creduto a questi racconti e deve averli sublimati all’interno delle sue carte geografiche sotto l’elegante forma di traiettorie che solcano la superficie terracquea, come fili che si incrociano, si dipartono da  (o si ricongiungono in) particolari nodi sparsi per il mondo. È proprio su questi punti di convergenza che si focalizzano le ultime pagine dei “Commentari ai commentari”, dove l’arabo scopre una singolare corrispondenza tra questi e l’edificazione di templi, oracoli, altari votivi, e città sacre. Al Nadhil non ha mai avuto modo di esperire di persona il potere di questi canali, ma supponeva che una sorta di corrente geopsichica li percorra da un luogo ad alta densità verso un altro a bassa densità e che, proprio dove questa energia si concentra, qualcosa di “miracoloso” possa verificarsi. Le carte di Xuánxū mostrano nodi vicino a Roma, Edessa, Tebe, Delfi, nel sud della Gran Bretagna, nelle terre dei Tatari e in un luogo dell’estremo oriente contrassegnato come le “terre del Prete Giovanni”.

Da questa mappa si può notare la presenza di un nodo non distante da qui: le linee convergono in un punto nel deserto, proprio a metà strada tra Damasco e Tadmor…

“Robin, bestia! Stai dormendo!?”

“Nossignore, stavo solo… credo di avere un bruscolo in un occhio…”

“Segui queste indicazioni e troverai la città di Simone. Va’!”.

La città celeste

La guida era avvolta in un mantello nero che ne esaltava la comica pinguedine. I suoi passi brevi e frettolosi sollevavano nuvole di polvere.

“Dove stiamo andando?”

Fece segno di tacere, il suo sguardo era spaurito. Poi si avvicinò e sussurrò “… so cosa ti ha spinto fin qui e ti aiuterò a trovarlo, ma…”, si girò di scatto, come terrorizzato al pensiero che qualcuno potesse udirlo “dobbiamo sbrigarci, perché presto non saremo soli”.

“Allora non sei l’ultimo abitante di Eutopia”.

No: rispose con un cenno della sua grossa testa dalla capigliatura puntuta.

Riattraversarono le arterie della città celeste, passarono davanti agli edifici incompiuti, giunsero finalmente avanti alla biblioteca. L’uomo misterioso condusse il viandante in una stanza il cui ingresso si celava tra gli scaffali crollati e le macerie, poi scostò un pesante baule, rivelando una botola al di sotto.

“Cosa c’è là sotto?”

L’uomo rispose scoperchiando il passaggio segreto. Al suo interno, un buio impenetrabile.

“E credi che ti seguirò lì dentro? Devi essere matto”

L’uomo sussultò al suono di passi rapidi e decisi; quantunque lontano, quel rumore bastò a spingerli giù nel buco.

Al di Sotto Eutopia si apriva una struttura di caverne comunicanti, antri colossali, cattedrali di pietra, colonnati fatti di stalattiti e stalagmiti, absidi rocciosi, vasche d’acqua purissima e trasparente. Qualcuno si era preso la briga di portare delle sedie di legno, tavoli, sgabelli, e attrezzi di lavoro: martelli, picconi, c’era persino un telaio a pedale, ma l’umidità del luogo non aveva mostrato clemenza con quegli oggetti.

Dopo pochi passi, il viandante si accorse che qualcosa di incredibile stava accadendo: se non c’erano lampade né torce, da dove proveniva tutta quella luce? La risposta gli giunse studiando l’ambiente. Cristalli…

“Li chiamiamo lumeniti”

I cristalli brillavano di una peculiare luce azzurra. Alcuni erano isolati negli angoli della caverna ed emettevano una radiazione piuttosto fioca e fredda, mentre i gruppi di cristalli che spuntavano nel centro dell’antro rifulgevano con grande intensità, come se la luce trovasse vigore e riverbero nella loro vicinanza. Qual era il loro segreto? Quale tipo di energia sprigionavano? A quale fonte – se esisteva – attingevano? Tutte domande destinate a rimanere senza risposta.

La fuga si concluse davanti a una parete ricoperta di graffiti, disegni murali e incisioni. In mezzo alla parete si apriva una fenditura orizzontale perfettamente levigata, dalla quale sporgeva una puleggia dentata, forse una leva, che ricordava l’enorme ruota di un timone.

“Che posto è questo? Simone è giunto fin quaggiù?”

La risposta si strozzò in gola da un colpo di piccone. Il cranio del cicerone andò in frantumi, come un melone.

“OCCRISTO!”

“Oh per favore! Non tiriamo in ballo anche lui ora. Come se non avessimo abbastanza profeti in questa storia”

Il viandante incoccò la freccia e tenne l’omicida sotto tiro; prima di trafiggerlo esigeva una spiegazione.

“Mi dispiace di essere entrato in scena così bruscamente, ma non devi preoccuparti: questo ciccione qui ne ha passate di peggiori! Vedi…” il folle emerse dall’ombra mostrando tratti ferini, una barba a punta, una pettinatura cornuta simile a quella della sua vittima… a guardarlo bene, si poteva notare che le somiglianze non si limitavano ai capelli… “Vedi…” riprese “benché egli sia mio fratello, sangue del mio sangue, quando vedo questo idiota contravvenire all’unico vincolo che ci siamo imposti, io vado fuori dai gangheri!”

“Va bene, ma ora calmati”

“Quello che questa palla di lardo non capisce e non capirà mai è che a rendere una storia memorabile non è solo l’intreccio dei fatti, non sono i personaggi… a rendere memorabile una storia è il mistero: se togli quello, cosa rimane? E lui puntualmente cosa fa?!”

“In realtà non mi ha rivelato un bel nulla”

“E questo lo chiami nulla!?”, lo smilzo sollevò le braccia con i palmi rivolti alle pareti “il sancta sanctorum di Eutopia, il luogo di potere nascosto tra le sue fondamenta, l’unico vero motivo che ha spinto Simone in questo buco sabbioso in mezzo al nulla!” con ancora il piccone insanguinato in una mano, l’uomo portò l’altra agli occhi e se li premette nel tentativo di respingere un mal di testa incipiente.

