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Il teatro e l’opera del Nascente

Il mio personale approdo a Darsi Pace, circa cinque anni fa, non fu casuale né calato dal nulla. L’intero pensiero e opera vivente di Marco Guzzi hanno significato sin da subito per me la possibilità di una presa a terra, il gentile e fertile Atterraggio di un Cielo estremamente luminoso che già aveva fatto irruzione nella mia vita alcuni anni prima, cambiandone il corso per sempre.
Era il dicembre 2012, proprio mentre girava la voce che dovesse finire il mondo, quando in effetti quello che fino a quel momento io avevo conosciuto come “mondo” morì una volta per tutte, dopo che già da un po’ era seriamente entrato in crisi. Due figure che per un periodo della loro vita furono realmente in comunione di spirito, Nietzsche e Wagner, piombarono nella mia vita con la forza di una rivelazione sconvolgente. Fu come un lampo nella notte, un’intuizione di Nuovo mondo che si affacciava per me in un buio catastrofico, che sembrava realmente privo di uscita.
Fu un evento talmente potente che già prima di approfondire la loro opera mi parve di comprenderne perfettamente il nesso iniziatico fondamentale: ciò che il giovane Nietzsche indicava col linguaggio del pensiero e della ricerca filosofica, Wagner me lo faceva sperimentare nella carne, attraverso l’opera d’arte perfetta e totale, con la quale la verità inaudita della parola si traduceva in una trasformazione tangibile del mio stato interiore. Lo stesso Wagner, in un saggio molto importante per il primo Nietzsche, aveva scritto: «Nel musicista invece tale volontà [quella dell’Io cosciente] oltrepassa subito tutti i limiti dell’individualità, giacché, per mezzo dell’udito, si apre a lui la porta per la quale il mondo penetra in lui ed egli nel mondo» (Scritti su Beethoven, p. 110). O ancora, in un altro scritto di dieci anni prima: «Il carattere della scena ed il tono della leggenda sono i mezzi pei quali lo spirito è subito gettato in quello stato di sogno, in cui permanendo, egli riesce presto alla piena chiaroveggenza; qui egli scopre così una nuova connessione dei fenomeni del mondo, e tale in verità che gli occhi suoi non potevano discernere nello stato abituale di veglia» (Musica dell’avvenire, p. 57-58).

Questa forza poetico-iniziatica della musica wagneriana ha costituito per me, in modo quasi esclusivo almeno dai 16 ai 19 anni, un’esperienza quotidiana e indispensabile nella quale il mio stato egoico abituale realmente si trasfigurava e accedeva ad un’altra possibilità di mondo, ad un’altra condizione del mio essere, più potente e universale, più nutrita di spirito, nobiltà e grandezza. Cominciai così ad articolare ogni aspetto della mia esistenza intorno a questo nuovo potentissimo nucleo di identità, che per me non era affatto solo un immaginario fantasioso un po’ fine a se stesso, ma un modo di stare al mondo entro il quale fin da subito avrei dovuto orientare ogni obiettivo della mia vita futura, compresa la dimensione politica e sociale (come del resto valse per lo stesso Wagner). Iniziai a moltiplicare i miei scritti e studi sulla musica e sulla filosofia, presi contatto con altri wagneriani fuori e dentro l’Italia. Credevo seriamente che un rilancio adeguato del messaggio wagneriano potesse ancora comportare una svolta per i destini della civiltà umana.
Ben presto però mi accorsi che in tutto questo qualcosa non andava: mentre l’approfondimento del pensiero di Nietzsche mi portava mese dopo mese a confrontarmi con gli elementi più oscuri ed estremi della mia personalità, percepivo chiaramente che dentro di me – e non tanto negli ideali in cui credevo – vi fosse qualcosa di insostenibile e sostanzialmente distruttivo. Era il periodo in cui, tentando di inseguire la via indicata da Nietzsche, provai a maledire l’intera educazione cristiana ricevuta sin dalla nascita. Iniziai a costruirmi un’immagine molto rigida di me, a sostenere le mie idee in modo fondamentalistico. Eppure, più andavo avanti in questa modalità di me più sentivo di star male, di perdere tutto il terreno che avevo faticosamente conquistato e assicurato sotto i miei piedi. In questa circostanza conobbi Marco Guzzi attraverso la sua straordinaria conferenza su Nietzsche, la quale fu per me un’altra sconvolgente rivelazione, di impatto altrettanto forte e indelebile della prima. Nell’anno in cui iniziai a prendere contatto con Marco e ad essere sempre più attratto dal suo annuncio, che andava a colpire in modo precisissimo tutti i nodi fondamentali della mia esistenza, conseguii l’esame di maturità e feci il mio viaggio a Bayreuth.

