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Nel labirinto delle delizie terrene [seconda parte]

Le api depositano il nettare nell’arnia e, prima di riprendere il volo, compiono il loro balletto misterioso: parole in danza. Mi domando se anche il mio cammino non abbia un significato, se miei passi non stiano seguendo il solco di parole già tracciate da un osservatore dall’alto. “Le parole…” una voce sussurra “… non sono che artefatti, cristalli di idee e concetti, testimonianze di culture passate che emergono dal fango della storia come antichi reperti. In esse troviamo i sedimenti della sapienza di civiltà remote, la magia che plasma il mondo in cui viviamo”.

“È tutto già stato scritto dunque? A cosa serve vivere se nulla di nuovo può essere creato?”

“Nella pietra e nella terra – che tiene traccia di ogni cosa – è già scritto tutto e il suo contrario. Il nostro compito è far riemergere una parte del tutto e farla rivivere. Ciò che è stato scritto può essere riscritto ed essere infuso di significati diversi”.

Così ascolto quella voce e procedo nel cammino che mi sembra non finire mai. Sono nei recessi più vetusti e inesplorati del dedalo, me ne accorgo dai rampicanti che ricoprono le pareti, nelle felci che si alzano dal terreno. Forse più avanti il labirinto si trasformerà in un bosco, e più avanti ancora sarà forse una foresta, le strade saranno sentieri contorti, gli snodi saranno segnati non più da statue ma da vecchie querce.

Vedo già un fiume tagliare una radura in due metà e due uomini fronteggiarsi su un tronco posto tra le due rive. Non riesco a distinguerne le fattezze, ma non credo di averli mai visti prima. “Ehilà! Che fate!?”, provo a chiamarli, ma quelli se le danno di santa ragione. Forse si ammazzeranno e io non posso far niente, se non proseguire oltre.

Una gazza ladra saltella sul terreno e mi indica la via.

Alamut

La via porta direttamente in una stanza, o, per meglio dire, in un ingresso. Un ingresso a cosa? Davvero non lo so dire.

Posso distinguere nel chiaroscuro i singoli granelli di polvere sospesi in aria, volteggiare a mezz’altezza, li vedo sbalzati lontano da uno sbuffo d’aria e in quel momento vedo l’uomo che è lì seduto ad attendermi chissà da quanto.

“Chi sei tu?”

“In questo luogo, tempo e spazio si confondono. Anche se non te lo ricordi, noi due ci siamo già incontrati”.

La luce crepuscolare che penetra dalle finestre – non sono visibili dall’ingresso, ma si può intuirne la presenza e la forma dai rettangoli sulle pareti in fondo – illumina la camera con un tono cupo, dentro il quale posso comunque distinguere nitidamente alcuni degli oggetti che la arredano:

  1. una sfera armillare;
  2. un astrolabio;
  3. una scatola di legno, con la superficie superiore decorata di linee bianche (suppongo d’avorio) e nere (suppongo d’ebano), che si intrecciano, si sovrappongono e… sembra formino un disegno, una geometria complessa, di linee e traiettorie non lineari; all’interno della scatola, ci sono tre piccole campane, che suonano – non si sa come, né perché – a intervalli irregolari;
  4. un trattato sulle costellazioni in una lingua sconosciuta – le configurazioni degli astri non somigliano affatto a quelle attuali;
  5. una mappa – poco più che un bozzetto – di una montagna, al di là di un deserto e una gola a forma di luna crescente;
  6. quello che resta di un vecchio aggeggio meccanico, una ruota ossidata e incrostata di sedimenti, ingranaggi arrugginiti;
  7. uno specchio, o qualcosa che gli somiglia: una cornice di legno di noce, due bordi perfettamente dritti, gli altri due curvi: quello superiore è un’ogiva che nasce da un gioco di intrecci a simulare il groviglio vegetale della vite, quello inferiore leggermente incurvato come dal peso delle pigne d’uva intarsiate maestosamente. La superficie non riflette immagine alcuna. Qualunque sia il materiale, il suo comportamento è quanto di più assurdo abbia mai visto: la sua superficie si increspa in onde e si agita come quella di un laghetto mosso dal vento. Non oso toccarlo;
  8. un mortaio con pestello; dentro il mortaio una polvere di colore rosa, forse un miscuglio di due o più ingredienti, a giudicare dall’odore, uno di questi deve essere un fungo;
  9. un libro chiuso, la copertina rovinata, una crosta gibbosa e corrosa dall’azione del calore e dalle intemperie, tra le cicatrici e le ferite di quella pelle logora si intravedono le fattezze di un volto umano;
  10. un uovo tutto d’oro;
  11. un piatto con sopra disegnato un volto umano che cambia espressione e sembra stia per parlare, ma non emette alcun suono;
  12. una candela inestinguibile – a detta dell’ospite;
  13. una lingua essiccata;
  14. una mano usata a mo di candelabro, su ogni dito una fiammella;
  15. una lampada; osservandola da vicino si può notare una leggerissima vibrazione; un sottilissimo filo di fumo bluastro fuoriesce dal “becco”.
  16. una rosa di vetro;
  17. un portagioie contenente diciannove bellissimi anelli;
  18. una freccia d’oro;
  19. una lanterna nera con sopra inciso un cerchio e dentro il cerchio un triangolo rovesciato;
  20. un piatto di porcellana bianco e nero, decorato con un motivo che ricopre l’intero piano con figure geometriche (forme stilizzate che ricordano delle stelle) ripetute in un’illusione di infinito;
  21. una gabbia per uccelli (vuota);
  22. un bezoar immerso in un liquido rosso rubino, custodito in un calice di cristallo che richiamava la forma di un fiore immaginario e bellissimo, vagamente simile a una rosa, ma grosso come un carciofo;

