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Raffaele La Capria – Alcune citazioni tratte dai suoi romanzi

Raffaele La Capria

Alcune citazioni tratte dai suoi romanzi

– Raffale La Capria – Opere – Meridiani Mondadori –

“La parte biografica è indispensabile, è richiesta. Benissimo, allora diciamo: Nato a Napoli nel 1922. E poi? Poi niente. Quando mai a uno scrittore italiano capitano nella vita cose ed eventi memorabili, da raccontare? lo non sono stato cercatore d’oro in Alaska come London, non ho dato la caccia alle balene come Melville, non ho attraversato un tifone con un veliero come Conrad, non ho venduto armi a un ras abissino come Rimbaud, non ho percorso a piedi la Patagonia o l’Australia come Chatwin… E allora? Cosa diciamo? Diciamo che gli scrittori italiani sono quasi tutti sedentari e casalinghi, e lo restano anche se viaggiano occasionalmente qua e là.
E così sono stato io. Nient’altro da aggiungere? Possibile che nella tua vita non ci sia proprio niente? Beh, ci sono tante cose, gli amori, gli affetti, i sentimenti, e anche qualche evento memorabile: ma per me, non per gli altri.
Gli altri devono contentarsi dei miei libri dove leggendo attentamente c’è anche qualcosa della mia vita.”
(da Autopresentazione, in Conversazione con Raffaele La Capria. Letteratura e sentimento del tempo – Edizioni Omicron 1995)

C’è una cosa che vorrebbe non cambiare? Forse sì. Vorrebbe che lo sguardo di sua figlia restasse sempre così com’è. E invece è la sola cosa che certamente cambierà. Lei imparerà a dire correttamente cìnema, a dire avevo, e tutto si staccherà da lei per diventare una parola, un nome. Imparerà a usare il condizionale, e non sarà il tempo di un verbo ma quello della separazione. Nei suoi occhi immuni di esperienza passerà l’ombra della consapevolezza, e anche lei forse vorrà cambiare tutto, a cominciare da se stessa. (da Amore e Psiche)

>La spigola, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro, avanza verso di lui e pare immobile, sospesa, come un reattore quando lo vedi sbucare ancora silenzioso nel cerchio tranquillo del mattino. L’occhio fisso, di celluloide, il rilievo delle squame, la testa corrucciata di una maschera cinese — è vicina, vicinissima, a tiro. La Grande Occasione. L’aletta dell’arpione fa da mirino sulla linea smagliante del fucile, lo sguardo segue un punto a destra delle branchie. Sta per tirare — sarà più di dieci chili, pensa — e la Cosa Temuta si ripete: una pigrizia maledetta che costringe il corpo a disobbedire, la vita che nel momento decisivo ti abbandona. Luccica lì, sul fondo di sabbia, la freccia inutile. La spigola passa lenta, come se lui non ci fosse, quasi potrebbe toccarla, e scompare in una zona d’ombra, nel buio degli scogli. Adesso sta inseguendo la Grande Occasione Mancata. Per lunghi oscuri corridoi sottomarini, ombre come alghe viola, e gelo in tutto il corpo. Man mano che si abitua a quel morto chiarore distingue le poltrone del salotto, il lungo tavolo di legno scuro, il paralume verde, il divano, la macchia di caffè sul cuscino giallo. La spigola dev’essere scomparsa in qualche angolo buio, dietro quel cassettone o nella stanza di là, sotto il letto dove lui ora sta dormendo. Ma non importa più, ormai ci siamo, eccola La Scena. Si ripresenta sempre identica: lo sguardo di Carla che splende come un mattino tutto luce in fondo al mare, e lei così vicina — anche il battito del cuore, è pazzesco! — vicina, con l’occhio marino aspettando. E poi offesa? stupita? incredula? prontamente disinvolta comunque, eccola di nuovo seduta sul letto pettinandosi, per sempre lontanissima, che tenta di superare l’imbarazzo. Lui la guarda mentre lei si pettina i capelli raccolti sulla nuca, bionda coda di cavallo oscillante — luminosi come sulla spiaggia nella notte di Capodanno! — lui senza vita e un sorriso umiliato che copre il desiderio di morire. E i ragazzi, t’immagini le facce? le risate? le chiacchiere, se sapessero. Lui, solo, con la Grande Occasione Mancata, e tutti i loro occhi aperti sulla Scena. (da Ferito a morte)

