A nessuno verrebbe mai in mente di dire, di una persona affetta da schizofrenia, che questa stia bene. Il termine schizofrenia – etimologicamente mente divisa – è stato coniato nel 1908 dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler, sostituendo il precedente dementia praecox, per porre l’accento sulla separazione delle funzioni mentali che caratterizza chi ne è affetto. Prendo come esempio questo disturbo psichiatrico emblematico per iniziare a suggerire qualcosa di teoreticamente noto a quasi tutti ma praticamente noto a molti meno, anche tra coloro che operano nel campo della salute: la separazione è malattia. Se è vero che l’Essere Umano è in un costante rapporto dialettico con se stesso, che esso è un dialogo vivente (Stanghellini, 2017), l’interruzione di questo dialogo tra le varie parti che lo animano non può che ostacolare lo scorrere della Vita, bloccandola, disperdendola e provocando così l’insorgere del mal-Essere, della patologia.
Intanto, il concetto di salute nell’occidente dell’impero biomedico (modello assurto a dogma), spinto ulteriormente “in avanti” dall’ultima epidemia, è andato via via conformandosi all’ideologia sottostante i processi della globalizzazione neoliberale, quindi scientista, materialista, consumista, dualista, riduzionista, esclusionista, tecnicistica e nichilista. Sintetizzando, l’ideologia diabolica della separazione. Da ciò consegue che l’unica forma di “salute” che abbia legittimità di esistere nella “società senza dolore” (Byung-Chul Han, 2021), in cui quest’ultimo viene patologizzato tout-court, è quella che vorrebbe salvaguardare esclusivamente la carne, il corpo nelle sue componenti più prettamente biologiche, il bios, scisso da qualsiasi altro tipo di valutazione più globale, e la cui unica preoccupazione consiste nell’assenza di sintomi fisici invalidanti che possano ostacolare la produttività e il consumo dell’individuo isolato, separato e competitivo. Il sintomo, deviazione dei “normali” parametri misurabili ed espressione “nient’altro che” di processi somatici alterati, inutile e dolente e lungi dall’essere ascoltato e (poeticamente) decifrato, si pone così come ostacolo che deve essere al più presto rimosso attraverso un protocollo oggettivo e universale. Appare poi evidente come il focus, nei fatti, sia posto solo sul deficit, eludendo del tutto la potenzialità e la risorsa e di conseguenza un’integrazione fra questi poli. Mente-corpo, deficit-risorsa, malattia-persona, sintomo-storia: la separazione, checché se ne dica, si mostra ancora (pre)potentemente come cifra fondamentale dell’idea di salute del mondo in cui abitiamo. E ce ne stiamo accorgendo, a nostre spese.
Inutile dire che questo concetto di “salute” risulta ormai del tutto anacronistico e distorto, a quanto pare (anche se non si direbbe) anche per l’OMS, che definisce – invero, già da un po’ di tempo – la Salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o di infermità” (OMS, 1948). A parole tutti bravissimi: si predica il modello biopsicosociale (Engel, 1977) con la solerzia del più avanzato maestro di yoga, ma nei fatti, nella prova, si razzola il modello biomedico con una rigidità che farebbe impallidire il più positivista dei medici settecenteschi. Inizia sempre più a emergere quanto ormai un’idea di salute che si basi sull’integrazione fra corpo, mente e mondo (inteso come cultura, socialità e relazionalità) sia una questione non più rimandabile, bensì una questione vitale e una missione politica di stretta attualità.
Per provare a tratteggiare i primi lineamenti di un’idea di Salute più attinente alla realtà, partirò da due parole che all’apparenza sembrano averci poco a che fare, prendendo alcune parti delle definizioni che Marco Guzzi dà di queste parole nel suo libro Dizionario della lingua inaudita (2019). Le parole sono Santità e Salvezza.
“Essere santo, essere sano,
sano e salvo, integro.
