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Una causa per cui vivere e morire

La prima volta che ho sentito Marco Guzzi parlare della “svolta antropologica in corso”, ovvero già dai primissimi incontri del primo anno di Darsi Pace, sono rimasta molto perplessa. Tutti i presunti segni di Questo particolare momento storico io non li avevo mai notati. Mi sarò forse persa qualcosa, tra studio e svago, durante la gioventù? Da ragazza pensavo piuttosto il contrario: questo momento storico mi appariva cosi piatto, arido ed insignificante. Rimpiangevo di non essere nata in un tempo o luogo più interessante (magari nel 1789 in Francia?) dove ci fosse una chiara causa per la quale combattere: qualcuno mi dia una causa per cui vivere e morire, per favore!! Non chiedo altro!

Ero abituata a pensare cosi… fino a quel momento. Fino a quando il percorso Darsi Pace non mi ha dato gli “occhi” per vedere ciò che, in realtà, è sempre stato sotto il mio naso. Mi sono resa conto che tutta la mia vita, dalle mie aspirazioni alle mie disperazioni, dai miei interessi ai miei studi di ricerca di economia, tutto puntava verso questa svolta antropologica.

Quando nel 2007 iniziai ad approfondire i miei studi di Economia, capii subito di quale tema mi sarei voluta occupare durante il mio dottorato. Volevo sviluppare una teoria economica del lavoro basata sull’idea che quest’ultimo è molto di più di un semplice scambio tra tempo (dei lavoratori) e denaro (dell’impresa). Ritenevo che molte persone aspirano a ben di più della busta paga a fine mese. Per esempio, molte persone vogliono dedicarsi ad un lavoro che abbia un impatto positivo per il mondo, altre cercano un lavoro che gli dia la libertà di esprimere la propria creatività. Volevo arricchire il modello economico tradizionale che si basa su una visione molto ristretta dell’essere umano, quella dell’Homo Economicus, secondo la quale l’uomo è un essere razionale con il solo interesse di aumentare il proprio benessere materiale.

Da dove nasceva questa mia idea? Da semplice introspezione. Sentivo che i modelli proposti dalla teoria economica mainstream e che ci venivano insegnati nei corsi universitari non mi rispecchiavano affatto. Io, di certo, non avevo iniziato un dottorato in Economia per fare i soldi. Sognavo di salvare il mondo (sebbene non mi fosse ancora chiaro come e da chi). E come me, una buona parte dei miei compagni di Oxford. Possibile che il 99% dei modelli economici sviluppati e studiati dagli economisti non tenga conto di questo aspetto?

A quei tempi non avevo ancora capito la portata di quella spinta che sentivo dentro. Questa spinta non era frutto del mio egocentrismo o dell’influenza di qualche compagno ispirato da genitori con cariche pubbliche e sociali importanti. Questa era ed è la spinta del “Nascente” che urge in me come in milioni di altre persone, specialmente nelle nuove generazioni, che mai come oggi aspirano a salvare questo mondo.

In uno dei suoi ultimi best-sellers “La civiltà dell’empatia”, Jeremy Rifkin, uno dei più grandi economisti/sociologi/attivisti dei nostri tempi, spiega come recenti scoperte scientifiche sul funzionamento del cervello e sullo sviluppo infantile dimostrino che la natura umana sia fondamentalmente “empatica”, e come questa empatia si stia, attraverso l’emergenza delle nuove tecnologie e sistemi di telecomunicazione di massa, espandendo in maniera sempre più rapida. In poche parole, mai come oggi, le persone riescono a provare empatia (che si potrebbe definire come il “capire e condividere sentimenti/emozioni altrui”) verso un così ampio raggio di persone (o esseri viventi) diverse da loro. Rifkin parla di una nuova era antropologica, quella dell’Homo Empathicus. E scrive: “Siamo in un momento decisivo nel percorso umano in cui la corsa alla coscienza empatica globale si scontra con il collasso entropico globale.”

Ma, in realtà, non c’è bisogno di leggere saggi di sociologia o studi scientifici per intravedere le tracce di questo cambiamento. Se queste, probabilmente non si trovano sulle prime pagine dei quotidiani, basta inserire un paio di parole chiave su Google e la magia è fatta. Nel 2015, ad esempio, trovai una rara testimonianza in una pubblicazione dell’Huffingtonpost. L’articolo era scritto da Patrick Struebi, un imprenditore sociale di successo come tanti altri: “Non c’è mai stato così tanto potenziale in così tante mani. Non ci sono mai state così tante persone che hanno voluto trasformare quel potenziale in un impatto positivo per il bene del nostro mondo.

Questo è il modo in cui descriverei il nostro momento storico, e penso che sia più vero di giorno in giorno … un desiderio urgente ed entusiasta di trovare nuove soluzioni ai problemi più urgenti del mondo. Questi sono alcuni dei valori principali del nuovo “spirito del tempo” (lui usa il termine tedesco intraducibile Zeitgeist). La prova è ovunque … ma ciò che più ha ispirato è stata la coscienza sociale -il desiderio di migliorare la vita- che ha animato tutto … i giovani guidano la strada: questo cambiamento è chiaramente correlato alla maturazione della generazione del Millennio, che per anni ha dimostrato una particolare propensione a trovare uno scopo nella propria vita e ad avere un impatto nel mondo”.

Quali sono gli effetti di questa nuova spinta empatica sulla (micro)economia? Si possono già vedere? La risposta è sì, se hai gli “occhi”: basta esaminare i dati sull’imprenditoria sociale e sulle iniziative di responsabilità sociale d’impresa (dal termine inglese: Corporate Social Responsibility, abbreviato, CSR). Ma è tutto oro ciò che luccica? La risposta è no. Ma questi sono altri temi per il mio prossimo post. Per ora mi basta ricordare che questa causa per cui vivere e morire c’è, e c’è sempre stata, per ognuno di noi. Spero solo di esserne all’altezza.



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