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OLTRE LA POSTMODERNITA’

Esattamente quaranta anni fa usciva in Francia un libro, poco più di un centinaio di pagine, dal titolo: “La condizione postmoderna”. Era il 1979 e l’autore era il sociologo Jean-Francois Lyotard. Quasi venti anni dopo, negli anni ’90, io incontrai Questo libro per la prima volta nei miei studi e ricordo che ebbe su di me un effetto notevole, un misto di sollievo e d’inquietudine. Partendo da questo libro ho sentito il bisogno di chiarirmi le idee sulla modernità, sulla postmodernità, e sul punto in cui ci troviamo ora rispetto a queste due epoche storiche e categorie di pensiero, entrambe fortemente in crisi.

La modernità sembra essere un’epoca storica ormai al tramonto. E’ iniziata attorno al Quattrocento con la fiducia in un continuo progresso dell’uomo verso la sua piena realizzazione: se guidato dalla ragione, l’uomo per sua natura opererebbe nel senso della pace, giustizia, libertà e fratellanza. Questa idea di modernità è crollata con le vicende storiche del secolo scorso, con le due grandi guerre mondiali e i totalitarismi. Su queste ceneri è nato il pensiero postmoderno, che teorizza con lucido cinismo la fine della fede nella ragione e nel progresso umano. Questo tipo di pensiero rifiuta ogni idea di verità e di progresso e riduce la vicenda umana a una questione di linguaggi settoriali, che giocano a trovare un loro senso parziale, pragmatico, operativo.  La teoria postmoderna è stata ed è tuttora il terreno ideale per la proliferazione di ogni forma di nichilismo, tecnocrazia mercantile, capitalismo distruttivo, con tutti gli effetti disumanizzanti che noi oggi ben conosciamo. Eppure, anche se i limiti della teoria postmoderna oggi sono sempre più riconosciuti, facciamo fatica a immaginare qualcosa di nuovo, a elaborare una visione che recuperi la grande eredità moderna, ma in una forma del tutto nuova.

Partendo da qui ho provato a riassumere come il pensiero che portiamo avanti in Darsi Pace apra una prospettiva nuova e liberante dentro questo dibattito, poiché ritrova nelle radici più profonde della modernità i fondamenti per costruire il tempo nuovo che si apre davanti a noi.

Buona lettura!

MODERNITA’

Per capire la postmodernità, cioè la visione socio-filosofica che ha dominato il pensiero occidentale almeno dagli anni ‘70 agli anni ‘90 del secolo scorso, dobbiamo partire da quello che c’è stato prima, cioè da quella lunga epoca storica occidentale a cui diamo il nome di modernità.

Noi oggi usiamo la parola “moderno” nel nostro linguaggio corrente per indicare qualcosa di contemporaneo, di attuale, al passo con i tempi in termini di progresso. Lo usiamo per indicare l’opposto di qualcosa che è antico e superato. La sua accezione di solito è positiva.

Queste caratteristiche derivano proprio dalla novità di quell’epoca storica (e di quel tipo di società) che tradizionalmente si fa iniziare con il Quattrocento, la modernità appunto, in cui si sfalda progressivamente un assetto del mondo e della società e ne nasce faticosamente uno nuovo.

Anche il termine “nuovo” è legato a quello di “moderno”: per noi oggi significa generalmente qualcosa di migliore, ma non è stato sempre così. Fino al tutto il Medioevo il novum era un pericolo, l’ordine del mondo era costituito, immutabile, e tale doveva rimanere.

L’epoca moderna invece riscopre la storia, che la storia ha uno scopo e che questo va perseguito attivamente: nasce l’idea di progresso come idea generale di avanzamento dell’umanità.  Queste idee di progressione in avanti e di emancipazione dalle forme politiche e sociali che opprimono i popoli e gli individui sono sostenute da una serie di scoperte scientifiche che rafforzano il dominio dell’uomo sulla natura.  Sono i secoli della rivoluzione scientifica e della formalizzazione del suo metodo, a cui seguiranno la rivoluzione industriale e tutto lo sviluppo tecnologico successivo. Nasce l’idea che un sapere oggettivo condiviso sia possibile, perché razionale e verificabile.