La mia attenzione si sofferma su un oggetto particolare. È un ciondolo, una croce a ‘T’, sormontata da un ‘8’ rovesciato. Lo guardo bene: è un serpente che si morde la coda.

“Ho già visto altrove questo ninnolo”

“Palingenesi. Significa rinascita, rinnovamento… e redenzione”. L’uomo mi fissa dal suo seggio, il tono severo si fa schernente “dovresti avere una certa familiarità con il concetto, giovane Loxley”.

Il vecchio è dello stesso colore dell’ambiente intorno, somiglia a un addensamento animato della materia che forma gli oggetti e la stanza intorno: un cumulo di polvere parlante.

“L’uomo che si nasconde dietro oggetti come questo ha imbonito una folla di ingenui, ha dispensato false promesse di espiazione… li ha condotti in un labirinto di menzogne per poi abbandonarli al centro di esso”.

Restituisco il manufatto alla bacheca, e nel farlo osservo gli occhi del vecchio: iridi chiare, quasi trasparenti, fissano un punto in alto sopra la mia testa. Allo stesso modo, un barbagianni impagliato punta i suoi bulbi – sembrano due pianeti neri – nella mia direzione.

“Cosa c’entrano gli hashishin in tutto ciò?”

“Nel suo pellegrinare, Simone ha sparso i semi dell’inganno. Da questi semi sono germogliate false profezie, menzogne così potenti da ingannare persino la morte… converrai che tutto ciò rientra nella nostra sfera di competenza”

“Com’è possibile una cosa del genere? Come può un falso profeta ingannare la morte?”

“Questo devi scoprirlo tu, giovane Loxley. Segui le orme lasciate da Simone, scopri le motivazioni che l’hanno spinto a fare ciò che ha fatto… scopri i suoi segreti”

“C’è solo un problema: Nadir”

Il veglio aggrotta la fronte, sul suo volto si disegna un’espressione di stupore, come se quel nome gli ricordasse qualcuno ormai scomparso da tempo immemore. Non sono passati che pochi giorni.

“Nadir…” ora il veglio abbassa il capo, osserva un’intersezione sulla scacchiera del pavimento, sembra ricordare “… il filo di Nadir non fa più parte della trama. Ora sei tu la mia lama”. Si alza dalla sedia a fatica, come gravato dal peso di migliaia di anni. Si dirige verso un tavolo intarsiato, ai cui piedi riposano leoni d’ebano; sul marmo giace As Sayf – o una spada del tutto simile. Il pigmento della lama ricorda l’inchiostro che si diffonde, contorcendosi, nell’acqua. Nelle mie mani, la spada sembra catturare la luce che la colpisce, una stella nera che assorbe la radiazione, divora la vita di ciò che le sta intorno. Si flette sotto la pressione della mano; come può essere un’arma tanto affilata da mozzare la testa ai nemici con lo sforzo di un respiro? Nelle mani di Nadir era letale. Saprò impiegarla come il mio maestro?

