Da sempre donne e uomini ci provano, a Stare Insieme. Fra le tante immagini a me piace quella dei primi cristiani che si riunivano in piccoli gruppi. Ho sentito anche raccontare del mondo contadino, del quale sono originaria. Mi dicevano che di sera le persone, pur stanche, si intrattenevano sull’aia o nel pagliaio d’inverno, e lì suonavano la fisarmonica, ballavano e scherzavano insieme. C’era qualcosa che li teneva uniti. Forse la fede – che veniva tramandata da una generazione all’altra – creava appartenenza, comunità, con tutte le implicazioni ad essa sottese. Ricordo la gioia che provavo quelle rare volte che la mamma e il papà si fermavano dopo cena a giocare insieme a carte, e la mamma rideva. Era un breve lasso di tempo in cui li vedevo stare insieme, appunto.
Ma andiamo con ordine. Vediamo un po’ com’è stato compreso il piacere di stare insieme nel corso della storia, saltando qua e là. Quando nel 1727, nella Thomaskirche di Lipsia, risuonò per la prima volta la Passione secondo Matteo di Bach lo stupore fu enorme. Dissero che era troppo teatrale, operistica, e a Bach fu tagliato il salario. Cosa poteva voler dire? Che il piacere musicale condiviso non andava bene, che la musica sacra doveva far sentire solo passione solenne?
Probabilmente il mondo aristocratico e i pii religiosi volevano distinguersi dalla pompa e dal chiasso del popolino. O piuttosto avevano paura di confondere Dio con la voluttà. Hegel arriva a dire che l’arte ha eccessi di sensualità, e che è tempo di cose serie: filosofia e scienza.
Nietzsche si spinge sul versante del bisogno, distinguendo quello semplice ed elementare della pura fame o sete corporea dal genuino bisogno umano, che non è mai né semplice né elementare, bensì innaturale: “bisogno senza bisogno”. L’intensificazione del piacere si spinge cioè oltre il livello fisiologico. Non solo, ci dice pure che la sazietà è priva delle parole e dell’eloquenza a cui la cultura e l’arte aspirano: “L’anima fiorisce solo nell’abbondanza”. Kant avrebbe aggiunto: “Neanche la natura scaturisce dal bisogno e dalla necessità. Nei suoi fiori gioca e nei suoi frutti lavora, ma il divagare dei fiori in forme e colori ha la precedenza rispetto ai suoi compiti”.
Di qui è possibile cominciare ad evidenziare alcune condizioni che bloccano lo stare insieme in modo spontaneo e divertente: anzitutto la morale ngli ambienti borghesi, e in secondo luogo la precarietà tra le classi meno abbienti.
Andiamo ancora avanti. Adorno, filosofo tedesco e noto critico del materialismo tecnologico degli anni Sessanta, vedeva nell’elemento disinvolto e leggero dell’uomo contemporaneo un cedimento sempre maggiore alla dimensione meccanica e funzionale della vita. Fa l’esempio del treno ad alta velocità che attraversa il continente in tre notti e due giorni, in contrasto con lo splendore sbiadito del vecchio train bleu, dove ogni dettaglio contribuiva al piacere del viaggio: dal saluto col finestrino aperto al cerimoniale del pranzo. Per Adorno non esiste felicità, e quindi gioia condivisa, nella mera oggettività e nella razionalità fissata sullo scopo, ma semmai in qualcosa che divaga, in un che di gaio e ricco, cioè in una deviazione dal necessario. Solo una vita libera da costrizioni può esprimere disinvoltura e spensieratezza.
Dal lavoro di Darsi Pace noi impariamo che c’è come un fardello che grava sulla nostra condizione terrestre ogni giorno. Eppure possiamo osservare quanto anche le forme storico-culturali del nostro tempo incidano sull’incapacità di stare insieme in modo semplice. I due condizionamenti cui abbiamo accennato in precedenza sono la morale e la precarietà: ora mi riferisco alla premura ossessiva per gli accessori dominanti della società tecnologica, che si antepone all’attenzione per la persona e a tutto ciò che nell’uomo attiene alla sfera emozionale e creativa.
Forse è proprio questo mix di condizionamenti ad aver favorito in noi la difficoltà di incontrarci e intrattenerci nella relazione. Anche con gli amici più cari è diventato difficile stare un po’ insieme, e quando succede – dopo messaggi su messaggi per fissare, disdire, modificare gli appuntamenti – lo facciamo cercando di metterci dentro il soddisfacimento di qualche nostro o altrui bisogno, a costo di nobilitare o giustificare il tempo “sprecato” in compagnia.
Oggi la nostra mente ragiona in gran parte in termini di efficienza e di economicità: abbiamo tanto da fare, soprattutto per gli altri, impegni sociali ecc., e non possiamo permetterci di avere un tempo vuoto. A questo punto però sorge un dubbio: non sarò forse io che non so stare gratuita-mente in una relazione? La desidero veramente o ne ho paura? Non preferisco magari starmene a casa, al calduccio o al fresco (a seconda della stagione), sul mio divano, sapendo che posso comunque chattare con chi mi pare e che – se diventa impegnativo – posso sempre interrompere con la scusa di avere un’altra chiamata?
Ci sono studi che dicono che le persone si intrattengono volentieri da sole, con altri, parlando degli altri e dei massimi sistemi, e sono ghiotte di storie avventurose, immagini variopinte, musica da ballo e giochi di tutti i tipi. In breve: adorano la light communication (la “comunicazione leggera”). Questo fatto sembra lasciare intendere che tutto è buono per intrattenerci purché sia sottratto con forza a qualsiasi contrassegno concettuale: proprio qui c’è da temere che dietro l’ubiquità del cazzeggiare si annidi probabilmente la sua strisciante assolutizzazione… E questo è l’altro rischio: se mi dispongo con leggerezza a incontrare gli altri e poi scivolo in questa deriva?
