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L’Aquila solidale, un anno dopo il terremoto

Un anno dopo il Terremoto dell’Aquila, voglio ricordare i tanti volontari della società civile aquilana che ho avuto la fortuna di incontrare quando ho scritto il saggio che accompagna in appendice lo splendido libro di Rebecca Solnit, Un paradiso all’inferno (Fandango Libri, 2009) dedicato alle “straordinarie comunità solidali” che si sviluppano in occasione dei disastri, contrariamente a quanto spesso descritto dai mezzi di informazione, che preferiscono raccontare un’umanità di saccheggiatori e di individui regrediti allo stato di natura e in preda al panico.

Ho deciso, a distanza di un anno dal sisma, di tornare a parlare con i protagonisti della mia Aquila solidale per ascoltare le Loro storie fuori dal clamore dei media e farmi raccontare gli sviluppi dei loro progetti per la rinascita della città. Nei prossimi giorni li ricontatterò tutti:  Sandro Tosone, Alfredo Murgo, Giannino Di Tommaso, Giusi Pitari, Andrea Salomone, Ciro Cannavacciuolo, Cecilia Cruciani, Filippo Romano, Palma Franceschini, Beatrice Pannozzo, Mario Alaggio.

Per adesso voglio ricordare le belle ore passate insieme a loro nelle tendopoli aquilane nella primavera ed estate del 2009, pubblicando qui di seguito alcuni stralci dell’Aquila solidale: la prefazione, l’introduzione (Il mio terremoto) e le conclusioni (Abbracciare la catastrofe).

L’Aquila solidale

Racconti del post-terremoto

Più di centomila persone si accamparono all’aperto a San Francisco nei giorni e nelle settimane successivi al terremoto. Nei primissimi giorni le persone si presero cura le une delle altre e i metodi e le reti che svilupparono continuarono a essere utili anche dopo l’arrivo della Croce Rossa e delle altre organizzazioni di soccorso.
Rebecca Solnit

Un animalista perlustra le vie del centro storico dell’Aquila alla ricerca di gatti dispersi, una professoressa di biochimica scrive un libro in un camper per contribuire alla ricostruzione dell’università, una compagnia di teatranti gira per le tendopoli distribuendo nasi da clown, un gruppo di amici legati a un circolo culturale riempie un autobus di libri, un comitato di associazioni cerca i migranti nei campi per aiutarli a difendere i loro diritti, una docente decide di insegnare l’italiano e di imparare il punjabi e il cinese.

Che cosa hanno in comune queste storie di volontari aquilani? Subito dopo le scosse, nella scia della devastazione, i cittadini hanno reagito prontamente all’emergenza, arrampicandosi sulle rovine e scavando tra le macerie alla ricerca dei dispersi, raggiungendo i reparti pericolanti dell’ospedale per aiutare a evacuarlo, accogliendo familiari, amici e vicini nelle automobili e nei camper non danneggiati dal sisma. Nei giorni successivi, quando la gravità della catastrofe si è manifestata con il suo lungo elenco di vittime e con le immagini di città e paesi dal volto irriconoscibile, queste stesse persone hanno cominciato a ricostruire la loro città, non quella fatta di pietre e mattoni, ma quella dei rapporti umani e sociali.

[…]

Il mio terremoto

Quando mi arriva la telefonata sono sulla porta. “Hai saputo che cosa è successo alla tua Aquila?” Dice proprio così mio suocero, “la mia Aquila”. Improvvisamente mi vengono in mente le chiacchierate su Facebook con Raffaella, le sue preoccupazioni, le sue notti passate senza chiudere occhio in quei mesi di scosse leggere ma continue, una lenta ed estenuante preparazione al disastro. “È stata una scossa forte?” chiedo. “La città è devastata” è la risposta. È il 6 aprile 2009, nella notte una scossa superiore al sesto grado della scala Richter ha colpito la città. Mi precipito allo studio.

