Una delle frasi di Marco che meglio ricordo di questi sette anni è quando disse, allargando le braccia con fare entusiasta “Ogni mattina mi sveglio e mi dico: io sono re! Sono già re!”
E mi chiedo, allora: perché lui sì, e io no? C’era, in quella frase, una convinzione profonda e travolgente, che scatenò gli applausi di tutti, perché tutti ci chiedevamo la stessa cosa.
Se per lui è così, perché non potrebbe essere per noi?
Qualcuno mi spiegò, una volta, che esistono due linguaggi. Uno è il linguaggio digitale, un altro quello analogico. Il linguaggio digitale afferra l’attimo con precisione non discutibile, quello analogico coglie anche ciò che c’è “dentro” quell’attimo, tra le due tacche del quadrante. Qualcosa che nessun linguaggio umano può descrivere, a meno, forse, che non sia un linguaggio poetico, e un po’ folle. Poetico e folle.
I. L’inizio del percorso
Ho iniziato perché cercavo. Una testimonianza vera, ma anche un modo per testimoniare. Ho sempre sentito qualcosa che deve uscire, che vorrei raccontare; ma sono stato preso da passioni, attaccamenti che hanno accompagnato tutta la mia vita creando sofferenza.
Un amico una volta mi disse che non apprezzava, nel cristianesimo, tutta questa ostentazione del dolore. Oggi credo che quell’amico non aveva osservato un poeta pazzo che urlava “Io sono re!”. Mi limitai a rispondere che la sofferenza c’è, che lo si voglia o no, e che dobbiamo farci i conti.
Quante volte sono fuggito da lei? Forse, quell’amico, faceva finta di non vederla. Eppure, nella nostra Chiesa questa viene presentata come una via da abbracciare e forse da cercare. Va cercata perché poi, se facciamo i bravi, ci sarà il Regno dei Cieli (nei cieli…).
I ragazzi fuggono dalla Chiesa – e io li capisco – perché ci sono tanti preti che mi sembrano in fondo tristi che gli dicono che devono essere felici perché vanno alla messa; così, quando hanno smesso di andarci per forza, quelli che arrivano alla Cresima se ne vanno poi allegramente a cercare altrove promesse non mantenute. Forse ci vorrebbero preti un po’ pazzi che fossero capaci di mostrare a loro, a ciascuno di loro, la propria regalità.
Quando ho incontrato Darsi Pace pregavo già, ma confusamente. Non avevo tecniche. Invocavo lo Spirito Senza pacificare il mio cuore e, talvolta, mi illudevo di incontrarlo nell’emozione di una canzone, una preghiera evocativa. Mi scontravo poi con la mia rabbia, perché uscendo dal gruppo di cui per un po’ ho condiviso il cammino, mi ritrovavo in un mondo che rifiutavo, e in un momento molto difficile della mia vita. Non ero re, ma mi sentivo un po’ un eletto quando ero in quel gruppo.
Alla fine litigai con tutti, uscii dal gruppo e continuai a cercare.
La Chiesa era sempre lì. Per un po’, un vecchio prete mi è stato di riferimento e, contemporaneamente, ho riscoperto la Sindone di Torino e il volto di Gesù. Anche questa vicenda fa parte della mia storia: avevo visto la presentazione di un sindonologo, avevo capito che avrei potuto far meglio, ne ho messa assieme una io (che non sono sindonologo) e, infatti, ho fatto meglio: ho presentato la Sindone in parrocchie, circoli laici, una volta alla scuola di mia figlia e, naturalmente, a tutte le mie classi.
Contemporaneamente all’ossessione per quel volto
Il Suo volto…
conosco Darsi Pace e inizio a fare supplenze di religione, studiando come un pazzo. Quando incontro DP in realtà sto cercando,
…cercate e troverete, chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto…
Cercare senza posa è l’unica virtù che mi riconosco. Quando vi ho trovato, in realtà vi stavo cercando, e quando mi è stato proposto di guardare quel romanaccio un po’ matto che non le manda a dire, mi ha colpito più l’entusiasmo di chi me lo raccontava, di ciò che mi stava raccontando.
E qui, mentre cammino mi pare di entrare in una nuova fase della mia vita. Forse solo analogica, come il vecchio Omega trenta millimetri anni ’50 che fu di mio papà e ora, gelosamente, conservo. Come il fumo delle mie pipe che fanno tanto Gandalf, o La Storia Infinita. Come il dipinto che Akiane Kramarik produsse a otto anni, raffigurante il Principe della Pace, quel volto che anche gli angeli vorrebbero contemplare…
o come le mie vecchie stilo, che mi ostino a usare anche per gli appunti e che fanno cilecca quando chiedo al poeta pazzo di firmarmi un suo libro (…scusa, Marco!), o la Moka che a casa mia non verrà mai sostituita dalle cialde.