“Trova Simone. Lascia perdere Nadir!”

E se questa storia è fatta di storie, dov’è che queste storie si allineano, si intrecciano e infine si congiungono? Chi sono gli eroi, chi le dame, i nemici, gli alleati? In questo mondo tra i mondi, vedo me stesso ed altre persone – alcune conosciute, altre no, o forse non ancora – mutare il proprio ruolo, cambiare il loro posto nel disegno, vivere vite diverse all’interno di un unico enorme intreccio. Alla fine di questo intreccio, ci scopriamo tutti quanti traditori.

La città fragrante [4]

Incocco, miro, scocco. La gola emette un verso soffocato, l’anima lascia il corpo.

Incocco – traslazione orizzontale di 85° – scocco. Sentenza di morte.

Con un balzo sono sul tetto, le pietre riflettono la luce lunare; la lama è sottile, letale, taglia carne e tendini come burro.

Nel forte tutto tace. Un soffio di vento agita il fuoco delle torce. Le guardie dormono. Sonno è fratello di Morte.

Il passo è leggero, un gioco di coordinazione di muscoli, tendini e legamenti per muoversi rapidamente senza emettere il minimo rumore.

Passi nel corridoio tangente, davanti a me. Vedo l’ombra di una guardia – passo regolare, statura perfettamente eretta, scimitarra al fianco – allungarsi sempre più. Meglio cambiare percorso.

Le scale conducono nei recessi della prigione. Scendo in un’alternanza di luce e ombra, giù, come in una torre rovesciata. Colpi di tosse. Lamenti di dolore. Miasmi, odori malsani, il fondo è dove sedimentano le scorie più spregevoli di Damasco, la città fragrante.

Incocco, miro, scocco. La membrana si lacera a contatto con la torcia, l’acqua fuoriesce ed estingue la fiamma restituendo la sala al dominio della notte. Le sentinelle hanno giusto il tempo di stupirsi prima di precipitare nel regno di Morfeo. Spettro nel buio, mi muovo tra le celle, scruto le facce inespressive di ladri, tagliagole, furfanti di ogni sorta e infine lo trovo, il volto sofferente ma dignitoso del mio maestro, assorto nelle cogitazioni della sua mente instancabile.

“Non dovresti essere qui”

“Prego, non c’è di che”

“Non c’è spazio per la pietà, nel credo. Non per i nemici, né per gli amici”

“Amici… facciamo passi da gigante, eh? La prigione ti ha fatto bene. Forse dovrei lasciarti ancora un po’ qui”. Cerco la chiave giusta per aprire la serratura.

“Ascoltami, Robin”, è la prima volta che mi chiama per nome, dev’essere una cosa seria (e, considerando che il maestro raramente si lascia andare in facezie, questa dev’esserlo più del solito) “perché credi che le guardie non mi abbiano ucciso su quel tetto?”.

“Per… uhm, interrogarti? Estorcerti informazioni? Come faccio a saperlo? Sto cercando di aprire questa cella, dammi un attimo, dannazione!”

“Gli hashishin non possono essere interrogati. Se torturati non parliamo, non abbiamo legami per i quali essere minacciati e la prospettiva della morte non ci spaventa, perché ci prepariamo in ogni istante a lasciare questo mondo. No, Robin. L’hajib non mi ha interrogato: sapeva che sarebbe stato vano. L’hajib vuole te…”

Un colpo alla nuca e perdo i sensi. Ma un attimo prima che la tenebra cali sui miei occhi, vedo il volto di un uomo che credevo perduto per sempre.

—-

Il vento alza la sabbia e sferza impietoso le tende che stoicamente resistono. Ma non solo rena viaggia nel vento. Voci, tra le dune le gole e i canali che incessantemente mutano forma e altezza. Voci di demoni nel gracchiare e nel cicalare, nel brulicare e lo stridere di carapaci ai margini della notte, che sussurrano, irridono e ingannano.

“…dove stiamo andando? Siamo alla deriva. Dobbiamo raggiungere Riccardo, non possiamo continuare così, è come se il nostro naufragio non fosse mai finito.”

