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L’ARTE DI ESSERE VULNERABILI (PARTE 2)

Verso la coniugazione

L’ultimo biennio di Darsi Pace – “imparare ad amare” – è stato pensato, non casualmente, proprio alla fine del percorso. Solo dopo aver portato luce nelle nostre ferite, solo dopo averle guarite (o almeno iniziato a farlo) con amore e compassione, ed esserci liberati da quel tremendo giudice interiore che ci rende implacabili con noi stessi e con gli altri, possiamo infatti sviluppare quella stessa comprensione, pazienza e cura per le ferite dell’altro. Bisogna lasciarsi tutto il tempo di sviluppare un’attitudine all’onestà interiore. Per Questo è quanto mai necessario lavorare innanzitutto sul giudizio. Mitigando il giudizio possiamo concederci di abbracciare la nostra negatività senza fuggirne via terrorizzati e vedere con la stessa serena equanimità quella altrui.  Paradossalmente, proprio nel momento in cui non mi sono più identificata con la “vittima”, ma riconoscendo anche il “carnefice” in me, ho sperimentato la nuova fioritura di alcune relazioni importanti. Questo solido lavoro dell’ultimo biennio è stato quindi di grande aiuto per aiutarmi a inquadrare meglio il principio del “femminile e del maschile distorto”. Principi entrambi presenti in ciascuno di noi, con una predominanza, a seconda dei casi, dell’uno o dell’altro. Personalmente, purificare il mio “femminile distorto” mi ha permesso di iniziare a riscoprire un femminile più sano e più forte e proprio per questo più accogliente, anche se sappiamo bene che il lavoro è infinito e l’umiltà del principiante è sempre un’attitudine da custodire con cura.

Nell’articolo precedente mi sono concentrata sul lavoro di una sociologa americana, Brené Brown, che per anni si è impegnata a studiare il concetto di vergogna e vulnerabilità. Come scrivevo anche la scorsa volta, è con grande gioia che accolgo ogni volta le assonanze tra il nostro lavoro e altri tipi di studi e letture, magari inerenti ad altre discipline. Più approfondisco, più i punti di connessione si rivelano con una chiarezza sorprendente. Unendoli tra loro, emerge davvero una bella immagine nitida dell’intima costituzione dell’essere umano, senza per questo togliere nulla al mistero che abita in ognuno di noi e che assume, personificandosi, tratti e modalità inedite. Il generale e il particolare non sono infatti mai scindibili, ma fanno sempre leva l’uno sull’altro.

Non a caso ho iniziato questo mio scritto parlando dell’importanza di riconoscere e accogliere le ferite nell’altro, di riconoscere il femminile e il maschile distorti dentro di sé e come da questo possano nascere rapporti più appaganti. Anche Brené Brown ha dedicato una parte del suo lavoro ad analizzare le differenze di genere nella percezione della vergogna, che ovviamente essendo un sentimento inerente alla nostra condizione umana, ci accomuna trasversalmente. Tuttavia, è interessante notare come assuma connotati differenti a seconda del genere di appartenenza, il quale risente ovviamente di una millenaria stratificazione culturale. E se non tutto è riducibile alla cultura di appartenenza, sicuramente essa costituisce parte integrante della nostra identità.

Stavo quindi parlando con alcuni amici delle considerazioni della Brown su come si manifesti prettamente il senso di vergogna nei maschi e soprattutto delle interviste raccolte nel suo libro. La reazione dei miei amici è stata unanime: “Parlane! Scrivici un articolo. C’è tanto bisogno di questo!”. E ho sentito così forte il bisogno di questa richiesta, di questo bisogno del parlare della fragilità maschile, di questo bisogno di essere considerati anche sotto questo aspetto, che mi sono detta: “Va bene. Così sia”. La strada per una relazione davvero paritaria tra uomini e donne passa infatti solo dal reciproco riconoscimento delle proprie distorsioni. Non c’è altra via. Chi mi conosce sa che la questione femminile mi è molto cara, ma è stata una presa di coscienza potente e al contempo integrante e arricchente immergersi in una dimensione differente, per certi versi sconosciuta.  Voglio quindi raccontarvi il primo episodio citato nel libro e spero che possiate leggerlo davvero senza giudizio, senza identificazione con una parte o con l’altra, ma con attitudine all’ascolto, le sole cose che veramente ci permettono di procedere verso l’unità.

