Interno giorno. Una domenica come tante (dal di fuori) ma diversa da tante, per me, perché si sta chiudendo l’ultimo intensivo del secondo biennio. In altre parole, sto concludendo il percorso di Darsi Pace. Mi ritrovo seduto che appunto sul tablet, in coda alle note di questa densa mattinata, le cinque parole ”e questo è un inizio”…
E chiudo.
Scherziamo? Dopo un percorso di otto anni, invece di qualche generica frase di conclusione, Marco Guzzi mi viene a dire che è un inizio? Che paradosso è mai questo?
Però se mi ascolto dentro, capisco subito che non è uno scherzo, affatto. Qui del resto, ci si prende molto sul serio (senza essere seriosi). E la cosa più seria e sincera che si possa dire è proprio che questo è un inizio. Una possibilità stimolante di ripartire (dentro e fuori di qui) con una coscienza nuova, di lavorare su di sé e sul mondo ad una profondità diversa. Di incidere sul terreno dell’anima, dissodato da una prima passata, in modo più efficace ancora.
Più profondamente c’è anche una questione di attitudine, del cuore. Se mi ascolto dentro sento immediatamente che quello che cerco sono sempre nuovi inizi. Ricordo le parole di Cesare Pavese, l’unica gioia al mondo è cominciare. Da un altro punto di vista, mi torna in mente la frase che si ascolta verso la fine (appunto) di quell’incredibile e peculiarissimo affresco musicale che è Amarok – un’opera di una complessità e di una bellezza entusiasmante – laddove una parrossistica Margaret Tatcher (impersonata da Janet Brown) avverte l’ascoltatore che endings are just beginnings, la fine è appena un inizio.
Perché a questo punto, sulla soglia dei miei sessanta, mi viene solo voglia di iniziare. Di ricominciare. Eterni principianti, ma per davvero. Come una sorta di ricominciamento fu già il mio primo giorno di corso, quell’ormai lontano 12 ottobre del 2014. Le considerazioni che avrei appuntato sul mio blog, appena qualche giorno dopo, riprendevano appunto quella parola, usata da Marco Guzzi durante l’incontro (e in tante altre occasioni, come poi mi sarei accorto). Perché di fronte ad una cosa bella, che ti allarga il cuore, senti solo l’impulso a ricominciare. Senti proprio la freschezza di porre mano ad una impresa nuova. La cosa – strana e confortante insieme – è che è nuova anche dopo quasi dieci anni, per me. Superata anche la crisi, superati i dubbi, ritornato in pista. E’ sempre nuova.
Capisco ancora meglio che mai, alla fine di questo percorso, di questo straordinario intensivo (straordinario come tutti lo sono stati, mi verrebbe da dire) Che Darsi Pace è un percorso incredibilmente onesto. Un percorso che non mi inganna mai, anzi mi prende sul serio, con il mio dolore, la mia ferita. La mia voglia di essere creativo, di essere libero. È già molto bello, molto terapeutico, essere presi sul serio! Leggo proprio oggi che Marco Guzzi dice
Per me un pensiero che non regga alla prova dell’esistenza, alle sue lacerazioni più dolorose, non possiede alcuna attrattiva. Non ho tempo da perdere.
Alleluia! Mi viene da dire. E’ proprio questa sobria essenzialità e fedeltà (direi post ideologica) ad un cammino di guarigione, che rende questo laboratorio un posto speciale, pressoché unico. Sono nel posto più antiretorico che si può trovare, mi viene da pensare. Qui non si elaborano grandi teorie per il gusto tutto intellettuale di farlo: piuttosto dei discorsi, è con il tempo e la frequentazione che si comprende come il quadro di riferimento teorico di tutto il processo sia comunque ben fondato e documentato (penso alla bella collana Crocevia, ad esempio). Perché quando arrivi qui, da qualunque parti tu arrivi, qualsiasi cosa porti nello zaino della tua esistenza, non ti viene chiesto in cosa credi ma immediatamente e solamente, tu come stai? Come ti senti?
Sarò naive, ma chiedere come stai invece di come la pensi è già uno scardinamento potente del pensiero disincarnato (tanto caro al mondo moderno) e il rientro affezionato e partecipato nelle nostre carni dolenti: un riconoscimento di fatiche e dolori che attendono in primo luogo di essere viste e riconosciuti, in modo da poter avviare un lavoro paziente e cordiale. Su tutta la persona, corpo ed intelletto, anima e cuore. Senza precipitosi ottimismi ma sempre senza esagerate paure. ”Siamo cammelli nel deserto”, dice Marco, ”piano, ma non ci fermiamo mai”. L’ho sperimentato, è esattamente così.
Giunto alla fine (che è appunto un inizio), posso dire con assoluta certezza – e con gratitudine – che questo è un luogo dove la mia ferita viene finalmente accolta, amata, curata. Un posto da me verificato e temprato in un decennio intero di entusiasmi, crisi, ripartenze. Dieci anni costellati di colloqui profondissimi, di accoglienza, di letizia, di belle sorprese, di condivisioni umanissime, di spunti imprevisti, di pregustata pace.
Anche, di fiducia robusta e cordiale nei miei confronti, nelle mie potenzialità, perfino quando il primo a non fidarmi di me (e di tutti) ero io! Perché comunque ero visto, più profondamente di quanto potevo vedermi io stesso. Ero guardato nella mia essenza e non nelle “irrequietezze” di superficie, che invece a me stesso – in certi momenti – oscuravano la vista.
Un posto, questo, dove ho imparato anche un nuovo modo di essere scienziato, molto più prossimo al mio cuore. Un modo che ha cambiato veramente il mio lavoro, che mi ha ricentrato e portato (in spontaneo e direi mirabile accordo con un cammino propriamente terapeutico) ad osare dei cambiamenti personali e professionali anche importanti, dedicando ad esempio molto più spazio alla scrittura, che sento come mia reale vocazione. Che mi ha indotto a tornare a scrivere del cosmo alla luce di un nuovo pensiero (come ora provo a fare per DarsiSpazio, nome scelto in omaggio a questo laboratorio). Di investire in una nuova idea di scienza, condividendo le intuizioni che derivano da questo laboratorio con validissimi amici e compagni, dentro il gruppo culturale AltraScienza. Ed è tutto, davvero, molto bello!
Con il tempo, con l’età, ho imparato ad affezionarmi ai posti e alle persone che guardano la mia ferita e a disinteressarmi del resto. In un certo senso tutto quello che ormai mi interessa è curare la mia ferita, il resto (direbbe anche Califano) è noia. Davvero, tutto ciò che esige di occultare questa ferita, ogni formalità e ritualità separata dalla carne, è una assurda perdita di tempo. Qui sto bene, qui mi posso affezionare. Qui, posso dimorare.
In conclusione, posso dire che io sono un poveraccio, come tanti e senz’altro più di tanti: ma un poveraccio che – appena si ricorda di quanto di bello ha trovato – aspetta il Giorno festoso che viene”, per usare la frase ove approda il testo della Carta della Nuova Umanità, che Darsi Pace e il movimento l’Indispensabile, stanno diffondendo in questo periodo, e che ho firmato con convinzione.
Grazie a tutti i compagni di cordata, ai formatori, a Paola, a Marco. Voglio dirlo, voi non avete idea del bene che ho ricevuto, che mi avete donato, in innumerevoli occasioni. Questa non è una fine; questo è un nuovo inizio.