A questo punto aveva ragione Heidegger quando diceva che ci si può divertire solo a partire dal lavoro che si sta facendo, come nel riverbero di quello stesso. Per lavoro il filosofo non intendeva solo un generico “fare cose”, ma ciò che ci impegna in tutto il nostro essere, in anima e corpo. La questione quindi è complessa, soprattutto oggi, ed è solo grazie al percorso di Darsi Pace che io personalmente ho potuto acquisire la conoscenza di alcuni elementi chiave, che ora so riscontrare in ogni discorso di questo o d’altro tipo.
Noi viviamo in una fase della storia del mondo fuori dall’ordinario: siamo ad una svolta antropologica, ad un punto di rottura in ogni ambito del reale. Un certo modo di essere umani sta crollando: lo vediamo in primis in tutte le forme tradizionali di relazione umana, tra persone singole, nelle coppie, nelle piccole aggregazioni fino alle istituzioni politiche e sociali. Così pure nei lavori manuali, in quelli professionali, nell’amicizia, nello svago: il nodo è sempre lo stesso, perché si tratta appunto di un problema antropologico. È il nostro modo di essere umani, di relazionarci come abbiamo fatto fino ad oggi a non funzionare più. Scrive Marco Guzzi:
«Finora ci siamo messi insieme sulla base di una modalità soggettiva che è separante. Un “essere me”, un individuo che in realtà è separato. Questa modalità di relazione tra esseri separati sta crollando. La domanda è: c’è un altro modo di relazionarsi, c’è un altro modo di essere umani? La risposta è sì»
In realtà, questa “messa allo scoperto” di come stanno le cose mi dà sollievo, perché non ce la facevo più ad uscirne in modo ragionevole. Mi sentivo così incapace che me ne facevo una colpa: invece no, non sono solo io e la mia storia ferita, le cose stanno veramente così. La bella notizia è che possiamo veramente ripartire, anche da una condizione molto alienata.
Si tratta di un processo iniziatico di trasformazione del mio Io e della mia cognizione storico-culturale del mondo. Allora uno spiraglio di libertà, proveniente dal nostro sentirci esseri spirituali, potrà donarci anche la capacità di stare insieme in modi diversi. Fra questi anche uno stare insieme in modo più spontaneo e non necessariamente impegnato, per poter scherzare, ridere, abbracciarci senza scadere nel banale, nel volgare e nello scontato.
Ma perché oggi – vi chiederete voi – questo mio incessante interessamento per lo stare insieme agli altri, dopo anni di vita in parte eremitica e trovandomi ormai ad un’età avanzata? … Forse una nostalgia adolescenziale? Direi proprio di no, visto che ricordo molto bene la ricerca disordinata, spesso convulsa, che caratterizzava la vita comunitaria di quei tempi, così come ricordo la vita comunitaria moraleggiante e competitiva degli ambienti ecclesiastici.
Si tratta di creare relazioni nuove dove i soggetti non si sentono più separati, ma sanno di essere correlati e cercano delle relazioni concrete sulla base di una nuova consapevolezza. Per realizzare questo è necessario un processo iniziatico di trasformazione dell’ Io da quella condizione di chiusura, di ignoranza sul funzionamento di noi stessi e delle cose, ad un Io consapevole di essere Spirito. Quando avviene il rovesciamento dello sguardo da fuori a dentro di noi, incominciamo ad osservarci e a studiarci in profondità. Vediamo le nostre oscurità e sappiamo che sono le stesse che abitano anche negli altri, e questo ci porta ad essere più comprensivi verso quegli atteggiamenti che di solito giudichiamo e da cui siamo soliti difenderci.
Forse così cominciamo ad essere più attenti anche al linguaggio. Ad esempio, se voglio richiamare l’altro su qualcosa di sbagliato, non posso partire dicendo “tu hai detto, tu hai fatto…”, perché questo va ad incentivare la modalità di difesa/aggressione. Diverso se esprimo ciò che io sento e patisco a seguito di quel fatto increscioso, ma partendo da me, da ciò che mi ha provocato interiormente. In questo modo l’altro non si sentirà subito accusato.
Così vale pure per l’utilizzo dei verbi: quelli che esprimono dovere e imposizione fanno subito scattare nell’altro una modalità oppositiva, così come avviene quando iniziamo una frase con un secco “no”, o comunque con una negazione: è il modo più esplicito per dare inizio ad un combattimento verbale. È sempre necessario accogliere dapprima positivamente ciò che l’altro in parte ci dice, ed esprimere poi il dissenso modulando le parole senza forti avverbi di avversione e tanto meno giudizio. Questi non sono altro che spunti tecnici per ciò che riguarda la comunicazione, la quale si avvale soprattutto dell’afflato emotivo che la costituisce.
Una vera ricerca relazionale è un lavoro artigianale che – limatura dopo limatura – può portare molto avanti, fino a veri e propri momenti di estasi e di gioia. Si tratta di emozioni che si sottraggono agli avvenimenti ripetitivi e recuperano le sorgenti intatte del nostro essere per aprirsi agli altri, nella dedizione e nella reciprocità.
Così nascono le amicizie nelle quali è possibile vivere nuove esperienze di unificazione, di amore. È necessario vincere la paura che c’è in noi, lasciare che sia lo Spirito della parola che Cristo ci ha donato a parlare in noi : «E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola» (Gv17, 20-26).