“Adesso sono io che parlo troppo… ascolta” gli occhi piccoli e neri fissavano il viandante come quelli di un animale che si concentrano su una preda “mi sembra chiaro che tu non possa andartene da qui”.

“Fai un solo passo…”

“Non prenderla sul personale… il fatto è che tu non dovresti essere qui. Non saresti dovuto arrivare in questa camera… è tutta colpa di mio fratello – rovina sempre tutto, quel grassone! – Ma la cosa si può risolvere, anche se non ti prometto che sarà una soluzione indolore”.

“Nemmeno io”. La freccia si conficcò all’altezza della trachea trasformando il folle in una fontana zampillante di sangue.

I graffiti mostravano figure umane, alcune raccolte in adorazione, altre erano come avvolte da una fiamma azzurra. Una rappresentazione rudimentale della valle tra i due fiumi mostrava delle linee, dei solchi netti e precisi che la attraversavano per dipartirsi oltre la mappa, oltre il territorio.

L’uomo diede un ultimo sguardo ai due fratelli e un istante dopo, senza che se ne rendesse pienamente conto, stava già spingendo la ruota. Gli ingranaggi si mossero con immensa fatica, scattando e schioccando come giunture di vecchi giganti osteoporotici, colossali chiavistelli di porte antiche quanto il mondo che si liberavano rumorosamente dal giogo delle calcificazioni e riecheggiavano in spazi di inimmaginabile grandezza, abissi senza fine, luoghi impenetrabili agli uomini, dove schiere di ciclopi scavavano e scalpellavano nelle profondità della Terra, già dimora dei titani che sorreggevano il peso del mondo sulle loro spalle.

Un quarto di giro e la luce crebbe un poco: tutto avvolse nel suo tenue lucore. Un quarto di giro ancora e si fece abbagliante. I lumeniti vibrarono emettendo un ronzio insopportabile. La grotta, i fratelli, i graffiti, la ruota stessa, si allontanavano dal viandante. Anzi no: in verità era lui ad allontanarsi. Venne come afferrato per il cappuccio da una mano invisibile e strappato via da quel luogo alla velocità della luce. Tutto si fece sottile, gli oggetti mutarono forma, o, per meglio dire, dimensione, passando da una solidità tangibile a una piattezza priva di spessore, la caverna gli apparve come una miniatura, le figure divennero filiformi per poi assottigliarsi fino a sparire; l’uomo fu immerso totalmente in una luce abbacinante quando infine si accorse di essere precipitato in un altrove extradiegetico.

Alamut

A quel punto era chiaro che il labirinto – se così si vuole continuare a chiamarlo -, non aveva fine. Oppure, se una fine l’aveva, questa non poteva essere raggiunta da nessun uomo. Sempre più frastornato da quella sequenza disordinata di episodi – forse passati, forse futuri, o forse invece presenti, ma in un mondo alternativo, come quello dei sogni – Robin non poté far altro che proseguire, sicché l’immobilità era l’unica scelta inconcepibile – chi avanza nel labirinto si perde per ritrovarsi, ma chi si ferma è perduto per sempre. Le pareti si sfaldavano lasciando cadere fuori dalla matrice mattoni che si polverizzavano fino a diventare pietrisco bianco. Procedeva a fatica e la cosa lo sorprese, poiché “è vero,” pensò, “che la stanchezza ormai pervade il mio corpo rendendo gravoso ogni movimento, ma qui si cammina come in un deserto, con la sabbia che sprofonda sotto i piedi e li avvolge fino alle caviglie…” o come su una spiaggia. E la vide, la nave sulla quale era salpato da Messina, gli alberi spezzati, le vele a brandelli, il timone spaccato, lo scafo fracassato sugli scogli, casse e barili portati a largo dalla risacca.

Passò oltre, infilò un sentiero che dalla spiaggia conduceva nella boscaglia. Si voltò un’ultima volta, ma il relitto non c’era più: sparito, assieme alla spiaggia e a tutto il resto. Forse le visioni date dal miele verde non lo avrebbero più abbandonato, o era qualcos’altro a turbare le sue percezioni?

Il cortile delle esercitazioni era ancora come lo ricordava: i fantocci di paglia per migliorare la scherma, le corde per arrampicarsi, le scale, le trappole, una serie di pedane e ostacoli.

Non lontano da lì, ritrovò la sala che il Veglio e i suoi factotum usavano chiamare la stanza delle ombre. Rinvenne i vasi di terracotta che contenevano il miele verde. Erano vuoti, ma erano ancora impregnati di quell’odore vagamente fermentato, che bastava da solo a dare i primi sintomi di inebriamento. 

Un silenzio assordante catturò la sua attenzione. Gli uccelli si ammutolirono sui rami come sospesi in paziente ascolto, per poi volare via in un unico fragore. A quel convulso sbattere d’ali fece seguito il suono delle campane sulle torrette: Alamut era sotto attacco.

Si seppe in seguito che i nemici compirono la loro avanzata nelle tenebre camuffati come rocce, vestiti del colore della sabbia e della terra, e avanzarono lentamente, notte dopo notte. Se c’era la luna, attendevano che le nuvole la velassero e in quel mentre si avvicinavano più veloce che potevano. Nascosti sotto quella struttura di legno e stoffa tenevano delle vesciche piene d’acqua e scorte di pane non lievitato in un sacco. Il caldo del giorno li vessava senza pietà e molti perirono, avvizziti come alberi tramutati in pietra. Quando furono abbastanza vicini alle mura di Alamut era il crepuscolo del dodicesimo giorno, attesero il cambio della guardia sulle torrette di avvistamento e attaccarono. Tutta la prima linea soccombette sotto le frecce, le pietre, la pece e tutto ciò che si usa rovesciare sul nemico durante un assedio. Ma fu un sacrificio necessario per consentire a una piccola squadra di raggiungere lo scolo delle acque nere, ossia un piccolo canale di scarico dal quale scorrevano e cadevano i liquami degli abitanti della rocca giù per il pendio dell’altura. I soldati strisciarono fino a una griglia di ferro con sbarre grandi quanto un braccio, ignari del fetore, impermeabili al ribrezzo e con grande fatica divelsero la grata. 

