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Il grande crash

Tags: mio amico

Il grande crash

Iannozzi Giuseppe

Dark Angel – by Valeria Chatterly Rosenkreutz

Dark Angel by Chatterly – http://chatterly.deviantart.com

Bianche pareti. Luci al neon. L’odore dell’alcol e dei medicinali invade le nari: stordimento.
Cuore di tenebra, muore la morte nel profondo bianco ospedaliero che tutto avvolge.
L’intorno è un girotondo di infermieri e dottori, fantasmi abituati a vagolare frettolosi nei corridoi dell’ospedale.
La morte è in ogni sospiro e urlo.
I fantasmi hanno un cuore di tenebra.
Indistinta è la memoria di quel che fu e mai più sarà.

Fugge la vita come acqua raccolta nei palmi delle mani.
E si specchia la morte negli occhi di tutti, ammalati, parenti, pretini e suore, volontari.
E’ il bianco il lato oscuro dell’anima che fugge dalla mortalità del corpo.

Troppo giovane per riconoscere la verità.
Chissà cosa avevo immaginato quando nacqui! Probabilmente il niente corrotto da un urlo.
La morta vita in me era la promessa esistenziale che sempre sarei stato eterno… nella morte. O nella vita.
Amici andati, donne amate e perdute, sogni infranti in un batter di ciglia, incubi irrisolti, mai nessun debito con la vita, tranne il rimpianto di non aver mai vissuto la morta vita fino in fondo, fino alle sue estreme conseguenze. No, neanche questo rimpianto m’appartiene. E’ solo in forse.

Un camice bianco incontra il mio corpo: è un attimo, un incontro ravvicinato, forse uno scambio di ruoli. E io sono solo un visitatore, uno che ci è finito per caso in questo posto di merda.

La macchina correva veloce lungo le strade di negro asfalto…
…veloce come il cuore seppellito dentro al petto.
Troppo.
Nello specchietto retrovisore vedevo mille altri simulacri tutti uguali al mio Io.
Vedevo copie di uomini che non sapevano d’esser già fantasmi di quella cosa che si ostinano a chiamare umanità.
Ma io non ho un Io definito.
Tutti avevano fretta. E io pure.
Tutti inseguivamo la stessa meta: il niente.
L’autoradio grattava fuori la musica:

we dismiss/ the back roads/ ride these streets unafraid/ resigned to scarping paint/ from our bones/ unashamed/ no more the eye upon you/ no more the simple man/ desolation yes/ hesitation no/ desolation yes/ hesitation no as you might have guessed/ all is never shown

Il piede premuto sull’acceleratore.
Non me ne fregava un cazzo.
Ma non era completamente vero.

Morire non è facile: assomiglia troppo al vivere che impone all’esistenza almeno un tentativo di andare OLTRE.
Oltre che cosa?
Semplicemente OLTRE.
Nelle orecchie la radio mi vomitava dentro parole su parole:

desolation yes/ hesitation no/ and in my prayers/ i dream alone/ a silent speech/ to deaf ears…