Essere cioè uno, unificato.
Essere perciò molto forte e creativo,
felice
ed espansivo, e dunque capace di donare,
come il sole
dona luce e vita e calore
perché trabocca di energia. Essere allegri,
quindi, e liberi, più liberi
di tutti, e più vivi di tutti
[…]”
In questa definizione di “Santità”, Marco Guzzi accosta immediatamente la parola “sano” alla parola “santo”, facendo subito il contrario di chi concepisce la salute come qualcosa di statico, immobile, separato, unicamente medico: unire il concetto di salute al mondo spirituale. Come a dire che non si possono curare veramente l’anima e il corpo se non curandoli entrambi, insieme, nell’unità.
E continua con parole come integro, unificato, forte, creativo, libero, vivo. Felice. Quindi, se la felicità che tanto rincorriamo coincide con l’essere “santi”, con l’essere sani, allora forse anche la Salute, come la santità e la felicità, è un processo, un processo di unione; è un qualcosa a cui si arriva, unendo, non un qualcosa di “pronto”, di statico, che ci è dato a priori e che puntualmente tutti perdiamo tra le fatiche e le ferite della vita. Forse è qualcosa di più complesso. Allora forse anch’essa è un percorso di ricerca, in cui gli ostacoli – anche di salute – che ci si presentano forniscono materiale da dispiegare e integrare per continuare a camminare verso la Vita, per camminare meglio, per elevarsi, non già da estirpare sempre, da eliminare subito e totalmente (a volte sì!), come se fossimo già a destinazione dall’inizio e le difficoltà potessero solo allontanarci da lì dove siamo. Alla Salute ci si avvicina.
Passiamo ora alla seconda parola: “Salvezza”.
“Tutti vogliamo, tutti vorremmo
essere sani e salvi, integri
e perciò santi. Il concetto di salute
è indissociabile da quello di salvezza:
le due parole, anzi, hanno la stessa radice;
derivano infatti entrambe
dalla parola latina salus. Questa a sua volta
proviene da un’antica radice solwos, che ha dato vita
anche alla parola greca holos, da cui
l’aggettivo > (da kata + holos).
Tutti questi vocaboli sono imparentati
con la parola sanscrita svastha,
che significa al contempo
benessere, pienezza, integrità.
Da solwos/holos derivano anche
le radici anglosassoni e tedesche
che hanno originato termini
come health, holy, heilig, wohl,
che significano contestualmente
salute, sacro, santo, sano, integro.
[…]”.
Risplende come l’etimologia delle parole ne celi il vero significato. Salute, santità e salvezza derivano tutte dallo stesso nucleo e vanno a integrarsi fra di loro incarnando al meglio il loro messaggio più profondo, come a darci l’esempio plastico di ciò che vogliono dirci. La Salute è una delle tappe necessarie per la Salvezza, ma la Salvezza è Salute e la Salute è Salvezza. Il percorso verso la Salute e la Salvezza inizia quindi però col retrocedere verso quell’Uno da cui nascono tutte queste parole. È un percorso, quindi; e come in ogni percorso serio c’è bisogno di non-correre, c’è solo bisogno di camminare. In questa idea di Salute come processo relazionale, anche il curante stesso diventa strumento di cura, non più una mano fredda e astratta che applica un protocollo standardizzato a chiunque gli si faccia dinanzi; bensì attrezzo decisivo del lavoro terapeutico che, come tale, deve essere affinato con cura, anche attraverso questo stesso processo verso la santità, la salute e la salvezza. Sani e salvi, cioè pieni, svuotati e riempiti, ricolmi di quell’energia, di quella Luce che illumina e riscalda e che, come acqua pura e fresca, straborda da un vaso pieno e nutre e cura ciò che c’è intorno. Questa è una persona sana, una persona salva.
“La felicità è quando ciò che pensi, ciò che dici e ciò che fai sono in armonia”
Mahatma Gandhi