Una volta dentro le mura, i soldati seminarono il panico. Gli assassini provarono a riorganizzarsi, ma la sorpresa di ritrovarsi il nemico nel proprio nido sconvolse ogni strategia di difesa. Un soldato sgusciò attraverso le maglie e si lanciò verso il portone d’ingresso spalancandolo, incurante delle frecce che lo bersagliavano da ogni angolo. Con la milizia del sultano dentro le mura, ogni sforzo divenne vano: Alamut fu presa, ma i soldati non si sarebbero fermati prima di aver sterminato la setta fino al suo ultimo adepto.

Robin risalì il sentiero che dal giardino portava al basamento trapezoidale della torre e quindi la scalinata di pietra che culminava nel grande portale. Vide che le due porte di quercia erano state scardinate e ora giacevano sdraiate come due giganti morti. Alla cima della torre si accedeva solo attraverso una scala a chiocciola: scalò ogni gradino come se fosse un atto di penitenza. Giunse all’ultima sala solo per vedere un uomo venire sollevato di peso e scaraventato fuori dalla finestra della grande sala. Lo riconobbe dalla lunga veste nera e dai drappi fiammeggianti che ne ornavano gli orli. Il Veglio precipitò senza urlare, accogliendo la morte come una vecchia amica. Gli tornarono alla memoria le sue parole: “non può finire ciò che non ha inizio, il tempo è il più grande inganno che l’uomo racconta a se stesso”.

Si sporse dalla vetrata in frantumi per osservare la fine del maestro, ma del corpo non rimase traccia alcuna. Il Veglio doveva esser precipitato nel pozzo a ovest della torre. Ma illudersi era un vano esercizio: nessuno sarebbe sopravvissuto a quel volo.

“Molto sadico da parte tua venire ad ammirare i frutti del tuo tradimento”

“Friedrich!”

Il tempo per i convenevoli era appena scaduto. 

“La missione non sarà compiuta finché ne rimarrà anche uno soltanto in piedi. Davanti a voi c’è l’ultimo degli hashishin… finite il lavoro, soldati, avanti!”. Incitati dal comandante, i soldati si scagliarono contro Robin con furore inusitato.

As-Sayf bevve il sangue di quegli sventurati e le venature della sua lama si tinsero di rosso. La spada fletteva come un drappo al vento ed esigeva un grado di maestria nell’utilizzo cui solo gli iniziati potevano accedere: nelle mani di chiunque altro, quell’arma sarebbe stata inutile, oltre che pericolosa per la propria incolumità. Nelle mani di Robert di Loxley, As-Sayf diventava un infallibile strumento di morte.

“Non hai speranze, Robin. Arrenditi e avrai una fine indolore”

“Dopo di te, Freddy bear”

“Sei già morto, anche se non te ne rendi conto”

“Io sono pronto, e tu?”

Lama dritta contro lama curva: la stazza dei duellanti avrebbe fatto pensare al più scontato dei cliché, ma lo lotta non si svolse nella forma più prevedibile:

  1. tanto per cominciare, Friedrich era maestro di spada di Scarborough, ma prima ancora era stato un boscaiolo, figlio di un boscaiolo, nipote di boscaioli e la sua corporatura si era sviluppata alta e robusta come le querce abbattute dalla sua famiglia per generazioni. La sua scherma rifletteva la sua doppia natura con una tecnica fatta tanto di finte e temporeggiamenti quanto di rapidi e poderosi affondi;
  2. Robin affidava le sue probabilità di successo alla destrezza e alla rapidità, ma era un assassino, non un guerriero: l’addestramento cui era stato sottoposto lo aveva preparato per uccidere nel modo più efficace possibile nel più breve tempo possibile;
  3. La strategia di Friedrich si basava su tre fasi: 1) lo studio dell’avversario, 2) la scelta della tecnica più efficace, 3) l’esecuzione;
    1. lama tenuta in verticale a metà del proprio campo visivo, attesa, il peso spostato da un piede all’altro (zoppia goffamente celata alla gamba sinistra), passi lenti in orizzontale; in quegli attimi interminabili i pensieri di Friedrich prendevano forma: -Robin ha una corporatura longilinea, benché di bassa statura, e offre un bersaglio limitato, cosa che, unita alla sua velocità, lo rende un avversario piuttosto elusivo-. Robin estrasse una lama nascosta nel bracciale e la scagliò contro Friedrich; sapeva già che non sarebbe andato a segno: un sacrificio necessario per turbare la concentrazione dell’oppositore;
    2. – Prendere tempo, provocarlo, lasciare che la furia lo accechi e lo sbilanci, squarciarlo in due – “Prima il maestro, poi il gran-maestro, infine il discepolo: di questo posto non rimarrà che polvere e macerie”; Robin non rispose, ma il suo corpo fu pervaso da un fremito di furore pronto a trasformarsi in furia cieca;
    3. Il gigante scattò verso Robin, che indietreggiò, sfuggendo alla portata dell’attacco; Frierich non si scompose, cambiò impugnatura e con un virtuosismo piroettò sul suo asse facendo della lama un’elica; Robin schivò a malapena un fendente balzando alla sua destra e subito un altro accovacciandosi, concedendo un bersaglio al calcio del nemico. Sbilanciato, barcollò all’indietro e appoggiò la mano sul pavimento per evitare la caduta. Quello fu l’attimo in cui Friedrich attaccò con tutta la sua forza. Robin riuscì a evitare l’affondo rotolando in avanti.
  4. In quel preciso istante, Robin e Friedrich si davano le spalle a vicenda, il primo capace di ritrovare l’equilibrio avrebbe potuto sferrare un colpo mortale. Furono entrambi veloci, ma Robin lo fu di più: colpì Friedrich all’altezza del ginocchio destro, ristabilendo la simmetria nell’andatura.
  5. Friedrich usò la spada come una stampella, con la punta conficcata nel pavimento. Robin si avvicinò per il colpo di grazia, ma fu troppo sicuro, troppo lento. Una spallata, giusto sotto lo sterno, finì per buttarlo al tappeto.
  6. Impugnatura a due mani, la spada come un’ascia, Robin come un albero da abbattere: ora era il boscaiolo che combatteva. L’assassino sollevò la sua lama per parare un fendente, più d’istinto che con consapevolezza: la spada di Friedrich si spezzò, ma la cosa non fermò il colosso, che continuò a sferrare fendenti e affondi con la metà della lama e il doppio della ferocia, costringendo l’avversario contro la finestra
  7. Lama contro lama, le forze di Robin languivano. La sua resistenza era solo una questione di nervi e anche quelli stavano per cedere. Un colpo alla bocca dello stomaco e Robin si piegò dal dolore; Friedrich lo afferrò alla gola e lo sollevò da terra…
  8. … Robin tentò un ultimo gesto disperato: un coltello nascosto nel bracciale proprio sotto il polso. Un colpo ben assestato avrebbe sovvertito l’esito dello scontro, ma asfissiato e offuscato dalla stretta del nemico, Robin non riuscì ad imprimere forza né donare precisione al suo colpo, che finì solamente per ferire Friedrich all’occhio sinistro…
  9. … accecato dalla rabbia – ma soprattutto dalla coltellata – Friedrich decise di concludere il duello allo stesso modo di come aveva concluso la vita del Veglio: Robin volò come una foglia staccatasi da un ramo, giù dalla torre, dentro l’oscurità del pozzo.