Anche a livello morale e politico cresce la ricerca di valori universalmente condivisibili, basati su principi razionali: la libertà individuale, aspirazione all’emancipazione personale e sociale, la ricerca della giustizia e della verità.

Tutte queste idee sono state sistematizzate nel ‘700 durante l’Illuminismo, e in questa forma hanno percorso tutti i secoli successivi come fondamento laico, razionale, progressista della storia e del pensiero umano.

Ma poi le cose non sono andate solo in quella direzione di progresso ed emancipazione che la guida della ragione sembrava garantire. Nell’Ottocento e nel Novecento, soprattutto, queste aspirazioni moderne, illuministiche ed emancipative alla verità, libertà, giustizia e uguaglianza si scontrano con una storia che procede anche in senso contrario. La fiducia in un’umanità che, se guidata dalla ragione persegue in modo naturale il proprio bene e quello dei suoi simili, ci porta alle due grandi guerre mondiali del Novecento, ai totalitarismi, all’uomo che distrugge i suoi simili in nome di quegli stessi valori che dovevano liberare l’umanità.

Allora negli ultimi decenni del Novecento, per la filosofia e per i saperi in generale, il moderno smette di essere “moderno”. La fiducia nella ragione, nella storia, nel progresso e nell’emancipazione naturale dell’uomo, cioè le conquiste della grande epoca moderna non sono più in grado di spiegare il mondo contemporaneo, non ne reggono l’urto. Così il termine postmoderno comincia a essere utilizzato per indicare uno stile di pensiero e un’epoca, appunto gli ultimi decenni del secolo scorso, in cui altri valori e orientamenti sembrano più calzanti per spiegare l’agire umano occidentale.

POSTMODERNITA’

F. Lyotard, nel libro che ho citato all’inizio, scrive la diagnosi di una crisi, che è in fondo la crisi della ragione come fondamento di tutte le speranze dell’uomo moderno. Descrive la dissoluzione delle teorie metafisiche, morali e politiche che pretendevano di spiegare tutta la realtà e come questa dissoluzione porti con sé una fine molteplice: la fine del “pensiero forte”, il declino dell’Europa e dell’Occidente, la fine della storia, della verità, dell’arte e della filosofia. Rispetto ai deliri di onnipotenza della ragione moderna questo finire è visto come una definitiva liberazione.

Quella stessa ragione che ha guidato l’epoca moderna sarebbe ora arrivata al suo esito finale e avrebbe scoperto le sue ultime e definitive carte: il sapere scientifico, portato alle sue estreme conseguenze, deve rinunciare alla pretesa di ogni principio di verità, e accettare di disperdersi nelle molteplici interpretazioni del reale.

Sul versante linguistico la modernità ha causato poi quella che Lyotard chiama “la fine delle grandi narrazioni”, cioè di quelle narrazioni o grandi visioni che sostengono l’identità di un’epoca in rapporto a quelle precedenti e a quelle future. Questo significa che non è più sostenibile una qualsiasi visione storica, politica, filosofica che riesca a dare un senso e un fondamento complessivo alla realtà. Le grandi sintesi teorico- pratiche della modernità (in particolare quella illuministico-emancipativa e idealistico-speculativa) sono definitivamente crollate nel corso del Novecento e all’orizzonte non se ne vedono altre. Proprio il sapere scientifico e il suo principio critico hanno frammentato senza rimedio l’unità del sapere che questi racconti (grands récits) garantivano in passato.

Il sapere è diventato solo un gioco linguistico autoreferenziale, conta solo stabilire le regole e restare all’interno di queste, senza nessun criterio di validazione esterna. Tutte le legittimazioni sono locali e contingenti, non vi sono più legittimazioni universali.

Gli ideali fondativi della libertà e della verità ora sono sostituiti dalla performatività, mentre la ragione e la libertà sono assorbite nella categoria della potenza come unico criterio legittimante.

Delegittimazione è una parola chiave della postmodernità, cioè sconfessare ogni pretesa di verità e ogni autorità morale e politica. Vi sono solo una quantità di sistemi formali equivalenti, guidati da criteri di efficienza e validati dalla potenza che riescono a raggiungere. L’informazione è la chiave del potere, soprattutto la capacità di usarla rapidamente e in modo efficace. Il linguaggio più che strumento di reale comunicazione diventa un gioco autoreferenziale, spesso ironico.