Non ho mai capito il senso di questo nostro inutile vivere. O forse l’ho capito e l’ho rinnegato.
Ho baciato una ragazza, poi un’altra. E nella loro anima ogni volta sono morto e risorto nel niente.
Ho avuto amici, qualche nemico. Non li ricordo più. La mia mente li riconosce come fantasmi e, ahimè, sono loro la mia coscienza.
Esitare la prima volta: troppo imbarazzato per dirle che ero vergine, che non l’avevo ancora fatto. Lei doveva averlo capito. Ma è finita anche con lei & dentro all’anima di lei è rimasta la mia verginità a imputridire  come cadavere.
Non ha capito che, mentre scopavamo, io non c’ero. Non c’ero come avrei voluto io & la mia verginità l’ha fatta sua, la troietta. S’è presa gioco di me. Aveva capito tutto sin dall’inizio. Ha scopato la mia anima o quella cosa che qualcuno la dice così. Io solo volevo che il mio corpo scopasse il suo corpo, punto e basta. Non ci sono riuscito. Sono uscito sconfitto dal suo letto.
Il primo pugno mi ha fatto sanguinare il naso: il sapore del sangue mi ha impastato il cervello in una deliziosa vertigine di dolore. Un assaggio della morte. O della vita.
Ho sempre amato menar le mani. Pestare la gente mi ha sempre dato soddisfazione. Le ho date soprattutto a chi niente aveva contro di me. Non ho mai potuto sopportare quel loro sguardo vuoto, specchio della borghese ipocrisia: chi troppo tace troppo dice nel silenzio delle occhiate lanciate e subito perse nel vuoto raccolto in me.
La velocità è tanto, tanto simile al niente.
Ero convinto che essa fosse tutto quello che desideravo, ma in realtà solo desideravo un posto dove riposare immobile. Desideravo il grande crash.
Troppo giovane per morire, troppo giovane per continuare a vivere. E vivere nella morte doveva essere uno sballo.
Non ho mai indagato troppo a fondo le mie contraddizioni.
La vita e la morte sono nate con me, sono uscite dallo stesso materno grembo.
Ricordo la nonna seduta su una vecchia sedia: se ne stava raccolta in sé, il corpo era la sua tomba… continuava a morire accanto a un fuoco di braci semispente. Gomitoli di lana nera in grembo e un sorriso sdentato… & gli occhi ciechi indagavano l’ambiente e incontravano le tenebre dove amavo nascondermi.
Ricordo mio padre, un uomo timorato di Dio, e mia madre, una donna piccina troppo uguale a tante altre. L’eco dei loro amplessi, prima che io nascessi, è dentro di me come una preghiera e una bestemmia. & l’urlo di mia madre nel mettermi al mondo ha straziato l’anima mia. Chi di noi ha sofferto di più? La carne è stata sempre l’anima in cui ho nutrito fede & che, giorno dopo giorno, ho bestemmiato.
Una questione di identità irrisolta?
Non sono mai riuscito a spiegarmelo.
Quello che so è che non so mai veramente chi sono, cosa faccio, dove sono. Non è poi stato molto importante per me saper queste cose. Sono cose umane, forse materiali, sicuramente saldate alla carne di cui siamo fatti. Anche la carne è però illusione. A volte mi sono interrogato perché fatto prigioniero dalla noia, e le risposte non mi hanno mai completamente soddisfatto: sempre e solo un guazzabuglio di contraddizioni. Ed io non ho mai desiderato debiti con la vita, quindi mi sono risolto ad abbandonare la ricerca, il tentare di trovare risposte… cliché.
La prima pera me la son fatta proprio bene: è stato come morire, e in realtà ero vivo. Un autentico sballo. Quando mia madre ha scoperto che mi facevo è scoppiata in lacrime. E’ stato ancora più bello della pera, un vero orgasmo.
Ho cominciato a ragionare a modo mio, cioè ho smesso proprio di pensare.
I fantasmi hanno cominciato a pensare per me.
Loro sono dentro di me, sono la mia coscienza, l’unica di cui mi fidi, l’unica di cui vada fiero.
Le altre coscienze, quelle che ogni tanto affiorano da un recesso oscuro dentro di me e che rifiuto di riconoscere, sono inutili: mi suggeriscono che ho perso il senso della ragione, ma non è vero. Ho ragione di credere che sono il residuo bastardo di una cultura innestata con la forza quando ero ancora bambino & nulla sapevo se non quello che mi veniva propinato da squadroni di insegnanti del cazzo.
Non posso credere ai suggerimenti di queste coscienze patinate.
I fantasmi mi scopano ogni attimo che vivo e muoio, & scacciano via le tentazioni suggeritemi dalle coscienze di quando ero innocente. La vita & la morte appartengono al vivere, questo so. Non mi occorre sapere di più.
Premo sull’acceleratore e alzo il volume dell’autoradio:

desolation yes/ hesitation no/ before the rites of spring/ come to mean all things/ a little taste/ of what may come a mere glimpse of what has gone/ cause for the moment we are free/ we seek to bind our release too young to die/ to rich to care/ too fucked to swear that I was there

La strada correva con me. Continua a correre dentro di me.
Sono un cadavere con mille fantasmi alle calcagna.
Fantasmi: i miei simulacri.
Correre, solo questo importa.
Correre fino a raggiungere la velocità limite che arresta per sempre un corpo in movimento.
…un posto dove riposare.