I soldati operarono infaticabilmente affinché di Alamut non restasse nemmeno una pietra sopra un’altra; depredarono la torre di tutti i suoi tesori, distrussero i segreti custoditi nei sotterranei e infine cancellarono ogni traccia della setta.

Poco tempo dopo, Friedrich lasciò la milizia di Saladino poiché, una volta compiuta la sua vendetta, non aveva più motivo per restarvi. Alla sua diserzione pare fosse collegata la morte improvvisa del visir, che non vide realizzato il suo progetto di usurpare il trono del sultano. Da quel momento in poi, Ellinger sparì dal dominio della storiografia per entrare nel regno degli spettri e delle leggende. Numerose storie sorsero tra i villaggi dell’Arabia, le città della Persia e la lontana India; racconti di razzie, saccheggi e indicibili violenze, tutti con lo stesso protagonista: un orco dai capelli di fuoco, guercio e claudicante, che giungeva col suo mastodontico cavallo lasciando dietro di sé soltanto macerie fumanti. Non si sa se queste storie spuntassero come malerba nel solco del suo passaggio o se trovassero terreno fertile nelle favole che i vecchi raccontavano ai bambini per spaventarli. 

La città fragrante

“Ebbene?”

“Ebbene cosa?”

“Quand’è che potrò incontrare il Veglio?”

“Oggi, domani, mai, sarà lui a deciderlo. Forse lo hai già incontrato e non lo sai”

“Davvero?”

“No… ti stavo prendendo in giro”

“Molto divertente, non credevo che gli assassini coltivassero il senso dell’umorismo”

“Certo. La prima lezione del Veglio è come far morire dalle risate una persona”

“Ha-ha-ha, mi sto sganasciando. Ascolta, sono sei mesi che mi alleno ed eseguo ordini e fino ad ora penso di essermela cavata bene”

“Insomma, mi stai dicendo che ti reputi pronto”

“Sì…”

“Tu sei all’altezza di un assassino, è così?”

“È così”

“Alla mia altezza”

“Alla… no, aspetta…”

“Stammi a sentire, razza di macellaio, l’unica cosa che sei stato capace di fare in questi mesi è sgozzare, trucidare, sbudellare e imbrattarti di sangue, oltre ad aver attirato su di noi l’attenzione di guardie e milizie del sultano, di templari e soldati dell’altro capo del mondo, quindi scusami se nutro delle riserve sulle tue capacità e indugio nel dileggiarti, mio caro “sono l’ultimo arrivato e ho già superato i miei maestri””

“Non ho detto questo”

“Ma lo pensi”

“Ma… va al diavolo”

“Forse più tardi ci andremo insieme. Ora abbiamo da fare”.

 

Avevano un nome – Al Azrid – una professione – commerciante di rarità – e infine avevano un luogo – Damasco, che come indicazione magari non era un granché, ma la cosa non sembrava preoccupare Nadir. In fondo sarebbe bastato scavare nel suk o tra i bazar del distretto commerciale, nulla di più facile… e invece no, perché Al Azrid era un itinerante, vale a dire che le sue merci rare viaggiavano a dorso di cammello tra Damasco e gli avamposti circostanti, che metteva tenda dove e quando lo riteneva più opportuno e proficuo.

“Mi spieghi allora come faremo a trovare questo tizio?”

“Ecco perché non sei ancora pronto…”

Nadir tentò in tutti i modi di inculcare la lezione al discepolo, senza alcun risultato. Per quanto si sforzasse, Robin non riusciva a comprendere la natura di quell’abilità: era quella un’arte, una tecnica o un gioco di prestigio? Proprio lì risiedeva l’errore, nel voler disvelare il meccanismo dietro il quadrante. Non che lo si potesse biasimare: tra tutte le abilità degli hashishin, quella di perambulare era la più difficile da apprendere.

Il maestro spiegò per l’ennesima volta il procedimento preparatorio: “… abbandona ogni riferimento, perdi i contatti con le indicazioni, le iscrizioni, i ricordi di camminate passate: gli odori saranno i punti di repere, il vociare sarà la nostra guida…” pronunciò le ultime parole sempre più lentamente “entra… in sintonia… con lo spirito del luogo…”. Alzò lo sguardo a metà tra l’orizzonte visivo e lo zenit, si ammutolì completamente e l’espressione del viso mutò dal suo solito cipiglio a quella di un bambino che osservava per la prima volta il mondo: in quel momento Nadir era Damasco.

