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Il progresso di ieri

Nell’arco di tempo che va dal Seicento e arriva fino alla seconda metà del Novecento, si sono susseguite visioni più o meno alternative di progresso. In questo ampio lasso temporale ci sono stati sguardi e proposte che hanno articolato il tempo e la storia in modi tanto contrapposti quanto simili e speculari. Oggi questa riflessione sembra inesistente, o per meglio dire, ignorata – come molte altre riflessioni purtroppo – quasi fosse di interesse secondario promuovere una lucida e cogitata visione di scopo, un telos che lasci in-tendere collettivamente il perché di molti affanni.
Prima di osservare la situazione attuale è bene accennare brevemente ad alcuni concetti che possono essere utili alla memoria. Per sintetizzare (chiedo scusa per la brutale schematicità) possiamo ridurci a tracciare uno schema dialettico prendendo a modello le due grandi ideologie moderne di destra e di sinistra, ormai classiche per la loro dogmatizzazione. Esse esprimono da una parte una visione di progresso che ha come base l’affermazione rigida dell’identità, partendo dalla quale si crede possibile costruire il mondo “solido” di domani (la destra); dall’altra, la visione opposta per cui progresso significa dissolvimento di ogni identità, o differenza, attraverso cui il mondo futuro sarebbe un luogo “fluido” e privo di classificazioni sociali (la sinistra).
Queste due grandi scuole di pensiero, quella liberale e quella cosiddetta “progressista” (appunto…), con il 1989 entrano in una fese di spegnimento, dall’interno, sempre più acuta, per cui né l’una né l’altra sembrano più poter sostenere l’immagine che avevano di futuro.
Tutto il Novecento è stato il tentativo, da un lato e dall’altro – seppur estremizzando e stravolgendo i principi teoretici di partenza – di mettere in scena la propria praxis storica, il proprio paradigma di progresso. In entrambe le direzioni sappiamo bene come fallirono: la prima, la destra, implodendo e ipersublimandosi in un delirio di onnipotenza; la seconda, la sinistra, scontrandosi con la psicologia dell’individuo che da proletario diveniva consumatore, e da uomo sociale transitava a homo oeconomicus.
A soppiantare queste due polarità, spingendole entrambe nello stesso lato del campo da gioco, dove tuttora si trovano, è sopraggiunta l’ideologia neocapitalista. Quest’ultima abbraccia senza difficoltà l’intero campo della politica post-novecentesca (destra, centro e sinistra), soffocandola con le sue logiche mercantilistiche e darwiniane che mirano allo svilimento progressivo di ogni discorso altro rispetto alla politica finanziaria e alla progettualità del business.
Semplificando (chiedo ancora venia) nell’orizzonte concettuale della visione neocapitalista due sono le chiavi di lettura del progresso: una è quella più evidente, di natura economico-tecnico-scientifica (medicina, biologia, velocità, connessione, robotica, finanza, bitcoin, realtà virtuale, eccetera); l’altra, meno evidente ma pur sempre pervasiva, è quella di natura sociale e psico-collettiva (indipendenza personale, stile di vita, opportunità di lavoro, egoismo, carrierismo, eccetera). Tralasciando le considerazioni politiche a riguardo, cioè se è vero o no che tali visioni siano, o non siano, davvero il progresso (tesi in parte confutata da questo articolo), è indubbio che per la società di oggi e per la visione contemporanea dominante, questi due parametri siano i punti di riferimento attraverso i quali è possibile farsi un’idea di cosa conduce al progresso e cosa invece scade verso un ipotetico regresso. Eppure, se le cose stanno in questo modo, una domanda nasce spontanea: è proprio così scontato il nesso fra incremento economico, tecnico-scientifico e progresso culturale, morale e spirituale? Oppure dobbiamo dedurre che la seconda dimensione non ci importa più? A ben vedere non sembrerebbe.

