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Cosa cambia dopo l’audizione di Comey (21/50)

Una comunicazione di servizio, prima di cominciare: chi ha letto la Cosa che ho scritto ieri sul blog sa che la mia prossima partenza per il Texas mi costringerà a scombinare un po’ l’alternanza settimanale tra Newsletter e podcast, e per questo motivo oggi sarebbe dovuto uscire di nuovo un podcast invece che la newsletter. Solo che ieri sera c’è stato un guaio tecnico al momento di registrare il podcast ed era troppo tardi per rimediare, quindi quella di questo sabato è una newsletter, come da piani originari. La cosa nuova è che riceverete la newsletter anche sabato prossimo – quando sono in viaggio scrivere è più comodo di registrare – e quindi torniamo col podcast sabato primo luglio. Ma recupereremo la puntata persa, promesso.

Per il resto, appunto, sono in partenza, sempre grazie alle vostre generose donazioni: a meno di grandi stravolgimenti nel viaggio, la prossima volta che ci sentiremo sarò da qualche parte sul confine tra Texas e Messico, probabilmente tra Del Rio e Terlingua. Se non volete aspettare quel giorno per sapere se sono riuscito a non farmi mordere da un serpente a sonagli, seguitemi su Instagram.

Veniamo alle cose importanti però.

La politica americana aspettava questo momento da un mese, e così anche i giornalisti di tutto il paese e di mezzo mondo: il momento in cui James Comey, l’ex capo dell’FBI licenziato da Donald Trump mentre indagava proprio sul comitato elettorale di Trump e sui suoi presunti rapporti con la Russia, avrebbe testimoniato davanti alla commissione intelligence del Senato, dando la sua versione sulle ragioni del suo licenziamento e sui suoi rapporti col presidente. Il momento è arrivato l’8 giugno, l’audizione è durata tre ore, e ora abbiamo le idee un po’ più chiare su quello che è successo.

Prima di analizzare le cose che ha detto Comey, però, è importante capire il contesto.

Per noi che osserviamo la politica americana da lontano può essere difficile comprendere davvero la straordinarietà dell’audizione di Comey, ma c’è un motivo se la stampa statunitense era così eccitata: non si era mai visto prima un direttore dell’FBI appena licenziato e convocato davanti a un consesso così solenne per raccontare come il presidente su cui stava indagando prima gli avesse fatto pressioni perché chiudesse un occhio su un’indagine, e poi lo licenziasse. Non fatevi tentare dall’idea di considerare quest’audizione come uno scontro fisiologico tra avversari politici. Comey non è un avversario politico di Trump: è un funzionario governativo di grande reputazione ed esperienza, che ha lavorato molto bene sia con il presidente Bush che con il presidente Obama e che è stato persino a lungo iscritto nelle liste elettorali come Repubblicano. Un servitore dello Stato nel senso più classico e meno retorico del termine. E le cose che ha detto, Comey non le ha dette in un’intervista alla tv: le ha dette sotto giuramento, cioè in un contesto in cui mentire è reato. Per queste ragioni quest’audizione era stata descritta per settimane dai media come una delle più importanti nella storia degli Stati Uniti d’America.

Bisogna dire un’altra cosa però: si poteva immaginare, e infatti è stato così, che Comey non avrebbe dato notizie clamorose nel corso della sua audizione.

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