“Tu non capisci, Robert. Siamo finalmente liberi! Non abbiamo più Re da servire, né tasse da pagare, ne un regno per cui morire. Noi siamo il nostro regno, i nostri Re. Siamo padroni del nostro destino!”

Gli altri sono con Friedrich. Io scuoto la testa, l’idea le rimbalza all’interno senza trovare un appiglio per fermarsi e attecchire. Siamo padroni di un destino che ci ha resi predoni e, per quanto mi riguarda, questa libertà ha un prezzo troppo alto.

Ora sono su un’altura, osservo degli uomini passare davanti a una gola rocciosa scortati da animali – cammelli.

“Che fai!? stai giù!”

Obbedisco, mi sdraio sulla pancia, schiacciato sulla sabbia.

La carovana arriva al punto prestabilito. Io estraggo una freccia dalla faretra, la incocco, devo fare particolare attenzione alla calibrazione: non è una freccia come le altre. La sua punta è costituita da un dispositivo composto da ance e lamelle; al suo interno, la struttura convoglia l’aria al suo interno creando vortici e vibrazioni di diverse ampiezze. Non uno strumento per ferire o uccidere, ma per terrorizzare con il verso di cento grifoni che piombano in picchiata sulla preda. E così avviene, con un piccolo aiuto del fuoco greco…

La carovana in preda al panico imbocca il sentiero tra le due pareti di roccia. Lì  Friedrich e gli altri compagni la attendono; provocano una frana; sbarrano la strada.

La sabbia si tinge di rosso nel giro di pochi istanti.

“Avevi detto che non avremmo ucciso nessuno!”

“E come credi che li avremmo derubati, chiedendogli perpiacere?!”

Sono sconvolto, osservo desolato la mattanza compiuta da coloro che un tempo credevo essere bravi uomini.

“Se non ti sta bene, puoi sempre andartene! Vai, raggiungi Riccardo a San Giovanni d’Acri! Lì devono passarsela un gran bene!” Friedrich è fuori di senno. La sua statura sembra crescere di pari passo alla sua rabbia, al suo odio che monta come una marea. “E poi…” aggiunge “ne è rimasto uno in piedi, guarda…”.

Il sopravvissuto è in attesa, come paralizzato, dell’inevitabile. Gli si avvicinano due dei più sanguinari seguaci di Friedrich con le spade sguainate. La testa si stacca dal collo, cade ai piedi, il sangue sprizza dalle arterie e comincia a creare una pozza viscosa mentre il corpo ancora è in posizione eretta, come se ancora non si fosse accorto del cambiamento al di sopra delle sue spalle. Gli occhi ancora spalancati dal terrore, la bocca si muove scossa da un riflesso, le labbra tremano, è come se volesse parlare, proferire una maledizione. Friedrich osserva sbigottito la scena che mai avrebbe potuto prevedere: Thomas, il suo seguace più forte e spregiudicato, decapitato dalla mano di un vecchio. E sul viso di Gail, l’altro carnefice, prende forma l’espressione di chi si è accorto di essersi avvicinato troppo a un pericolo mortale e senza il tempo necessario per fuggire.

Forse un veterano di guerra, un soldato scelto dell’esercito del sultano, ma cosa ci faceva lì? Domande inutili e poco tempo per trovare le risposte. Anche la sua testa si ritrova a fare un viaggio lontana dal collo.

Io non capisco. Non ho nemmeno visto il vecchio estrarre un’arma. Tutto è accaduto così in fretta. Posso solo osservare lo sguardo imperturbabile dei suoi occhi contornati dalle rughe che fanno somigliare la sua pelle ad argilla cotta al sole.

L’urlo di Friedrich riecheggia nel crepaccio come il ruggito di un animale preistorico. Comanda la carica: tutti contro il vecchio, e finalmente posso vederlo sfoderare la spada. Recide muscoli, tendini e arterie, le articolazioni si staccano alla base, i corpi smembrati crollano inanimati in un turbine di sangue che imbratta e impregna le rocce. L’ultimo a rimanere in piedi è Friedrich (e poi ci sono io, che mi guardo bene dall’intervenire).

“Robert, codardo, vieni qui! Diamo una lezione a questo vecchio cane!”

Sono di sale, come imprigionato tra due istanti di tempo.