Penso ai ragazzi del Master in traduzione e redazione tecnica dell’Aquila, penso in particolare a quelli di loro che abitano all’Aquila: Enzo, Antonella, Fabio, Gabriella, Fausta, Marta, Marina, Nico, Silvia, Annarita e Raffaella che vive in centro. La prima che chiamo è lei. Finalmente riesco a prendere la linea, non è facile comunicare con i cellulari della zona colpita dal terremoto. La voce di Raffaella è apparentemente tranquilla, sta bene, mi racconta che non ha dormito a casa dei genitori ma in quella di Mauro, il suo ragazzo. La casa ha retto alla scossa, lunga e disastrosa, delle tre e trentadue di notte, ma il centro dell’Aquila è completamente distrutto. La casa della sua famiglia è un cumulo di macerie, i suoi genitori e le sorelle più piccole sono riuscite miracolosamente a salvarsi. Mi racconta: “Quando è arrivata la scossa ero già vestita, da un po’ di giorni dormivo in tuta. Le porte erano bloccate dai mobili caduti a terra e mi sono affacciata alla finestra per cercare una via di fuga. Allora ho visto il polverone che veniva dal centro, sentivo la gente che urlava nel quartiere e ho capito la gravità di quello che era successo. C’è voluta mezz’ora per riuscire a parlare con la mia famiglia. Mia madre mi ha detto subito: ‘Non abbiamo più la casa’”. La sua famiglia sta bene ma non si hanno notizie di sua cugina e della sua famiglia. Poche ore dopo si scoprirà che sono tutti rimasti uccisi nel crollo della loro casa: Giovanna, incinta del secondo figlio che doveva nascere proprio in quelle ore, il marito Luigi e il piccolo Francesco di due anni. Alla fine le vittime del terremoto saranno 307, tra cui decine di studenti dell’università aquilana, 1500 i feriti e decine di migliaia gli sfollati.

Pochi giorni dopo il disastro mi arriva una mail di Rebecca Solnit. Sto aspettando da qualche mese di leggere il suo nuovo libro. “Sono felice di sapere che tutti i tuoi studenti sono sopravvissuti… Sono curiosa di sapere in che modo si presenta un disastro in Italia, dove la cultura è più forte e profonda. Ho visto luoghi in cui la vita quotidiana è un altro genere di disastro, un disastro fatto di alienazione e isolamento e ho scoperto che persino un disastro può trasformare questo stato di cose, grazie a quel senso di immediatezza, di solidarietà e di partecipazione che tanto spesso appare in queste occasioni…”

Nei giorni successivi inizio a tradurre le prime pagine di A paradise built in hell e scopro di essere anch’io incuriosito da quel fermento di altruismo, generosità e impegno che ritrovo continuamente nei racconti dei miei allievi e amici aquilani che vivono nelle tendopoli. “Le persone sanno cosa fare quando c’è un disastro” scrive Rebecca nel suo libro, riferendosi alle “straordinarie comunità” auto-organizzate che sorgono quando lo status quo viene scosso da un evento tragico come un terremoto, un’alluvione o la guerra.
Nasce così l’idea di scrivere questa storia delle prime settimane di vita della comunità aquilana dopo il terremoto, ascoltando le piccole storie dei cittadini – e della società civile in genere – che hanno riconquistato, spesso con gioia e con orgoglio, la consapevolezza del proprio ruolo nella vita sociale, impegnandosi con passione e in prima persona per la ricostruzione della propria città.

[…]

Abbracciare il disastro

Il disastro causa una sorta di choc sociale che interrompe
le modalità di comportamento abituali e istituzionalizzate
e rende le persone disponibili alla trasformazione sociale e personale.