 Quella deriva senza riferimenti li portò a girare ininterrottamente per le vie, le piazze e i cortili; e girare e girare intorno a impressioni, profumi, intuizioni, situazioni; e girare e girare ancora su se stessi, come in una danza mistica, mentre i pensieri si facevano sottili. Camminarono per ore, all’inseguimento ora di rumori (il contrattare poliglotta dei commercianti, i passi leggeri dei bambini che giocavano a nascondino e uscivano di corsa dalle loro tane, lo sbattere d’ali dei colombi, lo stentoreo salmodiare di un muezzin), ora di un numero (il numero di davanzali con vasi di gerani, i pedoni su una scacchiera di una partita a scacchi tra due anziani, le punte delle stelle che adornavano il minareto e il numero di stelle nelle tessellazioni che riuscivano a contare prima di dover strizzare gli occhi), ora di coincidenze (ogni tre passi incrociavano lo sguardo di una ragazza; cinque era il numero di svolte prima di incontrare un’anziana signora che portava una brocca colma d’acqua sopra una scalinata; dodici passi: un predicatore salì sul suo pulpito traballante e cominciò il sermone, i suoi discepoli seduti in cerchio, intorno al cerchio una folla di straccioni ed emarginati; diciassette le colonne che sostenevano le arcate del caravanserraglio, lì udirono un mercante rimproverare i suoi facchini per aver rotto uno specchio; otto passi ancora e il loro sguardo fu di nuovo rapito dal volto d’una giovane donna). Effluvi: seppero di essere nel vicolo dei tintori, una strada stretta e poco illuminata, dall’olezzo che fuoriusciva dalle porte laterali; omuncoli dalla pelle pitturata e lo sguardo spento mescolavano colori, immergevano e stendevano stoffe; il grecale portò loro il delicato profumo della rosa di Damasco, con la quale i notai usavano adornare le grate delle loro finestre. Una violenta irruzione olfattiva catturò la loro attenzione; era menta selvatica? Troppo forte, eppure inconfondibile: un vecchio fumava tabacco al narghilé. Furono i potenti odori delle spezie e dei dolci a guidarli all’interno il suk, dove trovarono infine il negozio di Al Azrid – che in verità aveva l’odore di cose vecchie e stanze rimaste chiuse per troppo tempo.

“Benvenuti, benvenuti, nella mia bottega…”

All’interno, un uomo avvolto in una veste che un tempo doveva essere stata color porpora stendeva sugli scaffali tocchetti di cedro del libano. Contemporaneamente, un uomo anziano armeggiava con un servizio da tè in argento.

“… in cosa posso esservi utile?”

“È parecchio che non ci si vede”

“Io credo… io sono dispiaciuto, ma non la riconosco, signore. Forse lei mi confonde con qualcun altro. Ma venga, permetta che le mostri il mio assortimento di libri antichi, magari i nostri ricordi si schiariranno alla vista di queste meraviglie”

Nadir seguì il mercante nel retrobottega, e mentre i due si appartarono per il baratto di informazioni, l’uomo rimasto nella bottega con Robin gli parlò di sogni.

“Strani tempi viviamo, dove i giovani spariscono e nelle città non restano che donne, vecchi e bambini”

“Presto la guerra sarà finita e i sopravvissuti torneranno alle loro famiglie”

Il vecchio scosse la testa con disapprovazione, ma anche con un ghigno che significava scherno. “La guerra non finisce” disse “non è come una stagione, che detta i tempi del raccolto o della semina. La guerra è come una perturbazione. Forse tra poco la vedrai disperdersi da Acri, ma potrai scorgerla altrove. La vedrai qui a Damasco, o a Gerusalemme, o dalle tue parti, tra la tua gente, tra i poveri, tra i potenti, tra i poveri e i potenti, ma mai svanirà del tutto, perché la guerra è qualcosa che l’uomo si porta dentro sempre”

A quel punto Robin non seppe che dire. 

“C’era un tempo in cui anch’io seguivo il mio maestro in missione e bramavo la sua conoscenza… ora è come se vedessi la mia giovinezza da un punto di vista esterno”

“Mi scusi, ma lei chi è?”

La domanda stupì il vecchio, che disse “sono Al Azrid, ovviamente… ti trovi nel mio negozio di rarità”

“Ma allora con chi sta parlando il mio mae… ehm, il mio amico?”

“Quello? Un impostore, un almuhtal, un’ipostasi, in sostanza: mio figlio”

“Ah!”

L’acqua era pronta per essere versata nella teiera dai finissimi intarsi floreali.

“A quel tempo” riprese Al Azrid “gli attimi della mia vita si susseguivano come come in un sogno. Il vecchio Aloadin ci nutriva con il miele verde e noi vivevamo momenti colmi di letizia. Ma quando l’effetto svaniva… oh, che sofferenze atroci! Eravamo disposti a qualunque cosa pur di poterne assaggiare ancora, di quel nettare. E facevamo davvero qualunque cosa, persino sacrificare noi stessi, pur di non dover soffrire più. Dimmi…” il vecchio fissò Robin negli occhi “riesci ancora a distinguere la realtà dall’illusione?”

“Non so per chi ci ha preso, ma noi non siamo chi crede…”

Il vecchio mercante sorrise e annuì “certo, certo… comunque non devi preoccuparti, la confusione è solo momentanea. Prima o poi ti ci abitui e i pezzi tornano ad avere un loro ordine quando capisci che non c’è alcuna distinzione”

Il tè era pronto. Al Azrid versò una tazza al giovane.

“Cosa?”

“Mmh?”

“Tra cosa non c’è distinzione?”

“Tra ciò che vedi e ciò che sogni…e tra ciò che sogni e ciò che è”

Era evidente che Al Azrid amasse parlare per indovinelli. 

“Ma, se non c’è alcuna differenza, come posso essere certo di essere qui, ora, a conversare con un mercante e bere del tè?” domandò Robin.

“Vedo che cominci a capire… tu ora credi di bere un tè, stringi nelle mani la tazza calda, ma chi ti assicura che tutto ciò sia reale? Chi ti dice di non stare sognando, o ricordando un evento passato in una maniera perfettamente lucida? Allora il mio consiglio è questo: abbandona ogni riferimento, come in quei sogni simili a labirinti dove luoghi e oggetti cambiano inopinatamente ma non il significato soggiacente. Impara ad orientarti in questo spazio capriccioso e troverai ciò che cerchi.”

“Oh, vedo che ti sei messo comodo qui” irruppe Nadir, di ritorno dal conciliabolo “andiamo, non abbiamo tempo da perdere”.