Corridoi bianchi come sudari.
La gente ha fretta: lacrime, urla, bestemmie & preghiere si confondono in una sola voce, in un urlo.
In questo posto di merda, io sono solo un visitatore, uno di passaggio.
Quell’infermiera è carina: mi piacerebbe che mi staccasse un pompino invece di cacciarmi in bocca quel tubo del cazzo.
Lei pensa che io non possa vederla, ma io vedo ogni cosa animata e diversamente.
Io vedo i fantasmi che fanno ressa intorno al mio corpo. E dentro.
Li vedo, li vedo, li vedo e sono con loro. Dalla loro parte.
Ma non sono ancora fermo: la mia corsa non si è ancora spenta.
Sento la turgidezza del pene devastarmi. Tu, Re Lucertola, sai di cosa sto parlando!
Sento dilatarsi il mio sesso & non una puttana che mi stacchi un maledetto pompino.
La mia corsa non è ancora esplosa in una polluzione di vita sposata alla morte.

Sono arrivato subito: il neurochirurgo ha crollato il capo. E ho capito: il mio amico non ce l’avrebbe fatta.
Non ho mai creduto ai miracoli improvvisati: il coma profondo sarebbe stato la bara del mio amico. Ne ero perfettamente cosciente.
Non mi hanno permesso di vederlo. Intorno a me vedevo le pareti bianche della struttura ospedaliera e ho immaginato il mio amico ancora vivo, ho rivisto i suoi occhi, quelli che sapevano percepire tutte le sfumature dei colori. Lui era un tipo strano: ogni volta che si usciva insieme amava ricordarmi che lui non era mai stato mai veramente vivo & che neanche io ero vivo. Diceva che ero un simulacro, ma a volte si contraddiceva e guardava a me come a una proiezione della sua mente, o a una sorta di fantasma.
Una volta mi ha pure confessato che vita & morte erano nate con lui & che doveva esistere un “oltre”. Io non capivo e credo di non capire ancora adesso. Penso che intendesse dire che la vita & la morte sono solamente quel che sono, un metro umano per definire l’esistenza. Ma non posso esserne certo. Parlava spesso di simulacri: diceva che gli uomini sono tutte copie di se stessi, e questa sua paranoia, ben presto, ha finito con l’essere integrata da un’altra. Simulacri fantasmi. Finì col considerare gli uomini come fantasmi di simulacri: il mondo che percepiva era dominio di fantasmi di cose, insomma!, un simulacro,  una cosa volgare che l’uomo avrebbe prodotto per assumere in sé la sua immagine adamitica. Sia chiaro: il mio amico non ha mai creduto in niente, non era un fanatico religioso. Per lui, la vita era, punto e basta. L’inizio della vita era l’inizio della morte, forse solo in questo credeva. E nel corpo umano, forse. Nella carne. E’ materialismo questo?
E’ passata una settimana e sono seduto di fronte a lui intubato.
E’ uguale a come quando era con me. Ma è lontano, troppo lontano per recuperarlo da se stesso. E io nulla posso.
Fisso il suo volto, ed è come se non ne avesse uno.
Ho avuto la tentazione di accarezzarlo, non l’ho fatto: lui non avrebbe gradito.
Io lo dico morto, ma lui, la cosa inanimata che è diventato, non sarebbe d’accordo se avesse una coscienza. Forse mi sbaglio. Il corpo mi suggerisce inquietudine. Sono io che sono in grado di percepire lui o piuttosto è lui ridotto a cosa che vede in me il fantasma di una cosa?
Ci sono momenti in cui credo che i nostri ruoli si confondano in un unico Atman: io divento la cosa nel letto e lui prende possesso di me. Altre volte ancora ho l’impressione che i nostri ruoli si capovolgano per tentare di raggiungere qualcosa di nuovo, quell’OLTRE di cui il mio amico favoleggiava.

