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La confessione su Pasolini – racconto completo da “Il male peggiore. Storie di scrittori e di donne” di Iannozzi Giuseppe

La confessione su Pasolini

di Iannozzi Giuseppe

Si svegliò con un pesante cerchio alla testa e subito tossì una bestemmia gettando lo sguardo, distrattamente, al crocifisso appeso.

Scese in strada. Lo sguardo severo salutava i paesani, che in risposta solo pizzicavano con la punta delle dita la tesa del feltro.

Tutto esagitato fece la sua apparizione all’interno della bottega del barbiere.

Giulio era un tipo segaligno sulla cinquantina. Il suo volto si sarebbe detto volgare e persino brutto non fosse stato per gli occhi d’un azzurro profondo e freddo.
Leo subito lo fece accomodare in poltrona: «Il solito?».
Giulio strizzò leggermente gli occhi. E il barbitonsore, mano alle forbici, facendo finta di spuntargli i neri peli a spatola sul collo, subito si premurò d’allargarsi in un sorriso a trentadue denti: i loro riflessi, costretti sulla superficie dello specchio, giocavano sulle labbra affilate il loro consueto taglio, quello d’una reciproca falsa cordialità.
«Allora, oggi come andiamo?»
Giulio sfoderò il suo sorriso migliore, poi sparò secco: «Di merda!».
E il barbitonsore, a muso duro: «Così è la vita».
«Non tagliare troppo. Mi raccomando.»
«Mani di fata, così mi chiamano.»
Rimasero in silenzio alcuni istanti senza incontrarsi né in sorrisi né in sguardi sulla superficie dello specchio.
«Tu sei uno che non parla. O sbaglio?»
«Muto come una tomba, assolutamente.»
«Quindi, se ti facessi una confessione, resterebbe inter nos
«È chiaro.»
«Bene. Molto bene.» Poi gettò un rapido sguardo all’intorno: «E quello?».
Leo levò le forbici dal collo di Giulio e si voltò rapidamente: «Via! Torna più tardi se ti va».
L’ometto, un pecoraio, puntò gli occhi su Giulio accomodato sulla poltrona, ma non replicò e subito abbassò lo sguardo. Trafelato, infilando la porta, si lisciò con una mano tempestata di calli la zazzera stopposa, si calcò poi in testa il cappellaccio, sospirò e si accese una sigaretta. Grevi spire di fumo presero a spandersi nell’aria del mattino, e subito si dispersero, mentre un sole paglierino illuminava le stradine di grezzo pavé del paese muto, con orecchio però ben attento a ogni voce.

«Se tutti i giovani comunisti si tagliassero i capelli cadrebbe la maschera ai giovani fascisti… Ricordi chi l’ha detto?»
«Pasolini, quello che hanno ammazzato perché era frocio.»
«Sì, mi sembra fosse lui. Ma non l’hanno fatto fuori…» Le parole gli morirono in bocca. Leo rimase in silenzio, poi tossì perché gli sembrò che Giulio si fosse perso nel suo rimuginare.
«Insomma, è una storia complicata…», riprese Giulio con voce flebile, assorta. «Ho qualcosa da dire, qualcosa d’importante.».
«Sono tutte orecchie!»
«Sì, va bene. Ma se sento chiacchiere in giro, te le taglio. Chiaro?»
Il barbitonsore deglutì, mentre Giulio iniziava a vomitare la sua confessione.

Giulio uscì dalla bottega del barbiere se non sollevato, almeno con il cerchio alla testa un po’ meno pesante. Adesso era Leo ad avere una forte emicrania, così forte che gli sembrava che la testa dovesse esplodergli da un momento all’altro. Se una pallottola vagante gli avesse trapanato il cranio, era sicuro che non si sarebbe sentito così tanto male, più morto che vivo.

La chiesa si ergeva su un ridicolo colle calvo di vegetazione. Il barbitonsore entrò e subito cercò rifugio nel buio pesto del confessionale.
«Padre, ho peccato!», sussurrò con voce febbricitante.
«Ti ascolto.»
«Non è che possa dire… non è così facile.»
«Sono qui per questo.»
«Padre, Lei non capisce. Se parlo, quello mi taglia le orecchie e m’impicca con la mia stessa lingua.»
«Figliolo, Dio non lo permetterà.»
«Che io sappia, Dio non ha ancora sconfitto il Diavolo. Quell’uomo è un diavolo, Padre!»
«Nessun uomo può essere come tu dici, figliolo.»
«Oh Padre! Mai avrei dovuto ascoltare la confessione di quell’uomo.»
«Quale confessione? Di quale uomo?»
«Di quello lì
Il parroco rimase in silenzio: invano cercò di sputare fuori qualche parola, solo gli riuscì di produrre un sussurro gracchiato. Imbarazzato, sconfitto, disse: «Capisco!».