Tutto questo porta alla rinuncia definitiva a pensare a un senso razionale e liberante nell’agire umano: cercare questo senso non ha più alcun “senso”.

Questo clima di decadenza è la cifra comune di quasi tutta l’analisi sociologica della fine del secolo scorso: si parla di società postindustriale (A. Touraine), di fine dell’etica moderna e di condizione liquida (Z. Baumann), di società del rischio (U. Beck). Quella che viene descritta é la condizione di spaesamento e di dispersione della soggettività nel mondo contemporaneo.  Le figure umane del vagabondo e del turista diventano quelle più paradigmatiche: individui che non hanno riferimenti stabili, in fondo annichiliti e dispersi, che si muovono in uno spazio non strutturato, fatto solo di interessi contingenti.

OLTRE LA POSTMODERNITA’

Questa visione postmoderna, che è stata la chiave interpretativa più forte in ambito sociologico e anche filosofico negli ultimi decenni del secolo scorso, si trova ora fortemente in crisi, almeno a livello teorico.

Significativamente nel settembre del 2018 si è tenuto a Milano un convegno dal titolo: “Sono ancora tempi moderni?”. I filosofi Massimo Cacciari, Elio Franzini e Roberto Mordacci si sono interrogati su questa domanda: siamo ancora in tempi postmoderni oppure tutta la retorica del postmoderno è conclusa e dobbiamo entrare in scenari diversi? Il postmoderno, questo stile di pensiero che ha pervaso per decenni la nostra cultura, è una stagione ormai superata, oppure è l’esito ultimo e definitivo di una modernità che aveva in sé fin dall’inizio il proprio principio di autodistruzione?

Pur nella diversità delle posizioni, la tesi condivisa mi è sembrata essere una grande domanda, inquieta e irrisolta, sui tempi nuovi che stiamo vivendo in questo inizio di millennio. La modernità ha mostrato la sua insufficienza e i suoi limiti, ma non riesce a essere superata da nessun’altra visione storica e filosofica alla stessa altezza. La postmodernità è stata solo una specie di pausa, un momento di affrancamento, forse necessario, ma non è stata portatrice di nessuna nuova visione. E’ stata più un fenomeno descrittivo di un momento storico, ha legittimato il pensiero debole e tutti i nichilismi contemporanei, ma ci ha lasciato un senso di lutto da cui stiamo ancora cercando di capire se e come poter uscire.

Tutti i relatori, anche se in modi diversi, hanno parlato della necessità di un recupero della modernità e dei suoi valori fondanti. La ragione è la principale accusata del postmodernismo, ma come si può pensare a un futuro lasciandola fuori? Si può salvare l’eredità della modernità e i valori fondanti dell’Illuminismo e pensare a un nuovo ordine del pensiero e della storia? Si è parlato di questo nostro inizio di millennio in termini di “neomodernità” e l’ha fatto in particolare Roberto Mordacci, filosofo e autore del libro “La condizione neomoderna” uscito nel 2017.

Incuriosita dalla sua presentazione, ho letto questo libro.

Il titolo fa eco proprio al testo di Lyotard “La condizione postmoderna”, e rappresenta una critica molto dettagliata a tutta la teoria postmoderna. Ne smonta pezzo per pezzo le argomentazioni (la tesi della fine della storia, della verità, della filosofia, del soggetto, dell’arte) alla luce dei passaggi storici e culturali di questo inizio di millennio. Il postmoderno, scrive Mordacci, è ormai soltanto uno spettro che si aggira per l’Europa, “la voce evanescente di una diagnosi che ha creduto di definire un’epoca secolare ma che è stata in realtà poco più di una moda. […] Affascinato dal pensiero della fine, in ogni sua possibile variante, il postmoderno si è divertito a trastullarsi con il linguaggio a prendersi gioco della ragione, a sollevare il sospetto contro ogni idea morale e politica”, finendo così per nutrire solo nuove forme di asservimento e di rinuncia alla critica sociale.