Amo ciò che sa di eterno, che non si deve cambiare ma si tramanda, pur consapevole dell’impermanenza del tutto. Amo le promesse fatte e da mantenere, il ricordo che si fa vita, il tramonto che si confonde con l’alba che verrà. Amo essere sempre più consapevole del mio nulla che si perde nel tutto e si trasforma in Gloria.
Purtroppo -beh, è un po’ faticoso – vorrei tutto.
II. Il Regno è qui, nel cuore
Ogni mattina mi rilasso, sento e ascolto il respiro, sorrido e mi abbandono, accolgo la Sua luce e attendo. Mi sforzo di ascoltare senza dir nulla; e, come disse madre Teresa, anch’io percepisco Qualcuno, accanto a me, che oltre a farmi capire di esserci, non dice nulla neanche Lui. Mi ascolta. Ci ascoltiamo.
Al termine della pratica mi sento un leone, mi alzo dalla mia poltrona preferita, tolgo il cartello “non disturbare” dalla porta dello studio – che condivido col cane, che a volte russa e non vuol saperne di meditare – e, talvolta, pratico un po’ di Tai Chi. Quindi, barba, doccia e
cosa dico ai ragazzi stamani?
sono fuori. Il mondo è già attorno a me, dentro di me.
Il primo indizio è l’entusiasmo della meditazione, o magari di una lettura, che mi ispira una sorta di predica, e mi immagino mentre faccio la mia lezione, e nella mia fantasia sono fichissimo.
Quindi, guardo l’orologio (non l’Omega anni ’50, che quello la doccia non può farla) e ho paura di essere in ritardo anche se mediamente mi sveglio un’ora e mezzo prima di partire.
Poi prendo la macchina e tento di concentrarmi sull’attività e di mantenere pura la mia mente
pia illusione
ponendo attenzione sulle mani, sulla strada, sul respiro, sul tachimetro, cazzo, qui c’è il limite!
e talvolta recito il Rosario. Ma mentre lo recito mi perdo tra i misteri e i pirati della strada e le rotonde. Arrivo a scuola e quando entro nell’edificio tento di esser tutto lì: nel corridoio, salutando i colleghi, in sala professori, attendendo i ragazzi. Il mio mandala è l’appello,
“prof, ma siamo tutti!” “Non importa, i nomi sono importanti!”
i ragazzi sono la mia arena. Ho sempre un piano, ovvio. Un prof segue un programma; ma ho anche un piano B, un piano C, ecc.
Poi mi arrabbio perché sono terribili e disattenti,
ma perché fanno così? Non sono fantastico?
oppure mi entusiasmo perché mi seguono per vie impervie e impreviste,
visto che sono fighissimo? Dove lo trovano un altro come me?
oppure mi annoio anch’io e ho paura che si veda
come fanno a interessarsi all’Editto di Teodosio? È una palla anche per me. Lo vedono?
Torno a casa stanco, prego davanti al cibo, chiedo a Dio di farmene consapevole impedendo di abbuffarmi perché ho fame, quindi mi abbuffo regolarmente. La fame è fame. Al termine del giorno chiedo il perdono. Non sono stato, non sono mai, come avrei voluto e come vorrei.
Ma se c’è una cosa che ho rivalutato è la mia volontà. Ferma, folle e giovane.
Domani andrà certamente meglio. Siamo sempre praticanti e la strada è lunga. Ed eccoci al Regno. È un apice orgoglioso, salita urticante che ti accoglie in un abbraccio caldo di luce. Sei guerriero, senza età e senza retorica, cieco di fiducia, arrabbiato contro la rabbia, intossicato di desiderio; pulsa nei canali della tua vita, rosso carminio di sangue che sembra una ciliegia, non senso che sale nella gola senza sapersi esprimere.
Ecco cos’è il Regno. Se cerchi di descriverlo sparisce tra le lacrime. Le tue lacrime.
Il Regno è la ricerca assoluta del Suo volto. Non me ne frega nulla di nulla, se non di Quello. Non amo nessuno, odio tutti e odio me stesso se non amo Lui.
Gesù non lo descriveva mai. Non avremmo capito. Lui descriveva perle e tesori sepolti e pesci e pecore, quando Gli chiedevano del Regno.
Non avremmo inteso altro linguaggio.
Per cui, caro poeta pazzo, grazie per questa follia. Tu, non stancarti di ringraziare per le reti che ti sono state concesse, da calare.
«Le dice Gesù: “Sono io, che parlo con te”» (Gv. 4,26)