Vedo Friedrich assalire il vecchio con tutta la sua possanza: afferra il vuoto, fende l’aria, colpisce il nulla. Vedo il vecchio perforare la gamba sinistra di Friedrich all’altezza del ginocchio. Il gigante inciampa, casca, si prostra dal dolore. È furente e il suo ruggito fa tremare la terra. La calma del vecchio invece è solenne e disarmante. Solleva la lama, ma un attimo prima di reclamare un’altra testa, si ferma e mi osserva. Poi lo sguardo torna sulla nuca di Friedrich e il vecchio esclama le parole più sorprendenti che ho sentito quel giorno: “Non spetta a me prendere la vita di quest’uomo”. Il che mi suona incredibile, dato il numero di “vite prese” senza batter ciglio appena un attimo prima.

L’uomo pulisce la lama con un lembo di stoffa, la rinfodera e intima a Friedrich di sparire dalla sua vista. Friedrich si rialza come può, il sangue sgorga dal ginocchio come una cascata che passa attraverso un costone. Farfuglia qualcosa, bestemmie mescolate a minacce. Si allontana voltandosi indietro solo quando arriva a una distanza che giudica sicura. In questo modo finisce il sogno di Friedrich Ellinger, di un’utopia senza radici, una nazione senza territorio, nata da un naufragio, morta in una carneficina.

E adesso? Io e il vecchio ci fissiamo negli occhi.

“E la mia vita? Quella ti spetta?”

“In un certo senso, sì.”

“Non lotterò. Sono stanco.”

“È proprio quello che speravo di sentire… Robert di Loxley, alla mia età sono costretto a centellinare le mie forze”

“Come sai il mio nome?”

“Le informazioni corrono anche in posti come questo. Vi credevate liberi? Pensavate di vivere come fuorilegge nel totale anonimato? Ebbene, vi sbagliavate. La notizia di una nave inglese dispersa in mare mentre era diretta a San Giovanni d’Acri ha fatto il giro del sultanato. Il suo equipaggio è stato dato per morto per un certo periodo, ma la storia di un manipolo di predoni con le armature dell’esercito di Re Riccardo si è diffusa rapidamente, complice anche la crudeltà dei suoi assalti contro persone indifese. Non ci è voluto molto per ricostruire i tasselli mancanti. Le notizie volano veloci, giovane Loxley, e quella della sparizione dell’arciere più dotato dell’esercito dei tre leoni vola più veloce delle sue frecce. Ma non è esattamente a questa tua abilità che siamo interessati.”

“Noi?”

“Noi assassini, intendo”

“Assassini?”

“Per Allah onnipotente, ma perché continui a ripetere quello che dico?”

“È che… è assurdo, tutto questo”

“Cosa? Che io sia un assassino o che esista una setta degli assassini? In ogni caso, non ti basta la mattanza che ho appena compiuto?” indica la poltiglia di sangue e corpi smembrati dietro di sé.

“Ok, ti credo. Ma cosa volete da me?”

“Non chiederlo a me. Io ho solo eseguito il mandato del Veglio della Montagna. Adesso seguimi o ti ammazzo.”

Più o meno è così che sono andati i fatti la prima volta che ho incontrato il maestro Nadir.

—-

Al risveglio, sono nel giardino delle delizie. Ma no, è impossibile, la ragione si risveglia sempre qualche istante dopo i sensi. La prima cosa che vedo sono i magnifici arabeschi del soffitto, i meravigliosi incastri geometrici che piovono dalle volte giù verso le colonne, le tassellazioni che ricoprono le colonne, i cui capitalli sono a loro volta intarsiati con motivi che rimandano al mondo vegetale, palme, cortecce, intrecci di rampicanti, e i colori smaglianti delle pietre preziose, smeraldi, lapislazzuli, rubini…, vedo un trono, è d’oro, sopra siede un uomo, è grasso, avvolto in un abito color porpora con intrecci geometrici dorati – veste come un re, ma non è un re, né il sultano. Vedo dei servitori: uno porta un vassoio, sul vassoio vedo delle leccornie assortite: datteri, fichi secchi, del cedro, dell’uva passa, l’uomo grasso afferra un chicco tra indice e pollice, lo porta alla bocca; altri due servitori agitano dei ventagli fatti di piume di struzzo per alleviare la calura.

Allo stesso tempo non posso ignorare la corruzione che avvolge come una patina ogni cosa; cupidigia e avidità ricoprono come una salsedine corrosiva ogni oggetto destinandolo al degrado. Questo vedo, ma forse è solo colpa della botta in testa.