Quanto tempo è passato?
Non saprei dire. Ma non me ne frega un cazzo. Quella troietta che… non fosse che sono ma non sono, allora sarebbe tutto diverso.
La corsa è stata interrotta, io però sento di correre fiancheggiato da una quieta immobilità.
Tutto questo non ha senso & non ne ha mai avuto uno se non per me!

Il fatto è che non abbiamo futuro. Dico abbiamo perché Io non sono semplicemente un’entità singola, sono un contenitore di fantasmi e di simulacri di fantasmi. Non credo in niente se non in quell’OLTRE che mi sforzo di raggiungere. Non conosco la strada che mi condurrà… in fondo, nessun artista sa veramente come riesce a raggiungere la quintessenza dell’arte. Raggiungere l’OLTRE è la mèta finale & forse neanche questo. C’è ancora troppo da fare perché un uomo possa chiamarsi uomo. Le mete, una volta raggiunte, valgono meno di niente. Vale solo l’ostinazione che ci (mi) spinge a raggiungerle. So che quando raggiungerò quell’oltredove dove riposare, la quiete sarà per me breve e subito la smania mi condannerà a far di più. E’ assurdo… Sono tre infiniti puntini di sospensione per una Morte a credito!
La vedo quella puttanella da quattro soldi che mi solletica. Il dolore è vederla e sapere che non farà mai niente d’interessante per me. Forse! Sta diventando una specie d’ossessione: posso sentire il profumo della sua carne e l’amaro della sua ferita fra le gambe. La figa è la sua bocca, rossa, rossa come il sangue, come la vita, come la morte: non mi sembra di chiedere poi troppo, solo un pompino prima di andare OLTRE. Questo stato comatoso mi sta mettendo in testa strane idee: prima non ero attaccato alla vita, la disprezzavo; invece ora mi vedo costretto ad ammettere che credo in qualcosa, anche se non so spiegarmi. La morte & la vita, che con me sono nate, stanno morendo, mentre io sto rinascendo, così mi sembra… Ma non nell’oltredove che mi ero immaginato. Che si tratti di attaccamento alla vita? No, non può essere. E’ solo carnalità, dev’essere così. Il sesso s’inturgidisce giorno dopo giorno e mi fa star male, in maniera orrenda. Ho la netta sensazione che qualcosa accadrà: non posso sopportare ulteriormente la tortura di questa puttanella che mi stuzzica e si fa beffe di me. Sento la sua vocina, la sua risatina chioccia che… Sa che non mi risveglierò mai. Questo lei lo sa bene. Deve aver notato che sono arrapato & allora crede d’aver il diritto di ridere di me. Cazzo! Non oserebbe se fossi sveglio: la prenderei, la farei mia, vomiterei nella sua figa il mio seme e lei sarebbe mia, lei darebbe alla luce una parte di me. Un figlio. Un fottuto figlio pazzo e con tutte le rotelle fuori posto… sì, uguale al padre. Con le rotelle fuori posto, è così che si dice… quando uno è un po’ strano, nel senso che aspira a qualcosa di più che non sia la solita finta vita costretta tra le mura domestiche & un lavoro per tutta l’esistenza…. & poi dire, in ultimo, un piccolo conto in banca per la vecchiaia, una pensione & tutto il resto del tempo per sé. Un figlio… è desiderio. E’ l’istinto di procreazione a non farmi andare oltre e raggiungere così quell’oltredove che è mio.

