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Cinema e Sogno – referenziale JobOk Magazine #15

Tags: sogno film cinema

Tutti sognano e tutti hanno sempre sognato. C’è chi ricorda i suoi sogni, chi mai, ma tutti ne hanno almeno uno che non dimenticano. Da sempre il Sogno ha avuto un’enorme importanza nella vita dell’essere umano: fin dai tempi antichi esso è stato fonte di presagi, premonizioni, avvertimenti, ordini o simboli. Il sogno ha ispirato condottieri, regnanti, governanti, poeti, artisti, scrittori, drammaturghi e cineasti, così come ha segnato linee di condotta e scelte di vita delle persone più umili. Ha ispirato insomma tutta l’arte: l’arte della guerra e l’arte del governo, l’arte di vivere e l’arte di arrangiarsi, ma soprattutto l’arte di ogni artista. In molti hanno cercato di capire che cosa potessero significare i sogni. Interpretare i sogni è diventata a sua volta un’arte in cui profeti, aruspici, filosofi, fisiologi e psicologi si sono misurati, come Aristotele e Artemidoro, come Schelling e Schopenhauer. Ma ci sono voluti molti secoli prima che venisse scoperta la chiave per aprire quello scrigno di tesori – i nostri tesori – che sono i sogni.

È solo nel 1900 (in realtà 1899) infatti che viene pubblicato un libro, L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, che ha rivoluzionato il modo di pensare e di interpretare il sogno. Secondo Freud, il sogno è la via regia per conoscere l’inconscio, vale a dire tutto ciò che non vogliamo o non possiamo sapere di noi stessi e che abbiamo rimosso. «Esplorare i sogni è esplorare la parte più arcana di noi, l’Io che non sappiamo di essere, l’essere che non sappiamo di avere. L’altro da me, l’Io che sono senza volerlo. L’Io che respingo, l’Io che non comprendo. O forse solo l’Io che non ha posto» scrive Stefano Massini, nel suo “falso” diario-romanzo di Freud, L’interpretatore dei sogni (2017).

Nel sogno manifesto, quello che ricordiamo la mattina al risveglio, ci arriva solo un frammento e un’allusione (dovuti ai meccanismi della condensazione e dello spostamento) di quei contenuti onirici latenti che, una volta interpretati, ci permetteranno di arrivare ai nostri più intimi e nascosti desideri e ai nostri traumi rimossi. Perché il sogno è sempre – ci dice Freud – la rappresentazione deformata di un desiderio inconscio. Dietro quelle immagini arcane, elusive ed enigmatiche, dietro quei rebus sibillini e oscuri che sono i nostri sogni si nasconde la verità del nostro sentire e agire. Nascondimento e al contempo epifania, questo è il segreto del sogno che ci ha rivelato Freud.

Da quando il Cinema è stato inventato – in quel fatidico 1895 che ha visto anche la nascita della psicoanalisi – non ha mai smesso di farci sognare. Prima solo nelle sale cinematografiche e solo in certe ore, poi è trasmigrato anche alla televisione, inaugurando come padre nobile quell’infinito universo dell’audiovisivo e delle serie televisive che ha invaso computer e cellulari, le nostre case e i luoghi pubblici: ambienti mediali digitali che ci permettono di guardare Film e serie a ogni ora del giorno e della notte, come se non ci fosse più distinzione tra sogno e realtà, come se potessimo non distinguerli più, perdendoci o dannandoci (chi può saperlo?). È la realtà che è stata invasa dal sogno o il sogno che è stato invaso dalla realtà? E perché da quando il cinema è nato ne abbiamo sempre parlato come se fosse un sogno?

Se nell’Interpretazione dei sogni Freud paragona il sogno a un rebus e ai geroglifici, Jacques Lacan, in un saggio del 1957, L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, assimila il sogno «a quel gioco di società in cui si deve, di fronte a tutti, far indovinare agli spettatori un enunciato conosciuto (ad esempio il titolo di un romanzo o di un film) col solo mezzo di una messa in scena muta». E appena qualche riga prima aveva scritto che lo spostamento e la condensazione non si distinguono dalla loro funzione omologa nel discorso (la metonimia e la metafora), se non per una condizione imposta al materiale significante, che viene definita “raffigurabilità e che si deve tradurre come un «riguardo per i mezzi della messa in scena».

