“Ma chi sono io veramente?” – questa domanda mi tormenta sin dall’adolescenza e nell’arco dei miei trentanove anni di vita si è fatta tanto più pressante quanto più si assommavano i crolli e le varie cadute emotive a cui andavo incontro; ma non riuscivo mai a darmi una risposta.
Finché un giorno, nel 2018, al termine di un percorso comunitario, ho iniziato il percorso Darsi Pace, che mi ha aiutato a comprendere come l’immagine che abbiamo di noi stessi è mutevole, in quanto cambia in base allo stato della nostra anima.
Vorrei tentare qui di offrire una breve mappa di alcuni dei momenti del viaggio iniziatico, sempre e di nuovo da compiere, che ho sperimentato, tenendo a mente che la ricerca della nostra vera identità non cessa ed è un processo continuo, essendo l’essere umano uno spirito di carne abitato dall’Infinito. Noi, infatti, come spesso ricordiamo in Darsi Pace, oscilliamo costantemente tra 4 stati o livelli di coscienza, persino quando non ce ne rendiamo conto.
Ebbene, immaginiamo un corridoio con vari specchi appesi al muro; non ci sono porte, o meglio, ce ne sono ma sono tutte chiuse a chiave. Mi avvicino al primo specchio del tunnel della mia anima e resto a osservare la mia immagine per qualche minuto. È quasi buio, ma non abbastanza da non riuscire a descrivere ciò che vedo.
1. Un volto fanciullesco emaciato, quasi un’espressione da tossico dipendente. Lo sguardo è tagliente, gli occhi rapaci; sopracciglia aggrottate si alternano a un sorriso ebete e falsamente amichevole. Simulo sorrisi più di frivolezza che non di leggerezza; quell’aspetto di finta innocenza si accompagna a un taglio del viso appuntito, ispessito: la rabbia lo ha reso ruvido come pelle di coccodrillo. A stento, peraltro, percepisco il corpo.
Esibisco una spontaneità forzata e strozzata quanto idiota e mendace, ma sono pronto a sfoderare la spada contro il primo che osa avvicinarsi e magari contraddirmi. La frustrazione ringhia: turbini di pensieri inarrestabili si agitano dentro me; hanno artigli unti d’un olio velenoso: la vendetta. I ragni del risentimento mordono; ti appiccicano in quel luogo infernale dal quale non fai altro che escogitare modi di farla pagare a chi ti fa o ti ha fatto soffrire. Le parole si gonfiano a dismisura, escono dalla bocca e dal cervello intrise di odio e colpevolizzando chiunque. Me la rifaccio con quelli a cui voglio più bene. Mi sento come in una sala di tortura. E in verità sei affaticato, ti trascini qua e là per il mondo con mille piombi addosso, che senti nella carne, gravosa e sfibrata. Ti senti quasi esaurito – ma t’imponi di negarlo.
2. Poi, nel vestibolo parallelo al corridoio m’imbatto in una sagoma oscura che con un ghigno da satiro mi deride; la sento sghignazzare, prende in giro me stesso e gli altri. Sembra ubriaca. Come un inquietante giullare vestito da Arlecchino mi rimprovera: “Ma ti sei visto? Hai quasi 40 anni e sei senza uno straccio di lavoro e d’autonomia! Sei ridicolo, fai ridere i polli! Dove vuoi andare con quell’aria da bambino? Non sai fare niente nella vita, neanche prenderti una minima responsabilità! Sei un fallito! Guardati: non hai amici, sei solo come un cane e sei uno straccione!”. “Ma chi sei tu?”, chiedo perplesso a quella sagoma. “Non mi riconosci? Davvero? Io amo spingerti segretamente al giudizio impietoso contro tutto e tutti. Sono colui che a volte ti fa esplodere dagli impulsi più disparati, da quelli autoerotici compulsivi a quelli omicidi. Io abito nel terrore che a volte ti paralizza, nel liquore del bar che ogni tanto trangugi e nel piccolo incontro a sfondo sessuale che fai – oh… senza però che nessuno se ne accorga, mi raccomando! Nessuno deve giungerne a conoscenza!”. Di nuovo una risata beffarda. “Ah! A proposito. Tanto per chiarirci: sono anche colui che ti aizza all’anticonformismo e alla protesta più ciechi spingendoti ad agire nelle relazioni come un black bloc irrefrenabile. Guarda a quell’energia di cupezza e negatività che ti capita di irradiare: è da me che proviene”.
3. Il cammino procede, anche se forse con un fremito di sconcerto; passo allo specchio successivo, in cui vedo un uomo dallo sguardo più morbido rispetto agli altri, che sfuma in mezzo a varie nuvole di ricordi. Appare un bimbo tristissimo; provo un certo senso di pietà per lui: chi ti ha fatto così male nella vita, spaventandoti a morte? Mi rivedo impotente davanti alle urla dei miei genitori, l’assenza di mio padre, l’invadenza e la seduttività di mia madre. Avverto di nuovo quei dolori nel corpo: è nonno che mi picchia con la cintura. Ho paura. Una paura fottuta del mondo, che uno come quel bimbo può mangiarselo in due secondi. È così che ti sei difeso: isolandoti per paura di essere rifiutato o maltrattato, tacendo e subendo in silenzio perché credevi di non avere altra via di scampo; hai imparato a temere e sopportare, mostrandoti soddisfatto quando nel profondo non lo sei – e ad adeguarti agli altri per il terrore di essere lasciato solo. Ti sentivi un po’ un brutto anatroccolo in esilio, preda facile di vessazioni altrui. E riconosco quanto mi maltratto e l’odio viscerale che nutro per me stesso.