E’ passato tanto tempo: i genitori sono venuti a trovare più volte il mio amico, il loro unico figlio. Hanno pianto a lungo e poi si sono rassegnati. Succede sempre così in questi casi. Alla fine hanno smesso di venire, perché gli faceva troppo male veder il frutto del loro amore ridotto a un vegetale. Le visite sono terminate. Il mio amico non ha mai avuto molti amici a parte me e qualche ‘occasionale’.  E io solo mi ostino a venir tra queste pareti bianche a osservare il suo corpo-vegetale. Non spero in un miracolo. Ma so che è mio preciso dovere assistere questo corpo che un tempo parlava con me. & ogni tanto riusciva pure a dire qualcosa di sensato e di allegro. Accadeva raramente che dalla sua bocca nascesse una battuta o un qualsiasi apprezzamento nei confronti del mondo. Soprattutto negli ultimi anni si  era chiuso in sé, perché suppongo si stesse preparando per il viaggio. Ma ora che il suo corpo staziona tra queste mute pareti… Ma ora che  il suo spirito è un fantasma o il simulacro di un fantasma sospeso in un limbo che non so spiegare, mi domando se valeva veramente la pena soffrire così tanto senza mai confessarlo a nessuno. Sì, io penso che il mio amico soffrisse e che mai ne abbia fatto parola . Ho maturato questa convinzione nel corso dei pellegrinaggi qui in ospedale. Che il suo dirsi nato morto fosse un modo come un altro per far capire al mondo che lui esisteva… che voleva essere accettato? Me lo chiedo spesso quando la notte si fa profonda e gli occhi non riescono a spegnersi per lasciar libera la mente & l’anima di abbandonarsi per qualche ora all’ oblio ristoratore. E ancor più spesso mi domando se il mio amico abbia mai pensato a se stesso come a una specie di rivoluzionario in incognito, di quelli che non vogliono né medaglie né riconoscimenti ufficiali per il semplice fatto d’appartenere alla specie umana.  Posso solo dire, con tutta certezza, che non ha mai fatto pensare a nessuno di amare l’umanità. Credo di riuscire a capirlo molto di più ora che è ridotto a un corpo che non quando era un ragazzo come me. Temo che anche lui avesse dei sogni semplici, di quelli che fanno sperare di metter su una famiglia e magari avere dei figli a cui insegnare le proprie esperienze. Forse, il mio amico era un borghese & allo stesso tempo un rivoluzionario in incognito: se ciò fosse vero, si spiegherebbero mille contraddizioni circa l’opinione che lui aveva di se stesso, & anche molte delle mie che non sono poi tanto dissimili dalle sue. Non so come ci sia riuscito, ma questo amico è riuscito a far di me il suo fantasma e simulacro. Mi ha giocato un colpo gobbo & io non ho avuto la presenza di spirito per rendermene conto in tempo utile e gridare ‘Basta!’. E’ troppo tardi adesso per tornare indietro. Se il suo corpo è condannato a essere un corpo-vegetale per un tempo indefinito, io devo sopportare il pondo di venire qui in ospedale & restare seduto accanto al suo letto a osservarlo per cercare di comprendere me stesso e anche lui. Non è più come prima: il corpo è stranamente più vivo rispetto a quando lo portarono in questa tomba per la rianimazione. Noto una sgradevole turgidezza del suo sesso, abnorme cosa da cui non riesco a distogliere lo sguardo. Anche la giovane infermiera, che si prende cura del corpo del mio amico, non può fare a meno di sorridere di fronte a questo fenomeno; una volta, mentre lo puliva, l’ho sorpresa che arrossiva sorridendo con malizia. Lei non è una cavallona, ma non è neanche una santarellina: glielo si legge in faccia che gradirebbe se fosse possibile. Che sia la sua presenza a non permettere al corpo del mio amico di spegnersi del tutto e finalmente raccogliersi nella putrefazione della morte?
Un altro giorno ho notato che il volto del mio amico, seppur disteso nell’incoscienza, era stato investito da un barlume di luce. Il volto da cinereo che era, per un momento solo, aveva ripreso un colorito sanguigno. Poi si è spento. Mi sono girato, e ho scoperto che lei, l’infermiera, era entrata nella stanza per accudire quel corpo-vegetale.
I fantasmi hanno un cuore di tenebra & indistinta è la memoria di quel che fu e mai più sarà.
Ma non è detto.
Non esistono certezze a questo mondo o in quello che noi ci figuriamo con la forza dell’immaginazione.
Qualcosa sta cambiando. O forse è già cambiato.
E’ già cambiato tutto. I dadi del destino sono impazziti & l’immaginazione non è nemmeno più frutto della nostra mente che nel mare dell’irrazionalità affoga.