Mi alzo, o per lo meno ci provo: sono legato – mani e piedi – ma non imbavagliato.

“Ben svegliato, spero che i modi del mio accolito non siano stati troppo duri”, ride il grasso amministratore, acconciato come un satrapo dell’impero persiano.

“Tu slegami e poi ti saprò dire come mi sento, dopo averti sgozzato”

“Non credo a ciò che sento. Il Robert di Loxley che conoscevo non avrebbe ucciso nessuno, nemmeno se costretto”, quella voce…

“Friedrich… questa sì che è una sorpresa. Vedo che persino il deserto ti ha rigettato.”

Cambiato è la parola esatta.”

“Bene, se non vi dispiace, salterei i convenevoli per chiarire subito la situazione”, irrompe il visir. “Il mio nuovo… pupillo Friedrich è un uomo dalle innumerevoli risorse: su tutte, spicca la resilienza… pare che ciò che non lo uccida lo fortifichi. Un’altra sua virtù è l’ostinazione: un molosso che non molla mai la sua preda. Ora che sei qui, uno di voi due è di troppo… Friedrich, fai del vecchio ciò che vuoi”.

Friedrich avanza claudicante verso Nadir e senza batter ciglio gli trapassa il petto con la sua lama dritta.

Ora mi osserva, vuole nutrirsi della mia collera… una speranza vana. Sfila la spada dal corpo esanime del vecchio assassino e si dirige verso di me, deciso a tranciarmi in due.

“Fermo!” ordina il visir e il gigante rosso si pietrifica. Un molosso, sì, ma perfettamente ammaestrato. “Lui no!” ordina il visir, e si rivolge a me: “Ora che sei al mio cospetto, il ruolo del tuo maestro si è fatto tutto a un tratto superfluo… e Friedrich qui aveva un conto in sospeso con lui, sai…”

“E io che ruolo svolgo nella tua trama?”

“Che domande! Secondo te perché mi sarei preso la briga di attirarti qui? Ascoltami, la faccio breve: la setta degli assassini non ha mai avuto punti deboli, una struttura inviolabile, quella dei suoi seguaci, come quella della sua fortezza. Almeno, fino al tuo arrivo. Il Veglio deve avere grandi progetti per te, altrimenti non avrebbe mai accettato uno straniero tra le sue fila. Progetti tanto ambiziosi da sorvolare persino sul pericolo che rappresenti per la sopravvivenza della sua setta.”

“Cosa ti fa pensare che sia l’anello debole della catena?”

“Beh, sei venuto fin qui per salvare il tuo maestro… nessun altro assassino l’avrebbe fatto, non è nel loro codice. Tu sei diverso, ammettilo, non sei di qui, sei un naufrago, un bambino sperduto in un posto che non conosce e non può capire. E poi non hai fede… quella forza incrollabile che spinge gli assassini a compiere sacrifici impossibili per chiunque altro: tu non ce l’hai, tu non credi in niente… sei più simile al tuo vecchio compare Friedrich che ai tuoi nuovi amici. Puoi ingannare te stesso, ma non me: il tuo posto non è con loro… forse il tuo posto è da nessuna parte”

“E questo discorso dovrebbe convincermi ad aiutarti?”

“No, ma ho altri argomenti che potrebbero persuaderti…” il visir mi mostra un oggetto dall’aspetto familiare.

“Ma non mi dire…”

“Eh già…” sfoggia il suo ghigno più fastidioso “so che conosci questo simbolo, ma conosci il suo vero significato?”.

“Illuminami”

“Vedi, questo non è che il simbolo di una menzogna. D’altronde l’artigiano è stato piuttosto esplicito, se ci pensi: il serpente è notoriamente il simbolo dell’inganno e il fatto che si avvolga e morda se stesso indica il perpetuarsi di questa menzogna. E che dire della croce? Bastone, albero o una più complessa raffigurazione del doppio cammino che deve compiere un uomo durante la sua esistenza: una terrena e una trascendentale?

Quanti significati può racchiudere un oggetto tanto semplice, quanta potenza! Poco importa se questi significati sono semplici finzioni, fatue bugie costruite dalla mente geniale di un demiurgo”

“… per quale motivo il sultanato si prende la briga di mettere in piedi una messa in scena tanto articolata?”