“Cosa ti è successo, Nadir? Un tempo ti saresti seduto con un vecchio amico”

“Mi sono svegliato”

“Buon per te, allora”.

In strada:

“Simone… si è come volatilizzato. Ha abbandonato il suo progetto di costruire una città nel deserto e da allora nessuno lo ha più visto. Pare inoltre che non siamo gli unici a cercarlo… il visir è sulle sue tracce, ma a quanto ne sappiamo, nemmeno loro sanno dove sia”.

“Va bene, ma noi dove lo cerchiamo? Siamo punto e a capo?”

“Non proprio… il caravanserraglio è il luogo dove Simone era solito predicare ai suoi seguaci. È lì che troveremo qualche indizio, se sappiamo cercare” e se c’era qualcuno che sapeva scovare un ago minuscolo in un enorme pagliaio quello era proprio Nadir.

Giunsero che il sole era già calato dietro il porticato, le attività diurne erano terminate e cominciavano quelle notturne. 

Chiesero un giaciglio, per non dover passare la notte all’addiaccio, e compagnia “per non doverla passare soli, se capisce cosa intendo”.

La donna entrò nella camera vestita da odalisca. La luce della lampada ad olio baciava la sua pelle bronzea, tesa, ma non più giovane. Sorrideva: una contrazione della bocca studiata e riprovata negli anni, convincente persino, ma gli occhi non potevano ingannare: tradivano una stanchezza profonda e atavica di chi aveva visto evaporare ogni speranza di redenzione. Si tolse lo zendado che le copriva il capo e senza dire una parola si avvicinò a Robin.

“Non siamo qui per questo”, la fermò il maestro. Lei lo fissò con espressione stupita.

“Quel ciondolo che indossi… ci piacerebbe sapere da dove proviene”, era un ninnolo color argento, aveva la forma di una croce a ‘T’, sormontata da un 8 rovesciato.

“Me lo ha regalato un cliente”, disse lei, voltandosi e nascondendolo nella veste sopra il seno.

“E sapresti dirci il suo nome?”

“No, non me lo ricordo, scusatemi…” fece per uscire, ma Robin la afferrò per un braccio. “Aspetta”, le disse “non temere, se ci aiuterai, sarai ricompensata”. Lei lo osservò, era impaurita, poi fissò Nadir, abbassò gli occhi e rispose “non siete i primi ad avermi domandato di questo ciondolo”.

“Lo immagino, ma non devi temere, non abbiamo intenzione di farti alcun male… guarda” Nadir mise mano alla borsa e ne tirò fuori un sacchetto tintinnante, dal quale scivolarono fuori tre monete “è più di quanto avresti guadagnato stanotte e ne avrai delle altre se rispondi alle nostre domande”.

La donna allungò la mano e prese le monete, “va bene”, disse, “ma non ora, non qui” era evidente che temeva di poter essere udita dall’affittacamere o da altre orecchie indiscrete. “Domani mattina, ai pozzi di Miah Safia”.

Robin e Nadir accompagnarono la donna fuori dalla stanza e la osservarono allontanarsi. L’attenzione del giovane allievo venne rapita da un dettaglio, una piega quasi impercettibile nel manto del cielo notturno: “Maestro…!”

“Lo so. Non guardare”, disse, “vieni dentro”.

“Mi compiaccio delle tue capacità visive, ma devo biasimarti per essertene accorto solo ora”

“Cioè?”

“È da quando siamo usciti dal negozio di Al Azrid che siamo sorvegliati a distanza”

“Ma da chi?”

“E io come faccio a saperlo?”, disse Nadir, “Tuttavia…” aggiunse “… posso provare a indovinare: in questa città nulla avviene che non giunga alle orecchie del Visir attraverso l’incessante opera di spionaggio dei suoi agenti. Al Azrid mi ha avvertito dell’interesse del ministro di Saladino per il culto, ma io sospetto un suo coinvolgimento in uno strato più profondo della faccenda”.

“Credi che Al Azrid ci abbia venduti al visir?”

“Non credo, ma non posso escluderlo. In ogni caso, ora che abbiamo perso il vantaggio dell’anonimato, dobbiamo guardarci le spalle”.

Il cielo era terso e la calura dell’estate si attenuava nelle vicinanze dei pozzi di pietra arenaria. Era quella la principale fonte di approvvigionamento dei damasceni. L’acqua purissima giungeva direttamente dal fiume Barada, superando valli e declivi, sul dorso di settecento archi di un acquedotto romano fino ai pozzi di Miah Safia . 

Talia, questo era il nome della donna, si fece trovare puntuale nel punto stabilito. Nadir e Robin le si avvicinarono con cautela, facendo attenzione che nessuno fosse in ascolto o, peggio, in agguato.

“Sono io Simone”, disse, prima che le venisse posta alcuna domanda.

“EH!?”, l’allievo e il maestro si guardarono sbigottiti.

“Sono io Simone”, ripeté con lo stesso tono.

“Questo lo abbiamo capito ma… cosa significa?”

“Che sono io il profeta che cercate… e lo è Aswad, e Kharim, e Rashad, e Hassan, e…”

“Smettila di prenderci in giro, donna! Non abbiamo tempo da perdere con queste sciocchezze!”, la ammonì Robin, ma il maestro sgranò gli occhi, come se riuscisse a riconoscere il vero in quelle parole. “Aspetta…” disse Nadir, “… per favore, puoi spiegarci meglio?”

“Vedete, il profeta che cercate, in realtà, non era che un attore, un saltimbanco, un imbonitore. Non so per chi lavorasse, ma non era quello che diceva di essere, insomma. Il fatto è che era davvero bravo in quello che faceva veramente, ossia recitare…” fece una pausa, abbassò gli occhi a destra come a voler mettere in ordine una serie di pensieri, poi riprese “era così bravo che la recita sfuggì di mano a lui e a chi lo controllava”.

“In che modo?” chiese Nadir.