Io non ho un Io definito.
Tutti avevano fretta. E io pure.
Tutti inseguivamo la stessa meta: il niente.
No, io non avevo un Io definito. Adesso, adesso i fantasmi e i loro simulacri non mi corteggiano più da vicino, anzi par quasi che nutrano un certo ribrezzo nei miei confronti. D’un tratto gli sono diventato inviso & questo proprio non me l’aspettavo. Ancora riesco a sentire che tutti inseguono il niente, ma io sono stato lasciato indietro, o forse ho lasciato che si staccassero da me. Sono ancora reali e al tempo stesso indefiniti: non ho idea di come si possa descrivere una massa di fantasmi che se ne stanno in disparte & attimo dopo attimo diventano sempre più indistinti. Per loro natura, i fantasmi sono vaghi, e quando sono lontani, la vaghezza della loro natura è tale che sarebbe impossibile descriverla con la sola forza dell’immaginazione. L’immaginazione non mi appartiene più, comunque non del tutto, & non è più quella di quando correvo e la strada asfaltata mi guidava verso la mèta.

Lo so che morire non è facile, ché troppo assomiglia al vivere che impone all’esistenza almeno un tentativo di andare OLTRE.
Oltre che cosa?
Semplicemente OLTRE.
Ma adesso che l’immaginazione fa i capricci ed è come se non fossi mai nato neanche nel territorio del nulla, sento di essere più reale. Quando ero vivo e stavo con gli altri la mia immaginazione mi suggeriva che il mondo che vivevo non poteva essere reale. Era mio uso dire ‘semplicemente OLTRE’: ora tutto questo un senso non ce l’ha più. Comunque non è più forte come prima il senso d’appartenenza all’OLTRE. L’immaginazione si è come ristretta & la realtà si è contratta & si sono fuse in un pasticcio orgiastico & il mio sesso vuole eruttare il seme e vivere al mio posto quella vita che io non sono stato capace di accettare. Se anche fosse possibile che abbia un figlio, questi sarebbe pazzo come me? Pazzo, perché l’opinione pubblica a me non mi ha mai digerito molto & sempre mi ha indicato pazzo, perché incapace di trovare altra definizione per… Ah, non chiedetemi per quale motivo, perché non sono in grado di… di spiegare: troppo giovane per morire, troppo giovane per continuare a vivere, ma vivere nella morte doveva essere uno sballo. Altro non sapevo.

Anche oggi ho notato un colorito sanguigno sul volto di questo corpo che osservo.  Troppo presto si è spento. Comincio davvero ad essere stanco di questa situazione che mi vede coinvolto nel ruolo di fantasma e simulacro del mio amico.

L’eco dei loro amplessi prima che io nascessi è dentro di me come una preghiera & l’urlo di mia madre nel mettermi al mondo ha straziato la mia anima.
Voglio rinascere morendo.
Voglio ingravidare una donna.
Voglio fare quello che mio padre fece a mia madre per capire cosa si prova ad amare… O forse ad odiare con tutta la forza della carne.
Amare & Odiare sono la stessa cosa. In questo credo. Qualcuno dice che siano facce di una stessa medaglia. Io credo che siano una sola identità prigioniera d’una medaglia con una sola faccia, vale a dire che identità e faccia sono la stessa precisa identica cosa.
Nel venire al mondo, chi ha sofferto di più? io o mia madre? Io sono nato & ho urlato. Mia madre mi ha sganciato dal suo corpo & ha urlato. Era felice mia madre? di me o delle sue urla? Urlando avrà ricordato l’eco dell’orgasmo con mio padre? Possibile che io sia stato il frutto di un URLO prolungato dall’Orgasmo al Parto, lo stesso muto URLO che mi sarei portato dentro per farne il mio futuro? la vita? Non lo escludo.
La carne è sempre stata l’anima in cui ho nutrito fede & che ho bestemmiato giorno dopo giorno.
E’ una questione di identità irrisolta? Di contraddizioni esistenzialistiche?
Chi se ne fotte! Vorrei solo che lo scettro dell’identità irrisolta passasse a mio figlio e che lui si smazzasse la… perché no?, la vita. Sì, la vita.
Un figlio… Un figlio… Un figlio…
E’ impossibile avere un figlio o un surrogato nelle mie condizioni?