“Il sultanato?”, il visir se la ride di gusto “oh, no, non il sultanato: gli assassini!”

“Che!?”

“È elementare, se ci pensi: cosa rende più fedeli i propri adepti se non una storia convincente? e cosa convince di più gli adepti se non renderli protagonisti di questa storia, (con l’aiuto di qualche sostanza che alteri la coscienza)? Tutti gli assassini cercano riscatto, giustizia e redenzione, tutti voi cercate Simone, il falso profeta – tanto falso da non esistere nemmeno – e, intanto che cercate, realizzate il piano di conquista del Veglio della Montagna, come pedine di un gioco di cui non potete vedere il piano complessivo… che tristezza! Ma ora che sai la verità sei libero dal giogo e puoi vedere le cose come stanno realmente”

“Realmente!? Io non ci vedo un bel niente di reale, in tutto questo. Io vedo sì una storia inventata di sana pianta, ma da te, per incrinare la mia fiducia negli assassini; vedo una dottrina probabilmente fasulla, basata sulle menzogne, ma create ad arte da te e dai tuoi uomini per ingannare i sudditi, tenere buone le masse di poveri e di reietti. Senza l’invenzione di Simone, senza questa storia di redenzione, Damasco sarebbe una polveriera pronta ad esplodere. Dare la colpa agli assassini, o ai templari o a chiunque possa essere il bersaglio più adatto ai tuoi scopi, vi fornisce un capro espiatorio ideale per incanalare i rancori in una direzione di comodo. In questa maniera, alle persone viene data una speranza per poi sottrargliela, ecco spiegata la sparizione di Simone e la fine di Eutopia: le utopie DEVONO fallire, affinché gli stati possano affermarsi come l’unica realtà possibile”.

“Tutto ciò è assurdo…”

“Forse, ma non più assurdo di quello che hai detto tu. Ora, che ne dici di slegarmi, così possiamo chiarire le nostre posizioni sull’argomento?”

“Naturalmente. Ma prima Friedrich ti porterà a visitare la stanza delle ombre. Sono sicuro che ti piacerà.”

Un odore che ricorda l’incenso – ma non è incenso – satura l’aria e  qualcuno nega alla luce ogni possibilità di ingresso, ma, all’improvviso, una luce – una soltanto, ma fortissima – illumina un telo bianco rendendolo l’unica cosa visibile.

E ora ecco il prodigio: delle immagini nere e perfettamente definite, appaiono sul telo. Nel frattempo i miei pensieri si fanno sottili, vacui, come la foschia di primo mattino, e quelle ombre dai contorni netti vi si fanno strada, penetrandovi senza incontrare resistenza.

Rimbomba nella stanza un ritmo ipnotico.

Sequenza di immagini:

  • la croce di Simone;
  • sole e luna;
  • una torre tra le nuvole;
  • un sillogismo (in greco, una voce baritonale ne legge le parole):
    1. “la tua vita si basa sul credo,
    2. “il credo si basa sulla menzogna,
    3. “la tua vita è una menzogna;”
  • sagome in movimento (ora ricorda un vero e proprio teatro di marionette, ma fatto di ombre):
    1. alcune figure combattono, lame curve contro lame dritte: la crociata?
    2. esagoni, api, movimenti rapidi e cadenzati; l’arnia ha una forma insolita, stretta e lunga, come una torre;
    3. la torre crolla, una figura, alta e barbuta, precipita assieme alla costruzione;
  • numeri: 3, 5, 12, 17, 8;
  • un verso (in arabo): “Io sono lui, come tu sei lui, come tu sei me”;
  • specie animali: una volpe (che lotta con un’aquila), un cervo, due leoni, un cane, un serpente (che si morde la coda), un’aquila (che ghermisce un serpente), uno scarabeo stercorario;
  • specie vegetali: un papavero, una quercia, della canapa, due rose, una vite;
  • un labirinto;
  • una ruota (o forse un timone);
  • quella che sembrerebbe un’isola;
  • quello che sembrerebbe un calice;
  • arco e frecce.

Le ombre svaniscono e lasciano spazio alle tenebre.

Ora è l’alba, mi ritrovo seduto in strada appoggiato a un muro. Mi rimetto in piedi e barcollo per le vie deserte di Damasco.

E adesso?

[continua]



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