Ma resto saldo nell’incontro dei fantasmi – so che non sono loro la parte finale di me. Sento un dolore pungente al petto, che sembra farsi a ogni istante più forte; una parte di me vorrebbe scappare da questa scatola nera, ma un’altra sente che del coraggio dentro ce l’ha. I pensieri si fanno più lenti e sempre più chiari alla mia coscienza; li guardo, li riguardo, scorrono via come cimosa su una lavagna. Sì, seduto a metà dell’asse, guardo a destra e a sinistra: vedo entrambi i poli, bambino: quel tuo senso infantile di onnipotenza da un lato a cui fa da contraltare un’impotenza pazzesca dall’altro. E mi sporgo sul punto del pozzo che mi fa più paura: l’impotenza. Il deserto, un nulla assordante. Lì sono le lingue di fuoco più bollenti: quel disperato grido d’amore e affetto mai ricevuto, di solitudine estrema. Brucia, supplizio infinito, fa male – una coltellata al cuore.
È la ferita, quel dolore abissale che mi ha strappato alla Vita. Come non sentirla? Vedo, bambino mio, il tuo sconfinato bisogno di amore e di contatto. Lo so: ti hanno fatto sentire piccolo e indifeso – e adesso vuoi farla pagare a chiunque per questo. La ferita, eccola! C’è il gelo. Lo sento: hai incontrato occhi gelidi ad accoglierti quando sei venuto al mondo e sei rimasto a corto di coccole. Chino il capo davanti a tanto dolore – e come in ginocchio ammetto tutte le mie colpe: insaziabilità, superbia principalmente, ma anche tutta la mia ingratitudine per la Vita e la mia crudeltà. Come gocciole di cera si scioglie ogni tanto una lacrima.. Chiedo perdono – e aiuto; per la mia precarietà.
4. Ad occhi chiusi accolgo quel dolore ma decido di andare avanti. “Abbandonati sempre più”, sembra dirmi una voce, “Scendi, scendi più giù”. Resto fermo in un vuoto, che non sento più terribile come prima. Non faccio niente, non mi muovo; sono solo, solo col mio respiro. Se mi lascio cadere, non mi disintegro. C’è uno spazio oltre la frattura in cui regna quiete assoluta, in cui ho la sensazione quasi di fluttuare. Il viso si fa più rilassato, addirittura un accenno di sorriso si disegna sulle labbra. Vengo rapito dalle onde del respiro che salgono e scendono come risacche. Assorbito totalmente in quel vuoto, i pensieri si fanno sempre più residui e scompaiono quasi sul nascere.
“Lasciati andare al respiro, lo senti? Sei in una conca di pace, dove niente può farti più male”. Sono al sicuro, sono quasi a casa, sì. Un ruscello di calma sgorga da quel buco oscuro, ora ne sono pienamente cosciente. Incanto. Profonda meraviglia. Riposo in questa spirale di pace che sale su dal basso e in cui decido di inoltrarmi, poiché sento che più discendo, più qualcosa, come una forza senza limiti, mi eleva. Non sono più chiuso a chiave in quel corridoio: una stanza si è aperta. Le inferriate che danno sull’esterno si sono dischiuse e tutto ciò che ammiro è una pianura di luce. In quella luce sento un moto d’esultanza. Torna in me quell’onda imponente di compassione, che però sento estendersi a tutto il Creato. Profonda connessione. L’anima ora è come un tappeto che si srotola tra le stelle, come in un abbraccio dell’infinito Universo. “Lasciati guidare da me, vieni più avanti!”. Qualcuno da lontano avanza – la sua forza d’attrazione è terrificante. Lo imploro di nuovo di salvarmi: è una presenza sconosciuta e allo stesso tempo nota, che mi guarda con tenerezza.
5. Non sono più io il soggetto del quadro; oltre la cornice ci sei Tu. Adesso mi vedi nella mia essenzialità; sei qui con me ed io posso solo tacere. Conosci tutto. “Torna allo specchio. Guardati, bambino. È finito il tempo del lutto. Sorridi: ogni debito è estinto; e niente è perduto, te lo garantisco, niente – neanche il più tremendo attimo di dolore. Sorridi, piccolo, e gioisci: i tuoi occhi adesso traboccano di dolcezza. Lasciati abbracciare da me. Non temere. L’amore che ho per te è senza condizioni. Prendilo; e regalalo senza riserve. E ricordati dell’entusiasmo per la Vita che ti anima: niente e nessuno potrà togliertelo. Poiché ho messo un vaso sul sostrato del tuo dolore. Per farlo fiorire. Accogline il profumo e abbine cura”.
Quel senso di fallimento di prima è lontano, quasi come se non fosse mai esistito; ecco, nessun più rammarico o dispiacere. Per un attimo stringo a me i miei genitori e li perdono; sento che chiunque mi abbia ferito è come perdonato. “Sosta ancora in quest’oceano – e resta con me”. Ritorno allo specchio, mi avvicino al vetro – non è più appannato. Limpida l’immagine di un ragazzo sorride. Un rivolo di benevolenza scroscia sulle sue labbra, la pelle morbida al tatto. Il suo tessuto si è tinto di rosso, non è più biancastro. Sono per un attimo nuovamente nato – e mi sento (in Te) quasi come.. innamorato.
Simone, chi dici che io sia?