“Dovete sapere che io e alcuni disgraziati come me eravamo suoi discepoli, i suoi primi seguaci – o il suo primo pubblico, se preferite – eravamo noi ad assisterlo nel bisogno, a radunare la folla, a diffondere la sua parola. Non che ci volesse molto. Il suo messaggio era potente, le sue orazioni cariche di passione, dove si prefigurava un mondo senza schiavi e né padroni, dove ognuno sarebbe vissuto in pace, aiutando il prossimo. Avremmo costruito la nostra città-santa, l’avremmo chiamata Eutopia e lì avremmo costruito il nostro sogno.”

“E come naufragò, questo sogno?”, domandò Robin, che non poteva ignorare le affinità con la sua vicenda. 

“Successe che una sera, alla vigilia di una predicazione, Aswad, il più devoto tra i discepoli, si recò dal maestro in cerca di conforto per una questione che lo assillava, ma, una volta giunto al suo giaciglio, lo scoprì concertare con uno sconosciuto. La discussione verté su una commedia che stava sfuggendo di mano, su un compenso inadeguato all’impresa, sulla paura di essere scoperto. L’estraneo ammantato nell’ombra proferiva minacce e avvertimenti, ma fu abile a non rivelare mai la sua identità. Aswad ci riferì tutto ciò che aveva sentito, e noi, alla luce di quella testimonianza, non avemmo più alcun dubbio: eravamo stati raggirati. Ci riunimmo per decidere il da farsi, ma a quel punto le cose erano già scritte: avremmo dovuto eliminare il falso profeta.

Giunse il giorno del viaggio verso Eutopia. Era quella una roccaforte abbandonata nel deserto tra Damasco e Palmira, un tempo adibita a guarnigione. Non so come facesse a conoscere quel posto, né perché scelse proprio quello, fatto sta che ci sembrò perfetto per cominciare una nuova vita. Simone addolcì con parole al miele le fatiche del viaggio e i sacrifici per la ricostruzione, ma per noi, che conoscevamo la natura velenosa di quelle menzogne, l’effetto fu di raddoppiare le sofferenze. Tuttavia, non potemmo fare altro che stare al gioco. Aiutammo a ricostruire Eutopia, issammo, erigemmo, scavammo e cazzuolammo, quindi pazientammo.”

“Cazzu…?”

“A quel punto i dubbi cominciarono a filtrare tra le nostre certezze; quelle bugie avevano dato ai poveri di Damasco ciò che non avevano mai avuto in vita loro: la speranza. Sarebbe stato giusto squarciare il velo? All’interno della nostra cerchia si aprivano dibattiti di continuo tra chi voleva eliminare Simone dando la colpa al governo, chi voleva avvertire Simone di essere stato scoperto e chi invece cominciava a considerare la possibilità di far finta di nulla e andare avanti. Prima che me lo chiediate: io ero per l’eliminazione”

“Che carina”

“Le bugie, anche quelle ben orchestrate, non fanno molta strada. Eutopia sarebbe potuta sorgere, forse, ma quanto sarebbe durata? Simone non avrebbe retto – il suo comportamento era sempre più inquieto, la sua favella sempre meno melliflua – la menzogna stava già scavando verso la superficie, tanto valeva recidere il male alla radice. Ed è proprio quello che facemmo.”

“Avete ucciso Simone?”

“Beh sì, ma in realtà no… innanzitutto affrontammo quelli che volevano perpetuare la menzogna e accordarsi con Simone per dividere il compenso (o, nel caso, ricattarlo).”

“Cosa gli faceste?”

“Lo affrontammo una notte, gli dicemmo che avevamo scoperto tutto e che era inutile continuare con la farsa…”

“E lui?”

“Stranamente, contrattaccò: “inutile?”, disse “inutile, voi dite. Guardatevi intorno. Guardate questo posto: è reale, toccate!” e posò la mano su un cumulo mattoni ammonticchiati, “ciò che era nato come un’illusione si è trasformato in sogno e il sogno ora sta diventando realtà…”

“Ma ti abbiamo sentito parlare con quell’uomo

Quell’uomo… voi credete di aver sentito cose, visto persone, ma in realtà avete origliato bisbigli, visto ombre; voi non avete idea di cosa ci sia dietro a tutto questo, eppure… eppure Eutopia si sta realizzando, nonostante tutto. Poveri, emarginati, storpi, persone che sognano una redenzione, un nuovo inizio, sono tutti qui, e altri ne arriveranno”

“Ma Eutopia poggia su un basamento di bugie! Tu non sei un profeta, sei solo un attore!”

“Stupidi, idioti, imbecilli!”

“Ciarlatano!”

“Pazzi! Che Dio vi stramaledica! Cosa volete, eh? Si può sapere?”

“Soldi!” proruppe Hassan, che fino ad allora non aveva aperto bocca.

“Donne!” si aggiunse Aswad, che da quando aveva scoperto l’inganno non faceva che rimuginare sui suoi desideri.

“Aspettate, cosa state dicendo?” ero sconcertata e con me gli altri che erano rimasti.

“Sì, perché deve guadagnarci solo lui?”, dissero. Ma Simone non scese a patti, né noi fummo inclini a perdonare quegli accessi di cupidigia. Ne scoppiò una lite che ebbe come esito l’esilio di Simone assieme ai due dissidenti, con solo una vescica piena d’acqua a testa. Si allontanò verso il tramonto, il falso profeta e pronunciò le sue ultime parole: “sciocchi, il vostro culto della verità ha condannato il sogno di Eutopia all’oblio”, che all’epoca ci sembrarono patetiche, ma che ora, ahimé, suonano come una predizione incredibilmente precisa. Noi discepoli prendemmo il suo posto, ma non fu la stessa cosa. Nessuno di noi aveva il suo carisma. Il messaggio era lo stesso, ma non riuscivamo a trasfonderlo con la stessa forza. Inoltre come spiegare la scomparsa di Simone? All’inizio prendemmo tempo, poi decidemmo di inventare una storia. Raccontammo che Simone si era allontanato da Eutopia per meditare, che aveva bisogno di ritrovare un equilibrio e che per farlo aveva deciso di appollaiarsi su un pilastro vicino Palmira.”

“E funzionò?”