L’avanzamento tentacolare di questa nuova ideologia del capitale ha trovato terreno fertile in quella società chiamata “dei consumi”. Una società preparata e coltivata con alacrità da una classe politica e imprenditoriale da tempo rinuciataria e dimentica di ogni discorso relativo al “pieno sviluppo della persona umana” (art. 3 della Costituzione).Sulla società dei consumi molto è stato scritto in questi ultimi decenni, ma anche troppo è stato ignorato o rimosso. Una delle decifrazioni più convincenti l’ha data Zygmunt Bauman, quando scrisse che: “Nella società dei consumatori nessuno può diventare soggetto senza prima trasformarsi in merce” e ha subito dopo aggiunto: “nessuno può tenere al sicuro la propria soggettività senza riportare in vita, risuscitare e reintegrare costantemente le capacità che vengono attribuite e richieste a una merce vendibile”. In pratica il progresso, visto in tale prospettiva, equivale a una mutazione genetica della soggettività umana da essere umano a merce di scambio. Chiunque non voglia adeguarsi a questa trans-mutazione è squalificato, annullato, cacciato fuori dalla società. Questa è la situazione oggi, e questa è l’idea di progresso che ha il neocapitalismo. Tutto ciò ci spinge a domandarci: questa visione di progresso è compatibile con il progetto democratico? A ben vedere, anche qui, non sembrerebbe.
La visione che ha di progresso questa grande nuvola nera quel è il neocapitalismo, ovvero, la nostra visione di progresso che abbiamo sposato, e continuiamo a sposare, oggi, si concentra esclusivamente sul profitto materiale e sul possesso avido di beni e di poteri. Anche quando è invisibile, come nel caso della cyber technology, la sua riverberanza raggiunge la sfera del concreto, di un acquisto o di una posizione, senza nemmeno rendercene conto. Se il metro di giudizio con cui calcoliamo il progresso si basa cinicamente, e in modo unilaterale sull’incremento della nostra potenza tecnica, o sulla diagnosi relativa allo stato di salute economica e infrastrutturale di un paese (es. il PIL), sarà impossible contemplare entro l’idea di progresso anche quelle aree invisibili che servono a calmierare la hybris della ragione, oggi completamente fuori controllo.

Il progresso di ieri è un andare avanti ciecamente, spinti dalla volontà di potenza e dall’abuso di potere. Con o senza pandemia la rotta non cambia, anzi. Solo per citare un esempio di attualità, questa è una delle tante affermazioni del ministro Gualtieri che, interrogato in una trasmissione televisiva sul futuro progetto politico ed economico dell’Italia, risponde: “Il Covid ci insegna non come cambiare linea rispetto al passato, ma come rilanciare e rafforzare un’impostazione di politica economica che questo governo ha avuto fin dalla sua nascita”. Più chiaro di così. Non solo il sistema neocapitalista (o ordoliberista come lo chiamano alcuni) sembra cosa buona e giusta ai nostri governanti, ma dichiarano apertamente che occorre addirittura “rafforzare”, consolidare e rendere ancora più efficiente, post-Covid, tale meccanismo ideologico.
Come ci insegnano le grandi storie mitiche, dal Prometeo alla vicenda della Torre di Babele: chiunque pensi di fare a meno della relazione e del dialogo coniugativo fra la dimensione della mente, l’intelletto, e quella dell’anima, lo spirito, finisce ingoiato dalla sua stessa brama e sepolto del suo stesso impallidire di fronte a ciò che non ha voluto vedere.

Arrivati a questo punto potrebbe sembrare che si sia voluto fare un discorso anti-progressista. Così non è. L’idea di progresso è connaturale all’Occidente. Chi pensa di conservare senza pro-iettare tutto quello che può verso il futuro, rischia di implodere e di negare se stesso. Quindi, lungi da me fare l’elogio del passato. Detto questo però, come è evidente dalla cronaca politica quotidiana, non è più possibile ragionare in termini di progressisti e anti-progressisti; e nemmeno di conservatori e anti-conservatori. Come disse una volta Raimon Panikkar: “Le religioni senza la dimensione mistica diventano ideologie” e poi concluse “e le ideologie sono causa delle guerre”. Se al posto di “le religioni” noi mettessimo “le politiche”, una così precisa affermazione rimarrebbe inalterata; e servirebbe da monito affinché la responsabilità dell’agire politico si curi e dell’esperienza di progresso, intesa come avanzamento e avvicinamento verso ciò che è vero, e dell’esperienza del come è possibile governare tale spinta senza esserne travolti né (come sempre è accaduto) travolgere gli altri.
In questi ultimi anni alcune categorie differenti sono state escogitate. Le due più rilevanti, a mio avviso, sono quelle di trasversalità e di a-ideologicità, con l’intento di dare una dimora a questo tipo di sollevazione critica nei confronti del paradigma dominante. Non so quanto possano essere esemplificative. Forse queste due categorie (troppo generiche?) non bastano, e l’esperienza M5S ne è una riprova. Resta il fatto che entrambe  suggeriscono il superamento obbligatorio di quelle gabbie ideologiche e storiche che da tempo non fanno altro che confondere il cittadino e la politica stessa, lasciando campo libero al proliferare dei contenuti nichilistici del sistema finanzcapitalistico (quello sì davvero trasversale!). Allora, forse, non saranno queste le parole d’ordine di una nuova più aperta e visionaria idea di progresso, ma possono comunque essere dei buoni punti di partenza per riuscire a sviluppare qualcosa di chiaro e incisivo nel più breve tempo possibile. Si, lo ripeto, nel più breve tempo possibile. Noi, ce lo auguriamo.



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