Sia Freud che Lacan evidenziano quindi la relazione del sogno con la messa in scena, collegandolo così implicitamente al cinema, che mette in scena e racconta mediante delle immagini in movimento: ciò significa che i contenuti del film sono sottoposti alla stessa esigenza di raffigurabilità di quelli del sogno, subiscono quello stesso tipo di selezione e di trasformazione che permette loro di essere rappresentati in immagini. Il film insomma può essere paragonato e interpretato come se fosse un sogno, anche là dove non sogna affatto, dove non mette in scena la rappresentazione di un sogno, perché la narrazione è sottoposta – al pari del sogno – a un processo di visualizzazione, concretezza, plasticità, suggestione, simbolizzazione e infine elaborazione secondaria (o, come scrive Freud, «riguardo per l’intelligibilità»), vale a dire quella relativa coerenza che, proprio nell’ultima fase del lavoro onirico (un po’ come si fa con il montaggio per un film), viene data al sogno e che gli permette, tra l’altro, di essere raccontato.

Al di là delle intenzioni e delle storie che mette in scena, il cinema è dunque l’arte che più si avvicina alla materializzazione della visione onirica, tanto da poter ipotizzare che la forma-cinema già preesiste nel sogno e che è “ontologicamente” analoga al sogno. Se è vero che i registi sono i pensatori del nostro tempo, come scrive Deleuze, allora possiamo anche dire che i film – i bei film – pensano secondo «una forma particolare del nostro pensiero», molto vicina ai sogni, tramutando i pensieri in immagini: il lavoro della creazione cinematografica, quella dei grandi registi, è infatti molto vicino al “lavoro onirico”, che permette di eludere la censura.

«Il film è un sogno – ha scritto lo psicoanalista Serge Lebovici – ed è anche materia per sognare. È insomma un sogno che fa sognare». «Il film sembra un’imitazione involontaria del sogno» dichiara uno dei grandi registi “onirici”, Luis Buñuel; mentre il sintagma “fabbrica dei sogni” è da tempo assurto a sinonimo di cinema e la definizione “il cinema è sogno” è diventata ormai di uso comune, suffragata dalle testimonianze di tanti sognatori che spesso, con un tipico lapsus, pronunciano la parola film al posto della parola sogno, e viceversa. Le sovrapposizioni e le analogie potrebbero continuare se prendiamo in considerazione il fatto che i film, al pari dei sogni, si dimenticano facilmente o si ricordano male, non essendo ancorati alla realtà; o se teniamo presente che i sogni sono costellati da “residui diurni” di immagini cinematografiche, in uno scambio tra film e sogno che raggiungerebbe il suo massimo risultato nel momento in cui lo spettatore ritrovasse, al cinema, delle immagini assimilabili a immagini di suoi sogni. In questo caso il fantasma dello spettatore coinciderebbe con quello del film, instaurando una piena soddisfazione, un godimento totale. Non lontani da tale ipotesi sono coloro che considerano la visione di un film l’equivalente di un sogno a occhi aperti, accompagnato da un eventuale valore benefico e terapeutico. Sono poi tanti – da Buñuel ad Altman, da Welles a Fellini, da Cocteau a Bergman, da Cronenberg a Lynch, e chissà quanti altri – i registi che hanno dichiarato di essersi ispirati ai loro sogni o di aver trovato l’idea di un film a partire da un sogno.

L’analogia tra film e sogno e tra spettatore e sognatore è stata messa in luce dalla teoria psicoanalitica del cinema. Nel rapporto tra schermo e spettatore impressione di realtà, identificazione, sospensione dell’attività vigile, immobilità e sovrapercezione visiva, favoriti dal buio della sala e dal riposo del corpo, sono condizioni che accomunano lo spettatore al sognatore. Inoltre sia il sogno che il film si basano su immagini che scorrono, che svaniscono, l’una dopo l’altra, e sia durante il sogno che nella visione di un film entriamo dentro un mondo con proprie regole, dove tutto è possibile e “reale”. Sono dunque immagini che presentano un duplice tratto, quello di coniugare intensità e fugacità, e quello di perdersi nei meandri della nostra labile memoria.