Dunque, per diversi anni Brenè Brown non ha mai voluto intervistare campioni maschili. Le motivazioni che si era ufficialmente data erano inerenti al metodo scientifico da applicare. In realtà, per sua stessa ammissione, come comprese solo più tardi, si trattava di una sua potente difesa, un meccanismo di protezione per non mettersi troppo in discussione. Un giorno, dopo una conferenza, si presenta un uomo con una serie di libri da autografare. Le dice che questi libri, tutti sul tema della fragilità, erano per sua moglie e per le sue figlie. In seguito, le chiede come mai non si fosse mai interessata della fragilità negli uomini e dopo aver ascoltato le motivazioni della studiosa, l’uomo esordisce dicendo: “Fa bene. È conveniente”. Dopo un primo momento di rabbia per la risposta ricevuta, la Brown decide di approfondire e chiede i motivi della risposta. L’uomo risponde più o meno: “Vede quelle donne lì, mia moglie e le mie figlie, sono sue accanite fan e difendono la teoria della fragilità, ma preferirebbero vedermi morto piuttosto che accettare un mio fallimento”. La risposta fu un pugno nello stomaco, ma anche un momento di comprensione cruciale, sia per la sua vita personale, che per la sua ricerca. Da quel momento inizia quindi ad intervistare anche campioni maschili, il che cambia completamente la sua visione delle cose, o meglio, le permette di avere un quadro più completo e meno centrato su un unico focus. Così, riassumendo al massimo, se per le donne la vergogna si manifesta soprattutto nel non essere abbastanza perfette da tutti i punti di vista (come lavoratrici, madri, mogli, nella cura della casa e nell’aspetto fisico) e la pressione che avvertono è fortissima, per gli uomini la vergogna è quasi sempre associata alla debolezza. La loro risposta più ricorrente nelle interviste è “don’t be a pussy”, che in italiano si potrebbe tradurre più o meno come “non essere un coniglio”. Tra i tanti episodi ne racconta un altro molto interessante, riguardo a un uomo che era stato licenziato. Costui ne parò con il padre e con gli amici più cari, ma vergognandosi profondamente di rivelarlo alla moglie, da sei mesi ogni giorno si vestiva e faceva finta di andare al lavoro. Poi attraversava la città, si sedeva in un bar e si metteva in ricerca di una nuova occupazione. La studiosa, nonostante nelle interviste mantenesse sempre un atteggiamento il più neutro possibile, evidentemente tradì una certa sorpresa, così egli aggiunse: “mi creda, non lo vuole sapere. Se troverò un altro lavoro e le dirò tutto solo dopo me ne sarà grata”. La cosa più rilevante che emerge dai racconti è proprio la difficoltà di questi uomini di trovare accoglienza nella loro fragilità proprio tra le madri o le compagne. Scrive la Brown a questo proposito:

Qui emerge lo schema più doloroso della mia ricerca con gli uomini: gli chiediamo di essere fragili, li imploriamo di lasciarci entrare in questa loro fragilità e di dirci quando hanno paura, ma la verità è che la maggior parte delle donne non può digerirlo. In questi momenti, quando la nuda vulnerabilità si manifesta negli uomini, la maggior parte di noi indietreggia con paura e la paura si manifesta in molte maniere, dalla disapprovazione fino al disgusto”.

In base a quanto ho potuto osservare in me e negli altri, mi trovo abbastanza d’accordo. Teoricamente, infatti, desideriamo questa apertura e questa intimità, ma andando a sondare bene l’ombra, quanta pretesa c’è – magari inconscia – che l’uomo risponda perfettamente a un certo ideale che lo vorrebbe sempre vincente, capace, in grado di provvedere alla sua famiglia e sicuro di sé? E quanta disapprovazione e rabbia emerge quando non corrisponde a questa immagine ideale interiorizzata? Ovviamente, stesso discorso vale al contrario, con sfumature e atteggiamenti diversi. Ma, come detto, il tentativo di provare a scrivere dall’altro punto di vista è un atto di onestà dovuta, un atto dell’io in conversione che guarda nelle sue profondità per purificarle.

La Brown si sofferma poi sulle difese scaturite da questa percezione di poca accoglienza. Anche qui le assonanze con il nostro lavoro sono sorprendenti. Quelle più comuni sono infatti la rabbia e l’aggressività, oppure la chiusura ermetica, il tenersi tutto per sé. Entrambe portano alla separazione o nel migliore dei casi a un mantenimento precario degli equilibri.

Ma fortunatamente c’è una terza via, l’unica possibile e questo passo di Marco Guzzi tratto da “Imparare ad amare” può davvero aiutarci in questo compito difficile quanto ormai imprescindibile:

Dobbiamo convertirci perciò, anche in questo ambito specifico, e aprirci urgentemente alla nuova forma di umanità, maschile e femminile, che sta premendo nei nostri cuori: l’umanità relazionale. Dobbiamo dunque trovare un punto di ricominciamento, l’inizio della cura delle nostre identità sessuate. E in realtà questo punto di partenza già lo abbiamo individuato lungo il nostro cammino. L’inizio del ritorno, infatti, è sempre il rovesciamento del nostro sguardo dentro di noi. L’inizio della trasformazione salvifica è sempre la nostra umile entrata nello stato dell’Io in conversione, che appunto inizia a riconoscere dentro di sé tutte le forme distorte del proprio non-amore, tutti i modi in cui continuiamo a difenderci e ad attaccare, a ritrarci irresponsabilmente dalla vita o a invadere la vita degli altri, cioè comunque a separarci, a escludere, a odiare e quindi a essere maschi e femmine distorti.”

Ora, per finire con un sorriso, cari uomini: aspettiamo che facciate la vostra parte.

Nota: potete trovare la prima parte quì



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