L’infermiera è venuta anche oggi: ha uno strano sorriso dipinto sul fior delle labbra, un sorriso che sa di lascivia. Mi fissa con curiosità come…
Faccio per andarmene, ma lei m’incolla alla sedia su cui sono seduto con un’occhiata che non ammette repliche.
Il sesso del mio amico è turgido: è ben visibile sotto le lenzuola. La sua rigidezza è vistosa: sembra un bastone avvolto da un sudario.
Lei si avvicina al corpo, strappa via il lenzuolo tanto simile a una veronica & prima che abbia tempo di capire, la vedo sopra di lui: la bocca cavernosa ha inghiottito per buona metà il sesso di quel corpo inanimato. Glielo sta succhiando con avidità. Il corpo del mio amico accusa uno spasmo che si riflette nella mia anima.
Eiacula.
E lei inghiotte.
Inghiotte me.
Capisco d’esser dentro il corpo del mio amico & sono vivo.
Sento l’amaro sapore della sua figa salirmi alle nari.
Si sfila le mutandine, si alza la gonna e il mio pene è dentro di lei.
I seni ballano allegri davanti alla mia faccia & una catenina a cui è legato un Crocifisso mi s’infila in bocca, in mezzo ai denti.
Stringo il Crocifisso fra i denti con ferocia belluina fino a farmi sanguinare le gengive.
Il pene dentro la sua figa esplode e la riempie del prezioso seme.
Lei orgasma & IO con lei in perfetta sincronia.
La ferita fra le gambe di lei è medicata dal seme. La sua figa non è più una figa, qualcosa di cui aver paura, ma non è neanche più una ferita.
Lei non ha più sesso da quando il seme l’ha curata.
Adesso è un angelo che se ne va & io osservo l’angelo-donna scomparire dalla mia vita.
La turgidezza del pene di quel corpo che un tempo fu mio amico non è più viva.
Mi sento strano… Triste, come se fosse morto mio padre. Come se fossi finito per sbaglio nel letto di mia madre!

* * *

La gente pareva annoiata: si era in pochi e molti sbadigliavano e altri ancora ridevano sommessamente, nascondendo le bocche dietro accorti giochi di mani.
La pioggia pioveva pesante sul cimitero grigio & in lontananza l’eco di un’ambulanza faceva da colonna sonora al funerale del mio amico.
Un pretino nero, naso aquilino e occhiali troppo grandi per quel volto smunto – terribile maschera della natura -, con voce quasi allegra vomitava parole su parole nell’aria, che subito si seppellivano assorbite dalla terra marcia d’acqua.
Qualche volta ho l’impressione che l’infermiera, l’angelo o qualunque cosa fosse, sia stata il frutto della mia immaginazione. Ma sarebbe assurdo ed è per me assurdo anche solo tentare di spiegare. Il fatto è che non ho mai avuto molta fantasia & quando questa si è manifestata si è sempre contenuta entro limiti razionali e banali, per intenderci quelli del tipico coglione che al massimo sogna di sbattersi la segretaria o nel cesso o accomodata distesa sulla scrivania.

Eduxit autem eos foras in Bethaniam;
et elevatis manibus suis benedixit eis.
Et factum est, dum benediceret illis,
recessit ab eis, et ferebatur in caelum.
Et ipsi adorantes regressi sunt
in Ierusalem cum gaudio magno.
Et erant semper in templo,
laudantes e benedicentes Deum.