Due eventi storici sono il simbolo del cambio d’epoca che stiamo vivendo, e che il postmoderno non riesce più a spiegare: l’11 settembre e la crisi economica mondiale iniziata nel 2007. Davanti a questi eventi, e a tutti gli altri a loro connessi, la diagnosi postmodernista è troppo generica e miope, perché considera la modernità in blocco come il problema di cui liberarsi. Le sfide attuali non sono l’effetto della fine della modernità, scrive Mordacci, ma il segnale di un vero e proprio ricominciamento della stessa modernità in nuove forme, un ricominciamento che è già in corso e che va capito e governato. Questa situazione di crisi e di passaggio avrebbe delle forti analogie con quella della prima modernità europea, cioè il periodo tra il Cinquecento e il Seicento, periodo che culminò con la sintesi culturale e l’apertura sociale dell’Illuminismo.

Mordacci ripercorre le analogie con quel periodo della prima modernità (nuovo scenario geopolitico, conflitti etnico-politico-religiosi, ridefinizione faticosa dei quadri concettuali della politica e della storia) e le differenze con il periodo attuale (il mondo globalizzato e l’accelerazione che le tecnologie danno a ogni tipo di mutamento). Come nella prima modernità fu proprio la cultura europea a definire faticosamente alcuni punti fermi per uscire dalla crisi e costruire la propria identità, così oggi l’Europa si trova davanti al compito di non dimenticare i principi guida dell’Illuminismo, inteso come processo e movimento del pensiero, dell’azione e della consapevolezza, di tenerli saldi sulla scena mondiale, pur riformulandoli alla luce del nuovo ambiente mondiale. Si tratta di un senso di responsabilità planetaria, che riguarda tutti e rispetto a cui gli europei hanno una vocazione specifica.

Quella di Mordacci quindi non è solo una visione critica ma anche propositiva, che ci chiede di ricominciare il lavoro del pensiero, dell’ingegno e della creatività. La storia è aperta e imprevedibile, ma non priva di senso. Senza questa idea di una direzione verso cui vogliamo e dobbiamo andare in quanto esseri umani, ogni azione morale, sociale e politica diventa vana e così consegniamo il presente e il futuro solo al profitto, alla finanza, all’ingiustizia planetaria e alla disumanizzazione, come sta già purtroppo succedendo.

Il presente non ci consente più quell’indifferenza e quello scetticismo compiaciuto tipico della postmodernità: siamo già dentro il periodo di incubazione di un nuovo che non conosciamo, ma della cui creazione siamo tutti responsabili.

 

LA MODERNITA’ E IL PENSIERO DI DARSI PACE

Le tesi di Mordacci mi hanno confortato: quello che da anni Marco Guzzi scrive nei suoi libri e quello che noi ci ripetiamo nei gruppi Darsi Pace non sono più qualcosa di isolato. Sta maturando un sentire sempre più condiviso sul fatto che stiamo vivendo un cambio d’epoca, che questa fine è in realtà un nuovo inizio, sull’importanza della storia, del pensiero e di una visione che ci dia criteri di discernimento nel caos globale di oggi. I contorni di questa visione però sono ancora evanescenti.

Il pensiero di Marco Guzzi mi sembra portare in questo dibattito un tassello decisivo, una chiave di lettura potente, che ha il coraggio di scavare in profondità nelle domande e nelle risposte.

Perché è entrato in crisi il progetto moderno, che pure portava in sé tante spinte evolutive? Come possiamo rifarci semplicemente a quei valori, quando abbiamo sperimentato nella storia che sono stati e sono tuttora insufficienti e ambigui nella loro realizzazione?

Provo a riassumere i passaggi principali di questo pensiero, a noi già familiare.

La modernità nasce con fortissimi elementi di liberazione dell’uomo, elementi che possiamo definire messianici, perché sono proprio quelli delle speranze cristiane di un soggetto umano nuovo, potenziato, soggetto di diritti e di libera creatività sul mondo.

Però il processo storico della loro realizzazione è stato ambiguo, perché ha portato con sé una separazione, non solo dai vincoli di oppressione politica e culturale del passato, ma anche dell’uomo dalla sua natura profonda, dal cosmo in cui vive e dal principio spirituale e divino, fonte della sua stessa vita.