Il paradigma del sogno, la sua “stranezza” e “oscurità”, ha permesso al cinema di immaginare trame impensabili, di organizzare nuovi misteri ed enigmi. Durante la grande stagione delle avanguardie storiche e del cinema muto degli anni venti, molti film si sono giovati dell’oniricità insita nel cinema per far progredire il linguaggio cinematografico, per liberare la nuova arte dalla gabbia letteraria e teatrale, per sperimentare liberamente le possibilità linguistiche insite nel nuovo mezzo, come i film surrealisti, quali Un Chien andalou, 1929 di Buñuel e Le sang d’un poète, 1930 di Cocteau, per non parlare del primo importante film psicoanalitico della storia del cinema, I misteri di un’anima (1926) di Pabst, o come i più recenti Shutter Island di Martin Scorsese (2010) e Inception di Christopher Nolan (2010).

Già a partire dagli anni venti è possibile operare una prima distinzione tra i film che evocano il rapporto con il sogno: quelli che mettono in scena, all’interno dell’intreccio, uno o più sogni, circoscritti in una o più sequenze – come il famoso Io ti salverò (1945) di Hitchcock o Il posto delle fragole (1957) di Bergman – e dove la tipologia e l’iconografia delle sequenze oniriche è complessa e variegata, sia rispetto alle marche di enunciazione che a quelle stilistiche; e quelli che potremmo chiamare “onirici” nel senso che è l’intero film che viene investito da questa connotazione ed è costruito come se fosse un sogno.

I film cosiddetti onirici condividono un andamento che non segue la logica razionale ma l’illogica libertà del sogno e la successione delle immagini procede più per analogie iconiche e simboliche e per libere associazioni che per nessi causali, perdendo le relazioni logiche tra una scena e un’altra. La realtà esterna viene sostituita con quella psichica, la successione temporale e la contiguità spaziale vengono disgregate e non viene rispettato il principio di non contraddizione, fino a mettere in dubbio anche la riconoscibilità immediata dei personaggi, come nel film di Michael Hanecke, Happy end (2017). Tutto questo sfruttando la possibilità che ha il cinema di passare liberamente da una rappresentazione a un’altra, così come avviene nel processo primario, quello dell’inconscio, dominato dal principio di piacere.

Ci sono film che, sotto l’apparenza di una narrazione che segue le leggi del pensiero cosciente, nascondono la struttura “invisibile” di un racconto dominato dalle leggi del sogno e in cui presente e passato sussistono in un’unica continuità (Hiroshima mon amour, 1959 di Alain Resnais), le opposizioni diventano analogie (La signora di Shanghai, 1947 di Orson Welles), spazi e tempi lontani sono aboliti o si corrispondono ( L’anno scorso a Marienbad, 1961 di Resnais), la realtà esterna viene sostituita con quella interiore del protagonista (Otto e mezzo, 1963 di Fellini) e in cui le immagini sono interpretabili ambiguamente, in quanto portatrici di molteplici significati e costituite di slittamenti e di sovrapposizioni di sensi. Emblematico, in questo senso, Mulholland Drive (2001) di David Lynch: quelli che erano considerati stilemi e procedimenti tipici dell’onirismo diventano scrittura ordinaria, amplificata e dilatata all’intero testo. È tutto il linguaggio cinematografico – così come lo è sempre stato, ma qui è più evidente – a spartire il suo funzionamento con quello del sogno, dove il gioco di entrata o di uscita dal sogno/allucinazione non ha più senso, in quanto non si entra né si esce. Lo spettatore è soggiogato dentro un continuum narrativo tanto affascinante quanto indivisibile e indistinguibile rispetto al tradizionale confine tra sogno e realtà.

Lo schermo bianco della sala cinematografica (l’unico dispositivo ancora fortemente imparentato con il sogno) – in quel momento magico prima che il film (il sogno) abbia inizio – diventa allora la materializzazione di quello schermo interiore su cui verrà proiettata “l’altra scena” (il sogno, il film): schermi del sogno e scene dell’inconscio che ogni spettatore già porta in sé.

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