(Luca, 24, 50-53)

I fiati dei presenti si condensavano in fantasmi d’aria a contatto con l’aria fredda. Ci fu un attimo durante il quale tutti, o quasi, smisero di respirare. I pochi che comprendevano il latino erano rimasti scandalizzati: “Ma come osa? E la Chiesa permette che un prete dica certe cose…?”
Io ero non meno sconcertato: provai un senso di vergogna e indarno cercai di farmi piccolo piccolo, perché quelle parole, seppur pronunciate da un uomo di chiesa, erano come se le avessi gridate io.
La cerimonia riprese fra i bisbigli scandalizzati degli astanti e quando la bara fu calata nella fossa, tutti erano praticamente scomparsi ad eccezione del sottoscritto.
La pioggia continuava a battere impietosa sulla terra che subito l’assorbiva. La pioggia scivolava addosso a me come plasma alieno di un altro mondo, forse quello immaginato dal mio amico sepolto in due metri di terra. La lapide era ridicola e si confondeva in mezzo a tante altre uguali e grezze. Non avevo idea se il mio amico Paul avesse raggiunto la meta, l’OLTRE, un posto dove riposare un attimo appena. Strano a dirsi, ma in bocca sentivo il suo sapore: era una sensazione spiacevole e allo stesso tempo confortante. Che il sapore di Paul rimanesse indelebile dentro di me era almeno una piccola certezza che l’eternità esiste per quanto questa non è così piacevole come molti s’illudono che sia. Serbare memoria del dolore è il futuro & questo era ormai dentro di me & si sarebbe estinto solo con la mia dipartita. Il dolore & la memoria sono una questione privata, questo so.

Tentai di far ritorno a casa scontrandomi con mille corpi apparentemente vivi & vaganti fra le strade della città invasa dalla pioggia. Il cielo piangeva tutte le sue lacrime; non erano comunque mai abbastanza & le mie nelle gocce di pioggia si confondevano.
Mi ero detto che tutto era finito e che lo volessi accettare o no, io ero sopravvissuto e spettava a me conservare memoria di Paul, perché di più davvero non potevo fare. Solo quando la pioggia rischiò di affogarmi, mi resi conto di non avere un ombrello.
I corpi degli sconosciuti si abbattevano contro il mio & ebbi la netta sensazione che i loro volti erano stati cancellati, sostituiti da una maschera di nuda pelle. Più camminavo puntando verso casa, più mi allontanavo dalla mèta; per quanti sforzi facessi, sempre rimanevo inchiodato nei pressi del cimitero & gli sconosciuti continuavano a crescere di numero & si scontravano con il mio corpo quasi intendessero inghiottirlo nella loro massa.
Una voce si manifestò: non era né dentro né fuori di me. E’ a me impossibile specificare da quale dove provenisse, ma fatto sta che la udii. Prima indistinta, poi metallica, poi in parte umana: “Hai odiato ma non abbastanza! Hai amato ma non abbastanza! Questo è solo un  frammento del futuro che imparerai a creare…”
Aveva sapore di minaccia. Di Paul.

* * *

Stavo guidando a fari spenti lunga una strada buia, schizzavo a tutta birra: non sapevo perché, ma sentivo che dovevo accelerare per non farmi raggiungere da loro, dai simulacri dei fantasmi. E intanto la radio gracchiava musica e parole:

desolation yes/ hesitation no/ desolation yes/ hesitation no/ as you might have guessed/ we won’t make it home desolation yes/ hesitation no (*)

Non potevo fermarmi, dovevo continuare a sfrecciare lungo la strada & prepararmi a incontrarne mille altre uguali e tutte buie. Fermarsi avrebbe significato il suicidio & era l’ultima cosa che desideravo.
I fantasmi hanno un cuore di tenebra & il mio cuore è il loro.
Distinta è la memoria di quel che sarà.

(*) Age of innocence, lirica di Billy Corgan dall’album “Machina-The Machines of God”, The Smashing Pumpkins


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