La spinta evolutiva rivelata dall’incarnazione di Cristo quindi si manifesta e procede nella modernità, ma viene distorta anche nel suo contrario.

Il nuovo io moderno infatti cerca di manifestare uno spirito messianico, ma vuole farlo in maniera illusoriamente autonoma, cioè senza riconoscere la propria natura di essere che sussiste solo come relazione. Questa è l’essenza più profonda dell’ambiguità strutturale dell’epoca moderna, un’ambiguità che è prima di tutto spirituale.

Occorre quindi un profondo discernimento che tenga insieme, nella storia e nella cultura, la presenza contemporanea di questi due elementi: quelli cristici (evolutivi, umanizzanti, relazionali, di liberazione dell’uomo e di cura del mondo sociale e ambientale) e quelli anti-cristici (separativi, disumanizzanti, che accrescono l’oppressione, lo sfruttamento e l’ingiustizia), che oggi sono sempre più chiari e dirompenti. Come dire: l’ambiguità strutturale della modernità esce oggi allo scoperto e ci chiama alla scelta di cosa tenere e cosa lasciare.

La politica e la democrazia in particolare oggi manifestano proprio questa implicita contraddizione: pretendono dai cittadini una relazionalità sostanzialmente cristica (potremmo dire una vera e propria santità), ma poi li educa a una crescente autonomia dell’ego, ad una forma mentale bellica che va esattamente nella direzione opposta. È un paradosso, una scissione che sta distruggendo le nostre vite personali, così come quella pubblica e sociale.

Per proseguire sulla strada evolutiva (cristica) dell’uomo noi siamo chiamati a decidere chi vogliamo essere: se capitolare alla tecnocrazia mercantile e rinunciare alle speranze (messianiche) di pace, libertà, giustizia, unità del genere umano, e quindi alla realizzazione di noi stessi come individui liberi e creativi, oppure se provare a chiudere l’epoca moderna e le sue ambiguità e inaugurare una fase nuova della coscienza umana.

Questa fase nuova però non è qualcosa che può essere imposto dall’esterno, come è successo fino al secolo scorso, ma è una rivoluzione che ogni persona deve iniziare dentro di sé. D’altronde gli effetti distruttivi dell’epoca storica in cui viviamo sono anche fortemente individuali, come dimostra il malessere psichico dilagante (depressione, dipendenze, competitività esasperata).

La sfida di oggi quindi è prima di tutto interiore: parte da una trasformazione profonda della propria coscienza, per attenuare la nostra naturale bellicosità nelle sue dimensioni personali e psicologiche. Solo uomini e donne che compiano dentro di sé questo processo di liberazione potranno immaginare e costruire un’innovativa sintesi dei progetti evolutivi della modernità. Questo è il salto evolutivo e antropologico che siamo chiamati a compiere oggi per la nostra sopravvivenza: iniziare a costruire una nuova umanità, partendo da noi stessi. Questa nuova umanità è figlia del cristianesimo e della modernità insieme, riconiugati in una nuova e straordinaria sintesi.

Questo metabolismo trasformativo è quindi allo stesso tempo iniziatico (avviene nella carne delle persone, attraverso percorsi concreti, personali e comunitari) e culturale (inizia un processo di revisione di tutte le espressioni storiche della nostra cultura, dalla politica, all ’economia, alla religione, includendo anche tutte le espressioni storiche della fede cristiana).

Se questa è la strada per uscire dalla crisi, allora è evidente che esiste un profondo problema formativo, occorre cioè aiutare le persone a far emergere in se stessi questa nuova figura di umanità. Cambiare lo stato della propria coscienza a questo livello non è affatto facile, occorrono luoghi dove allenarsi a farlo, laboratori di vita e di pensiero in cui sperimentare concretamente questo cambiamento. Il movimento e i gruppi Darsi Pace, fondati da Marco Guzzi, da vent’ anni stanno cercando di fare proprio questo.

 

CONCLUSIONI

 Ho voluto scrivere questa riflessione sulla postmodernità, sulla sua genesi e sul suo futuro, perché credo che la nostra cultura tardo-occidentale e il nostro sentire interiore siano ancora in buona parte postmoderni.