“Certo, perché no? In fondo poteva essere la verità, eccetto che per la spontaneità della decisione, ovviamente. Ma non durò molto. La comunità, senza una guida carismatica, perse la fede nel prodigio che pure stavamo realizzando. La maggior parte è tornata alla vita precedente. Ci riuniamo, preghiamo e ci raccogliamo nel culto di Simone, ma siamo troppo pochi e troppo deboli. Duole ammetterlo, ma la profezia del falso profeta si rivelò amaramente giusta: Eutopia è caduta nell’oblio e la spinta gliel’abbiamo data noi.”

“E così è tutto? Siamo sulle tracce di un uomo che è morto e di un culto che si è dissolto?” chiese Robin al maestro, anche se somigliava più uno sfogo isterico.

“No, non è finita. Non sappiamo se Simone sia effettivamente morto, potrebbe aver trovato rifugio e poi essere tornato a Eutopia. Dobbiamo scavare ancora, giovane Loxley”.

“Beh, io vi ho detto quello che so; ora, vogliate scusare la mia fretta, ma devo proprio andare, quindi se mi date quello che mi avevate promesso…” disse Talia.

“Certo…” Nadir fece per porgerle il sacchetto colmo di monete, ma un dardo trapassò il cuore della donna, che stramazzò a terra con un urlo.

Robin indovinò la traiettoria dello strale e scattò a sua volta come una freccia per catturare il sicario. Nadir fu sul corpo della giovane, le abbassò le palpebre, e provò per lei un sentimento di estrema compassione. Poi si ricordò del ciondolo. Lo prese tra il pollice e l’indice per studiarlo, dunque decise che alla poveretta non sarebbe più servito e glielo sfilò.

In quel momento Robin tornò sulla scena del misfatto. “È fuggito… ma perché ucciderla? Perché ora e non prima?, non ieri sera, almeno?”

“Voleva essere sicuro… nessuno del culto dovrà sopravvivere. Anche il destino degli altri discepoli è segnato”.

“E adesso cosa facciamo?”

“Innanzitutto allontaniamoci da qui. Sono sicuro che le guardie siano state avvisate dal sicario e che in un lampo ci saranno addosso. Ci nasconderemo finché le acque non si saranno calmate. Vieni”.

Le guardie difatti accorsero, la folla si radunò formando un capannello, ma i due Assassini si erano già dileguati per le vie di Damasco.

Lapis Ex Caelis

Fu risvegliato dal brivido di qualcosa che strisciava sul dorso della mano, lasciando dietro di sé una scia bagnata. Immobile, supino su un manto verde, il suo viso rivolto al sole, attese che la chiocciola si trascinasse via. Si levò in piedi e per la prima volta dopo tanto tempo si sentì pervaso da un rinnovato vigore. Si scoprì sulla cima di una torre che dominava su un mare verde smeraldo.

Non era sicuro dove fosse di preciso, non aveva mai visto quei luoghi, ma era la sua terra, di questo era certo: riconosceva gli odori, i colori, lo stesso cielo… era la sua Inghilterra.

Il sentiero che dalla collina portava a valle gli ricordò la tortuosità di un labirinto. Quando raggiunse la base di quella piramide naturale, si diresse verso – ma è più corretto dire che si ritrovò attratto da – un cumulo di rovine di quella che doveva essere una chiesa, o meglio un’abbazia. Passò tra gli archi diroccati e osservò i viticci che si insinuavano tra i mattoni, il muschio che ricopriva le pareti settentrionali, il sentiero lastricato ancora bagnato di rugiada. Alcuni corvi gracchiarono al suo passaggio, ma, invece di sbattere le ali e fuggire via, vennero a posarsi sui rami di un vecchio frassino, come se quella figura emaciata e quasi spettrale fosse per loro familiare.

L’edera aveva preso possesso delle volte, di quegli archi senza soffitto, esposti al cielo come ossa spolpate; le colonne un tempo bianche si erano imbrunite dall’azione del fuoco e incrostate dalle piogge. Una statua svettava nel centro di una fontana asciutta, era ridotta ormai a una figura elementare senza capo, né braccia, ricoperta di muschio ed escrementi di uccelli. I corvi continuavano ad osservare l’incedere di quell’uomo tra le rovine.

Giunse infine in uno spiazzo lastricato semicircolare che doveva essere stato la base di un abside prima che le fiamme lo divorassero. Sotto una catasta di legna marcia e frammenti di muratura, intravide dei gradini che portavano a un piano inferiore. Quando vi entrò e fu completamente immerso nell’oscurità, una fiammella fioca e lontana si accese per guidarlo nella sua marcia, che avveniva tastoni lungo le pareti fradice e mezze franate. Quando la raggiunse, altre luci si accesero e poté constatare che si trattava nientemeno che di lumeniti. Ve n’erano in grande abbondanza lungo le pareti e negli angoli, in quella che doveva essere una cripta. Il viandante si soffermò sullo studio del grande sarcofago al centro della sala; la luce era debole, ma permetteva di scorgere le linee incise nella pietra; le mani scorrevano sulla superficie increspata, sulle ruvidità di quella pietra antica, strappata alla terra per accogliere i resti di un nobile condottiero, lo spirito stesso di quella terra, le dita indugiarono sull’iscrizione incisa su una massiccia croce di granito, che recitava solenne “Hic jacet sepultus inclitus rex Arthurus”.

Un altare di roccia emergeva dal pavimento come una stalagmite perfettamente levigata, il piedistallo reggeva una pietra nera dalla forma che poteva ricordare quella di un uovo. E come un guscio d’uovo crepato sulla sua sommità lasciava intravedere il suo interno, che non era giallo, né rosso, ma screziato come la luce che lambisce un cristallo trasparente.

Nel raccogliere quell’oggetto misterioso, l’uomo constatò che la superficie nera era solo una crosta, una patina che ricopriva l’artefatto come un bozzolo, forse il risultato finale della carbonizzazione di un materiale che lo ricopriva già prima dell’incendio che aveva devastato quel luogo. Quel guscio nero si spaccava con facilità sotto il suo tocco, rivelando al suo interno una levigatezza e una luminosità innaturale. Era dunque quell’uovo angelico il suo obiettivo? Era quella la tappa finale del suo viaggio? 

Una scena prendeva forma all’interno dell’oggetto, ombre e figure si muovevano come



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Nel labirinto delle delizie terrene [terza parte]

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