In un illuminante articolo sulle opportunità che un disastro offre alla società civile per affrontare in modo autonomo e creativo le sfide dell’emergenza, del ripristino e della ricostruzione, Harry Cleaver racconta il modo in cui la popolazione di un barrio di Città del Messico riuscì ad affrontare, nell’immediato post-terremoto, l’enorme sfida rappresentata dalla mancanza di case (oltre che di elementari servizi igienici, come un adeguato sistema fognario). Resistendo con straordinaria determinazione e immaginazione al tentativo delle autorità centrali di decidere le loro sorti, gli abitanti di Tepito riuscirono così a costruire, insieme ad altre realtà locali colpite dal sisma, una rete autonoma che contribuì a far circolare informazioni, talenti e risorse, la cosiddetta Red Intercultural de Acción Autonoma.
L’articolo, scritto due anni dopo il sisma, pur sottolineando la natura affatto speciale di questo barrio messicano, la sua lunga storia di auto-organizzazione e di orgogliosa indipendenza dalle istituzioni centrali, ha alcune lezioni importanti da offrire “non solo sugli usi di un terremoto, ma sull’uso delle crisi più in generale. Ogni crisi prevede un cambiamento e offre opportunità di movimento in nuove direzioni. Le crisi non devono essere temute o “risolte”, ma andrebbero piuttosto abbracciate, esplorando le opportunità che presentano. Dobbiamo sempre essere pronti a sfruttare qualsiasi frattura o rottura nelle strutture di potere che ci limitano e solo coloro i quali ne godono i benefici devono temere tali fratture. Per il resto di noi, sono aperture attraverso le quali possiamo ottenere una maggiore libertà.”

Nelle storie di solidarietà che ho raccontato in queste pagine i cittadini dell’Aquila hanno iniziato fin da subito a esplorare le opportunità offerte dalla tragedia del sisma, tentando di raggiungere, attraverso le fratture causate dal terremoto, nuove conquiste civili e democratiche per la società aquilana. È presto per capire in che modo questi progetti solidali del post-terremoto potranno contribuire alla rinascita e alla crescita sociale della città, ma certamente ci vorrà del tempo per scoprire quali saranno i frutti di questi “semi impercettibili”.

Attraverso il loro lavoro di cura per gli animali rimasti intrappolati nel centro storico, Sandro e i volontari dell’Azione veterinaria, insieme alle istituzioni coinvolte, hanno avviato un processo che potrebbe migliorare il benessere degli animali nella provincia e nella regione, contribuendo ad affrontare la piaga storica del randagismo.
L’impegno di Giusi e dei suoi studenti per ottenere alloggi universitari di qualità potrebbe essere una prima risposta della società civile per trasformare la situazione abitativa precedente al terremoto: case private e alloggi pubblici fatiscenti, contratti in nero, affitti a costi elevati.
Dall’esperienza creativa di Cecilia e degli Artisti Aquilani, dall’autobus di Ciro e dei suoi amici del Querencia potrebbero nascere progetti per dare una casa anche alle realtà artistiche e culturali della città, superando vecchie fratture e incomprensioni.
La piccola scuola interculturale di Palma e l’impegno della rete “Insieme per ricostruire” hanno permesso di dare visibilità alla presenza dei migranti sul territorio aquilano, avviando una attenta analisi dei loro bisogni e delle loro difficoltà, in un contesto di crisi che ha decisamente aggravato una situazione già difficile nell’attuale panorama nazionale, caratterizzato da leggi e atteggiamenti xenofobi e razzisti. Il loro lavoro potrebbe contribuire a costruire un nuovo tessuto sociale meno frammentato, più attento alle differenze culturali, più disposto al dialogo, più curioso dell’altro.

La società civile aquilana, come avviene in tante parti del mondo, sta rivoluzionando il modo di fare politica, e spesso è riuscita persino a rivoluzionare il concetto stesso di rivoluzione. I piccoli gesti d’amore dei volontari aquilani che ho incontrato in queste pagine sono grandi rivoluzioni sociali a cui dovremmo tutti dare maggiore attenzione, perché ci parlano anche del nostro possibile futuro.

Il sistema dominante intorno a noi è basato sulla paura gli uni degli altri e sulla scarsità e ha creato maggiore scarsità e maggiori paure. Questo sistema viene mitigato ogni giorno dall’altruismo, dal mutuo soccorso e dalla solidarietà, dalle azioni di singoli e organizzazioni che sono motivati dalla speranza e dall’amore piuttosto che dalla paura.
Rebecca Solnit




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