Un numero sempre crescente di Imprese investe nel Sociale, per esempio attraverso iniziative di sostenibilità ambientale, donazioni a enti caritatevoli e sponsorizzazione di programmi di volontariato per gli impiegati. Per darvi un’idea della portata di queste iniziative, le 500 aziende più grandi al mondo spendono più di 15 miliardi di dollari l’anno (ovvero all’incirca l’1.8% del proprio profitto) in attività di responsabilità sociale d’impresa. In India è diventato addirittura obbligatorio per le grandi aziende donare il 2% del profitto. Come interpretare queste iniziative? Sono il segnale che qualcosa di nuovo sta nascendo, oppure è solo una nuova maschera di buonismo adottata dalle imprese per continuare indisturbate a perseguire i propri interessi finanziari?
Un economista tradizionale che crede ancora nell’ Homo oeconomicus (ovvero che l’essere umano sia mosso esclusivamente dal denaro), non avrebbe difficoltà nel trovare argomenti per sminuire tale fenomeno e quindi ignorare l’ipotesi di un cambiamento: In fin dei conti, con una donazione del solo 2% dei profitti, le imprese continuano a godere del 98% del guadagno, nonostante i danni all’ambiente generati da molte attività produttive e le enormi disuguaglianze che la logica di profitto sta contribuendo ad aumentare. Quindi nulla sta cambiando. Per le grandi imprese queste iniziative sociali sono solo il piccolo prezzo da pagare per continuare ad arricchirsi.
E su questo punto non gli si potrebbe dar torto. Infatti non penso minimamente che i vertici delle grandi multinazionali e banche d’investimento (le stesse banche che nel 2008 hanno fatto scandalo) siano all’improvviso genuinamente interessate al benessere sociale. Al massimo posso concedere ad alcuni di loro l’illusione di esserlo. E allora dove sta la buona notizia di cui parlo nel mio post precedente “Una causa per cui vivere e morire”? In realtà, ve ne do tre.
La prima buona notizia è che, sebbene queste iniziative sociali d’impresa rappresentino, in molti casi, l’ennesima ipocrisia, è anche vero che queste iniziative nascono in risposta ad un bisogno forte ed autentico della gente di creare un nuovo equilibrio economico-sociale. Consumatori e lavoratori sono stufi della crescente distruzione dell’ambiente e delle crescenti disuguaglianze economiche e sociali. Le imprese lo sanno e cercano di rispondere a questo malessere sociale modificando alcune delle loro prassi.
La seconda buona notizia è che, secondo me, per le imprese ipocrite questa è una gara persa in partenza. Se queste imprese si illudono di poter, con qualche spicciolo donato in carità, calmare le acque e fermare questa forte spinta di cambiamento verso un economia più giusta e sostenibile, si sbagliano di grosso. Io non credo proprio che i lavoratori e i consumatori si faranno turlupinare a lungo termine. Un mio studio scientifico condotto in collaborazione con un’impresa Italiana e i cui risultati sono apparsi sul sito della Harvard Business Review dimostra che se i lavoratori percepiscono che l’iniziativa sociale è usata come strumento per aumentare il profitto dell’impresa questi reagiranno negativamente, riducendo (invece di aumentare) il proprio lavoro. In altre parole: sembra che solo le aziende che siano genuinamente interessate al benessere sociale possano, attraverso le loro iniziative, godere di eventuali benefici economici “collaterali”, come per esempio attrarre un maggior numero di consumatori e lavoratori.
La terza e forse più significativa buona notizia è che, al di là di queste singole iniziative sociali che possono essere più o meno integrate con una strategia di profitto, sta nascendo una nuova figura di impresa, ovvero l’impresa sociale. Diversamente dalle imprese tradizionali il cui scopo è di massimizzare il profitto sotto l’eventuale vincolo (per quelle più socialmente responsabili) di limitare l’impatto negativo sull’ambiente, le imprese sociali hanno come scopo primario quello di massimizzare l’impatto sociale sotto il vincolo di una sostenibilità finanziaria che le rende indipendenti dall’ assistenzialismo dello stato e dalle donazioni caritatevoli (anche loro con le proprie maschere ed ombre). La figura dell’impresa sociale ha già i suoi promotori di alto livello, come il premio Nobel per la pace Muhammad Yunus (fondatore del microcredito) e il sacerdote Andrew Mawson (creatore del Brombley by Bow Center).
Il resoconto del 2018 Deloitte Global Human Capital Trends riassume bene questo fenomeno: “Sulla base del sondaggio globale di quest’anno di oltre 11.000 leader aziendali e delle risorse umane, nonché delle interviste con i dirigenti di alcune delle principali organizzazioni odierne, riteniamo che sia in corso un cambiamento fondamentale. Le organizzazioni non sono più valutate basandosi solo su metriche tradizionali come le prestazioni finanziarie o anche la qualità dei loro prodotti o servizi. Piuttosto, le organizzazioni oggi sono sempre più giudicate sulla base delle loro relazioni con i loro lavoratori, i loro clienti e le loro comunità, così come il loro impatto sulla società in generale, trasformandole da imprese di business in imprese sociali.”
Perché ho così tanta fiducia nell’imprenditoria sociale? Per poter davvero apprezzare la figura dell’impresa sociale bisogna capire che questa rappresenta un punto di rottura con il passato. Tradizionalmente, c’è sempre stato un divario settoriale: da una parte il settore privato del business, il cui unico scopo era quello di creare profitto anche a discapito dell’ambiente e delle uguaglianze sociali, dall’altra il settore pubblico oppure privato caritatevole, che cercava di riparare questi danni attraverso l’assistenzialismo. Adesso questo modello economico diviso e contradditorio, che con una mano distrugge e con l’altra ripara, è destinato ad estinguersi. La figura dell’impresa sociale assorbe entrambi questi settori, generando un modello più coerente, più integro e quindi più “vero”.
Inoltre, dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, l’impresa sociale, diversamente da un ente pubblico, è soggetta a meno gerarchie e vincoli burocratici, lasciando all’imprenditore e ai suoi collaboratori molta più libertà per esprimere i propri talenti in maniera creativa. Libertà che sta così tanto a cuore all’essere umano e in nome della quale il sistema capitalistico ha sconfitto, finora, ogni rivale.
Infine, credo nell’impresa sociale perché non vedo alternative. Il mondo come lo conosciamo oggi non è sostenibile, non solo da un punto di vista ambientale, ma anche economico e sociale. Io vedo un mondo in cui non si farà più distinzione tra imprese sociali e imprese di business, perché solo le prime sopravvivranno. Forse questa prospettiva sembrerà azzardata, ma questo tempo richiede grandi visioni.
Deloitte (2018) “2018 Deloitte Global Human Capital Trends”. https://www2.deloitte.com/content/dam/insights/us/articles/HCTrends2018/2018-HCtrends_Rise-of-the-social-enterprise.pdf. Accessed May 14
Mawson, Andrew (2008) “The Social Entrepreneur: Making Communities work” Atlantic Books
Meier, Stephan and Lea Cassar (2018) “Stop talking about how CSR is helping your bottom line” Harvard Business Review https://hbr.org/2018/01/stop-talking-about-how-csr-helps-your-bottom-line
Yunus, Muhammad (2010) “Si puo’ fare! Come il business sociale puo’ creare un capitalismo più umano.” Feltrinelli
Yunus, Muhammad (2013) “La promessa del business sociale” Feltrinelli