Giulio se ne stava in piazza: attorno a lui tante persone ma tutte silenziose, ossequiose. Fumava un grosso sigaro puzzolente: il fumo usciva dalle sue nari e si levava in aria. Pareva un diavolo e qualcuno giurava, in un bisbiglio muto, di riuscire a vedergli la coda a occhio nudo; e tutti i presenti, indistintamente, si facevano il segno della croce consapevoli però che a nulla sarebbe servito.
Il sole alto in cielo era come assente, solo un cerchio debolmente giallo e diafano simile a un disegno venuto dalla mano insicura d’un pittore avvinazzato.
Una bambina, trascinata dalla noia o dalla curiosità, si avvicinò a Giulio; e subito il volto roseo dell’Innocenza sbiancò per farsi prigioniero di singulti e lacrime. Giulio le accarezzò i ribelli cernecchi d’un bel nero corvino: la sua grezza mano si perse fra quei riccioli.

Passarono alcuni giorni, lunghi e amari; e, sempre, nella prima luce del mattino il segno del destino. Giulio, ogni giorno, affacciandosi alla finestra, scrutava giù in strada i movimenti del paese: era un poco annoiato e sapere che il barbitonsore era sotto due metri di terra non lo rallegrava, non più di tanto comunque. Era stato necessario farlo fuori: in fondo, lui l’aveva avvertito che non avrebbe dovuto permettersi di dire alcunché a chicchessia.

«Non ho detto niente…» balbettò Leo ridotto a un cencio più pallido d’un fantasma.
«Ma dal parroco ci sei stato…» questa la dura risposta di Giulio rosso di collera.
«Non ha voluto ascoltare…»
«Non avresti dovuto osare neanche con lui.»
Non ci furono altre parole fra i due. La lama di Giulio disegnò sotto l’aperto grido di terrore di Leo, con precisione chirurgica, un rosso sorriso da orecchio a orecchio.

In paese circolava la voce che fosse il diavolo incarnato, e forse era vero, ma era anche un uomo d’onore. Peccato che il volgo non riuscisse a capire né il Giulio diavolo né l’altro, l’uomo.

La chiesa stava davanti a Giulio. Non poteva più procrastinare, il parroco, anche lui avrebbe dovuto sputare la sua preghiera. Entrando squadernò un ferale cachinno.

L’indomani, in prima pagina, campeggiava la notizia della morte di Giulio Di Maggio. Era stato trovato sgozzato in chiesa, un sorriso da orecchio a orecchio e un altro – quello suo, il solito – sulle labbra affilate.

Il parroco, dopo l’inumazione di Giulio, prese a passeggiare per il paese. Il suo incedere si accompagnava a un sorriso sinistro, che pareva quello d’un omicida. Qualcuno cominciò a vociferare che non fosse l’uomo di Dio che avevano conosciuto e anche un po’ amato e rispettato, bensì la reincarnazione di Giulio Di Maggio. Però, forse, era soltanto una diceria, quella di gente annoiata, spaventata, quasi del tutto ignorante.

Un giovane dal volto smunto osò avvicinare il parroco, che camminava fra la gente ostentando silenzio. Parlarono sommessamente per pochi attimi; poi, a una battuta del ragazzo, il volto del parroco si imporporò e il giovane annichilì. «Se tutti i giovani comunisti si tagliassero i capelli cadrebbe la maschera ai giovani fascisti…», gli urlò contro, mentre il ragazzo prendeva una fuga a gambe levate.

Racconto tratto da “Il male peggiore. Storie di scrittori e di donne”.

IL MALE PEGGIORE (Storie di scrittori e di donne) – Iannozzi Giuseppe –Edizioni Il Foglio – Collana: Narrativa – Pagine 330 – ISBN 9788876067167 – Prezzo: 16,00 €



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