Oggi, guardando a posteriori, capisco che nulla fu un caso di quanto accadde in quell’agosto 2015. Quando a Bayreuth vidi che tutto ciò che Wagner significava e incarnava per me era non solo misconosciuto, ma radicalmente tradito, ridotto ad una attività puramente turistico-commerciale (esteticamente orrenda) per un pubblico di maschere mortuarie dall’anima vuota e dalle tasche piene, provai un disgusto profondo per tutto quell’ambiente, per gli stessi “wagneriani” con cui avevo stretto rapporti, e mi allontanai da quel mondo con la stessa rabbia disincantata con la quale Wagner stesso si era allontanato dalle istituzioni teatrali del suo tempo.
Con quel viaggio, che doveva essere un pellegrinaggio e che invece fu una fatica sfiancante, compresi che il teatro, e in generale tutto il mondo dell’arte in senso tradizionale, non è oggi più in grado di corrispondere a quell’anelito profondo di salvezza e di verità che io stesso – da allievo di Wagner e di Nietzsche – inseguivo disperatamente. Appena tornato da Bayreuth ebbi il mio primo incontro con Marco a casa sua, in una conversazione che difficilmente potrò mai dimenticare.
La prima cosa che mi disse, dopo che avevo parlato per circa 15 minuti ininterrottamente, fu: «Vedi però che sei teso? Muovi il piede… Sei impaurito». Questa considerazione – detta con dolce fermezza – mi spiazzò, in qualche modo mi sentii smascherato, visto più in profondità di quanto io stesso volessi vedermi. La sera prima, in modo totalmente imprevedibile, avevo conosciuto Giulia, l’amica che mi offrì quasi subito ospitalità a Roma per venire a seguire i gruppi Darsi Pace.

Da quel momento è iniziata un’avventura che prosegue intensamente tutt’ora, che mi sta aiutando a capire iniziaticamente come oggi l’unico vero teatro dell’opera d’arte totale, quello che Wagner indicò lungo il suo immenso cammino di vita, può realizzarsi soltanto nel corpo vivente dell’attore, nella carne misteriosa e dolorante di ognuno di noi giorno per giorno.  È questo che insegna la poesia di Marco intitolata appunto Il teatro dell’opera:

«Tutto il teatro è il corpo dell’attore.
L’operazione è in corso:
Condenso, diluisco, perfeziono,
Assimilo, trasformo, rimuovo
Gli elementi. Ogni pensiero
Muta la materia.
                        Ne predispongo
La rivelazione.
                 Tu lasciali fare. Sta’ zitto.
La dolce escavatrice dissotterra in te
La vena più salata, quest’acqua
Minerale che ti parla
E battezzandoti rinnova il repertorio».

In questi versi non ritrovo soltanto il percorso frastagliato e sensazionale della mia vita personale, ma l’intera storia del pensiero e dell’arte occidentale, che a me parla da anni per bocca dei miei maestri a partire da Wagner e da Nietzsche. In Darsi Pace sento cioè di stare realizzando più radicalmente e umilmente lo stesso intento poetico-rivoluzionario che il teatro di Wagner si prefiggeva per l’avvenire del mondo. Che l’opera d’arte debba scendere dal palcoscenico, calarsi cristologicamente nella vita degli umani fin nelle pieghe più sottili della nostra esistenza, è l’inevitabile destino iniziatico-linguistico che il XXI secolo ha da compiere se vuole oltrepassare la propria soglia di verità. Su questo passaggio si gioca il futuro del mondo nei termini del nostro stesso futuro, di ogni singolo umano nella propria abissale responsabilità di fronte alla Creazione-in-atto dell’universo.
Parole così, parole che dicono proprio questo sono giunte anche a me, come un evento pacificante e sorprendente, dopo che fui presente circa un anno fa ad un memorabile convegno di Marco a Verona. Le leggo ora non solo come un messaggio straordinariamente semplice e inaudito per me, ma come un invito reale, immediatamente procreativo, per l’avventura umana sulla terra nel suo complesso:

«Puro fatti
Di te medesimo.
Statti fermo
A farti vedere
Scorrere.
Tutto tace
Se non urli.
Il canto attacca
All’ora giusta»



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