Del governo di Don Ramiro Guzman, duca di Medina Las Torres e Viceré di Napoli – anno 1644 mi pare – resta solo il palagio fabbricato da lui nella riviera di Posillipo, che chiamasi ancora Palazzo Medina, ora in gran parte ruinoso quasi che inabitabile e cadente. E questa, diciamo, sarebbe la Storia. Ora interviene il bradisismo: Sotto l’occhio ironico del sole, spregiatore di ogni umano pensiero, la qui dolcissima ma non per questo meno feroce Natura, nemica della Storia, inizia la sua opera paziente utilizzando per l’occasione una tecnica indicata appunto col nome di bradisismo e facente parte di quel piano, a lunghissima scadenza, che prevede l’annullamento totale di uomini e cose, e di tutto quello che la ragione umana ha costruito, cioè la Storia. E, nel caso particolare, di questo palazzo.(da Ferito a morte)

Un amico, di me più giovane, da Napoli mi scrive: “Noi che siamo nati dopo la guerra non abbiamo per Napoli nessuna inclinazione particolare. La viviamo come residenti che la conoscono a fondo, ma la sua sirena non ci addormenta né il suo canto ci toglie la pace. Tra la mia generazione e la tua, nei confronti di Napoli, c’è stata una rottura. Noi, credo, abbiamo saputo servirci della città senza lasciarci prendere da lei. Possiamo starvi lontano senza sentirci per questo esiliati. Insomma la mia generazione ha radici assai meno radicate, qui, che non la tua. Ci sentiamo omologati a un’umanità forse più anonima, ma anche meno chiusa su se stessa e le proprie abitudini. Non so dirti se è un bene o un male, ma dopotutto a Parigi a New York o a Londra è più difficile incontrare gente così profondamente legata al proprio ‘topos’ e che lo scomoda con tanta frequenza. (da L’armonia perduta)

Dove l’avrà trovata Enrico quella distinzione tra uomini e personaggi? In una lettera scritta da qualcuno non si sa bene a chi, nel ’43, e capitata per caso nelle sue mani. Ma forse l’aveva inventata là per là, apposta per ferirmi. Gli uomini, a suo avviso, meritevoli di rispetto, i personaggi invece proprio per niente. E io che c’ero cascato: A quale categoria appartenevo, secondo lui? Sarebbe stato meglio non domandarglielo, lo avevo previsto, ero un personaggio, uno spregevole personaggio. E perché? Ci aveva pensato: perché inciampi ogni momento nell’idea che ti sei fatta di te stesso, non sei… genuino, capisci?  (da Un giorno d’impazienza)

Qui avevo più volte soggiornato nel tempo della giovinezza, conoscevo tutta la costa da Amalfi a Positano e Nerano, insenatura per insenatura tutta l’avevo esplorata sopra e sott’acqua. Sì, le linee del paesaggio erano ancora quelle, e quelle le balze i picchi le rocce inabissate nell’azzurro. Sì, era tutto là, davanti a me, il colore del mare visto dall’alto era sempre d’un blu ceramica, duro compatto e luccicante, e dalle curve della strada si godeva sempre lo stesso fantastico colpo di scena. E però dov’era l’incanto? […] Era come se un esercito di voraci parassiti avesse preso possesso di una bella pianta frondosa e ne avesse divorato le radici che la fanno vivere, bucato le foglie e i rami. Niente era stato rispettato, nessuno dei miei ricordi rimaneva intatto. […] Come un estraneo ripercorrevo adesso i cari luoghi d’una volta, ma io non appartenevo più a loro e loro non erano più parte di me, non mi parlavano più, mi venivano incontro disanimati e diversi, privi d’ogni potere incantatorio. Tutti gli dei che una volta li abitavano li avevano silenziosamente abbandonati… (da Ultimi viaggi nell’Italia perduta)

Dirò perché Napoli non è, a mio parere, come una qualsiasi altra città italiana o europea, e in cosa consiste la sua diversità. Tutte le città, è ovvio, sono diverse l’una dall’altra, ma io voglio dire che Napoli è più diversa, e che da questa diversità dipende anche il rapporto sempre ambivalente e spesso doloroso che gli scrittori napoletani intrattengono con la loro città. È più diversa innanzitutto perché i suoi problemi sono diversi e troppo spesso appaiono irrisolvibili anche sulla carta, problemi di cui sembra impossibile venire a capo con la ragione, quel tipo di problemi, insomma, come la fame nel mondo o la sovrappopolazione che, anche se nel caso di Napoli su scala ridotta, la rendono allo stesso modo «irredimibile».(da Napolitan graffiti)



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