Anche se questo termine viene ora usato con meno frequenza rispetto al passato, e a livello teorico comincia a essere riconosciuta la sua insufficienza, la cultura in cui viviamo è ancora postmoderna.

L’onda lunga della postmodernità è rimasta ben salda dentro la cultura di massa, nei giornali che leggiamo, nei romanzi che escono in libreria, nei programmi televisivi, nella pubblicità.

Tutto questo magma comunicativo ci dice senza sosta la stessa cosa: non cercare più nessuna verità, godi della fluidità di questi tempi, inebriati di questa spietata precarietà. Sei finalmente libero da ogni vera responsabilità che vada oltre a te stesso e il tuo piccolo mondo personale. Risparmiati la sofferenza di cercare altro e gusta fino in fondo il sapore dolciastro di questo sfinimento.

Anche i segni di cambiamento che stanno emergendo, dall’ecologia alla politica, restano come impantanati dentro una continua delegittimazione e uno scetticismo compiaciuto, che critica e distrugge con abilità, ma che non ha la forza di costruire nulla di nuovo. Oppure vengono catturati dentro il meccanismo mercantile (il principale sistema di senso di oggi), e consumati finché non diventano anch’essi funzionali a questo sistema. Tutto questo io lo trovo ancora pienamente postmoderno.

Sfortunatamente su questo terreno così devastato dei frutti nascono comunque, e non vanno in una direzione di liberazione e realizzazione dell’uomo: basti pensare alla dittatura dei consumi e dell’economia finanziaria, oppure al divario tra l’impoverimento di popoli e nazioni e l’egemonia di pochissimi soggetti che operano a livello mondiale.

Per iniziare a scrollarci di dosso queste catene occorre però un salto, occorre un coraggio da trapezisti, perché bisogna spostare il livello del gioco.

Coniugare la storia della modernità alla spaventosa concretezza della figura storica di Cristo, e della Rivelazione che Lui ci ha fatto di chi è veramente l’uomo, significa far uscire con forza la fede dal recinto della religione, perché diventi tassello di una cultura condivisa e di una nuova laicità.

Non si tratta di diventare tutti cristiani (almeno non nel senso che intendiamo noi oggi), ma di riconoscere quanto quell’Evento ha svelato della nostra umanità, quanto ha agito nelle pieghe della storia e quanto sta agendo ancora oggi. Senza questo passaggio difficile e coraggioso, difficile anche per noi cristiani, non so come riusciremo a lasciarci alle spalle l’eredità distruttiva della postmodernità.

Del resto anche le resistenze alla reciproca fecondazione tra pensiero moderno e fede in Cristo mi sembrano alimentate proprio dal clima della postmodernità stessa e dalla sua paura di ogni ricerca di un fondamento stabile. Tornano gli spettri di un pensiero forte e oppressivo e di un passato, non troppo lontano, in cui la Chiesa cattolica imponeva le sue regole morali. Soprattutto si avverte la paura di non essere abbastanza laici e razionali, mentre proprio una profonda e onesta laicità, sia sul versante del pensiero contemporaneo che su quello della Chiesa, potrebbe innestare un grande cambiamento culturale, una vera e propria rivoluzione.

La tesi sulla modernità elaborata da Marco Guzzi è infatti proprio lo svelamento di come i valori fondanti della nostra modernità (e quindi anche di quella prima modernità a cui si appella Mordacci) siano in definitiva valori cristici e messianici. Sono la lenta emersione nella storia di un seme originario di umanità, un progetto genetico vitale e fecondo, che si è però scontrato con la realizzazione operata da un essere umano ancora erroneamente centrato sulla propria separazione dagli altri, e quindi votato alla guerra dentro e fuori di sé, anche quando si diceva cristiano. La parabola moderna può essere letta allo stesso tempo come l’ascesa e la caduta di questo tipo di uomo, che alla fine non può più sostenere la grandezza e la potenza che si ritrova tra le mani, non può più sostenerla se non è lui stesso a cambiare.

Realizzare in noi questo cambiamento e aiutare gli altri a farlo è il compito che abbiamo davanti.

J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, 1981

R. Mordacci, La condizione neomoderna, Einaudi, 2017.

M. Guzzi, La nuova umanità. Un progetto politico e spirituale, Ed. Paoline, 2005.



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