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QUANTI PECCATI SPRECATI – 7 Racconti brevi di realtà in confusione

QUANTI PECCATI SPRECATI

7 Racconti brevi di realtà in confusione

Iannozzi Giuseppe

DONNINE NUDE – Ti racconto una storia: quando avevo ancora i capelli – ero un bimbetto di nove anni – andavo dal barbiere, uno di quei barbieri per nonni, che ti passano le forbici sulla testa come dovessero potare un albero. Quando il barbiere – un tipo con la faccia da prete, calvo e il sorriso semplice dell’ignorante – mi diceva “Ecco, il giovanotto è servito!”, io mi guardavo allo specchio. E mi vedevo rovinato: dentro di me bestemmiavo, Sembro un moccioso con questo taglio del cazzo, porco diavolo. Il barbiere lo vedeva che non mi aggradava affatto il lavoro che aveva fatto, però taceva e intanto allungava la mano per prendere le cinquemila lire. A quei tempi tagliarsi i capelli costava poco; dal barbitonsore dove mi spingevano i miei vetusti costava quanto una messa per un defunto caro ma non troppo! A ogni modo, quello intascava i soldi – mai una volta che mi facesse uno sconto, mai una volta che mi lasciasse mille lire perché potessi comprarmi cinque o sei pacchetti di figurine –, e poi mi regalava il suo sorriso migliore, cioè a trentadue denti, da prete che ha appena ricevuto la confessione di un peccatore innocente. Notando la mia insoddisfazione, apriva un cassetto che stava dietro il banco dove metteva i soldi e tirava fuori un calendarietto profumato con le donnine nude, e me lo allungava. Io lo prendevo in mano, e a quell’età subito mi veniva duro, perché sapevo bene di che si trattava: dimenticavo così il taglio che non mi piaceva e anche le figurine Panini, e non vedevo l’ora di tornare a casa per masturbarmi. Avevo in mano dodici donnine, belle, una più bella dell’altra: bionde rosse brune, una per ogni mese dell’anno, e io avevo soltanto nove anni. Ed ero eccitato come un riccio che scopre che il colore più bello del mondo è il bianco del seme.

La prima volta che mi sono masturbato è stato grazie a una donnina di quei calendarietti che il barbiere mi regalava: pensai di morire, di aver sputato via l’anima dal pene. Stavo bene, mi sentivo in paradiso; però sentivo anche una paura micidiale dentro. Fu, poi, quando mi feci la seconda sega che il piacere fu totale, senza paura.
Il barbiere mi raccomandava sempre, in un orecchio, con un filo di voce: “Non lo dire ai tuoi però. Tieni, prendi, queste cose sono per i giovani.” Ne ho raccolti un bel po’ di quei calendarietti tascabili, che nascondevo ben dentro al portafogli e che portavo con me anche a scuola, e nei bagni ovviamente. A volte chiedevo alla professoressa di uscire solo perché mi tirava nelle mutande e mi faceva un male cane: insomma dovevo allentare la tensione o sarei scoppiato. Poi la sfiga volle che per professoressa avessimo una cavallona che metteva sempre la minigonna e le calze nere: era una bruna da infarto, capelli neri a caschetto e occhiali da intellettuale, e labbra rosse come ciliege ma per niente volgari. Aveva il vizio di accavallare le gambe, con grazia di cigno: in una situazione così era impossibile che un giovane maschio riuscisse a starsene calmo.
Poi il barbiere diventò troppo vecchio per tagliare i capelli: era oramai buono soltanto per tagliare le orecchie agli asini, e manco quelle. Chiuse bottega, e io non trovai un altro barbiere che regalava calendarietti profumati con le donnine nude. Per me fu un vero colpo al cuore: compresi che se volevo ancora andarci di mano, dovevo trovare altro materiale. Così iniziai a scrivere poesie.

LA TENEREZZA DI DIO – Quand’ero molto giovane ero già un senza dio. A scuola avevo scelto di non seguire l’ora di religione, nonostante venisse detto – e non senza rimprovero da parte della Preside dell’Istituto – che chi era cattolico avrebbe avuto in futuro maggiori possibilità di integrarsi nella società. Il discorso era chiaro: essere cattolico, frequentare le lezioni di religione erano cose che avrebbero assicurato agli studenti una più veloce scalata sociale nel lavoro che un domani si sarebbe intrapreso.

Le pecore nere due, io e una ragazza. A noi, i senza dio, ci mettevano dove capitava. Spesse volte rimanevamo nei corridoi o nei bagni a fumare. Non era affatto brutto, non per me: stavo insieme a una delle ragazze più carine della scuola, grazie a dio, atea convinta. Manuela, una bellezza rara, una ricciolina con il nasino alla francese, lunghi cernecchi tizianeschi, piccole efelidi a baciarle il faccino e un gran bel culetto a cuore nei jeans, un giorno mi chiese perché non fossi con gli altri in classe.
“Non credo in dio.”
“Potresti far finta.”
“Lo fanno in tanti, è vero.”
“Ma tu sei proprio ateo?”
“Da quando l’uomo ha inventato dio, nel corso dei secoli non c’è mai stato un solo attimo di pace. Ogni popolo ha il suo dio inventato di sana pianta.”
Manuela mi sorrise. Conoscevo quel sorriso… mi stava chiedendo di offrirle una sigaretta, cosa che feci subito. A lei non ero capace di dir di no. Ne avevo una sola nel pacchetto da dieci ma gliela offrii comunque.
“Ne hai solo una. La fumiamo a metà.”
E così si fece, fumammo la nostra Camel, metà lei, metà io. Fu un’ora di genuina felicità: le mie labbra si posarono sul filtro che avevano visto posarsi le carnose farfalle della boccuccia di lei.
Finita la sigaretta, guardai Manuela e le dissi: “Ho posato le mie labbra dove tu le hai posate: questo è l’unico Dio che riconosco.” Glielo dissi con tutto il coraggio che può avere un quindicenne. Glielo dissi e subito sentii le guancie prendermi fuoco.
Manuela scoppiò a ridere divertita e intenerita. Mi posò un bacetto sulla guancia e scappò via.
La campanella suonò. L’ora era finita e ci toccava di tornare in classe a tutt’e due.

COLOMBE E COLOMBI – Un giorno che stavo davvero giù, una bimba mi si fece dappresso. Io stavo seduto al parco a dar da mangiare ai piccioni: gettavo loro tutte le briciole del mio panino. Era un giorno triste per me, perché la mia ragazza m’aveva lasciato su due piedi senza neanche darmi una spiegazione. Non m’erano state lasciate molte possibilità: o spararmi o sparare alla mia ex, o dare da mangiare ai piccioni. Ho scelto di dividere il mio panino coi piccioni. Le beccavano tutte le briciole: quei piccioni non se ne lasciavano dietro una, e le colombe – poche in verità – erano le più affamate. Beccavano le briciole, le sottraevano quasi, le rubavano quasi da sotto i becchi dei piccioni. Tra il piumaggio grigio-azzurro dei maschi, impossibile era non notare il bianco delle colombe e il loro incedere per un veloce volare lontano. Mi facevano un po’ tenerezza, ma anche pena: erano così simili a noi uomini quei piccioni e quelle poche colombe. A ogni modo, una bimba, piccola davvero – non avrà avuto più di sei anni -, all’improvviso, quando ormai m’ero rassegnato alla solitudine, si presentò a me dicendomi queste esatte parole: “Perché sprechi il tuo tempo?”
Io la guardai dritto negli occhi: erano belli, d’un azzurro immacolato. E mi ci volle un secondo solo per capire che quella bimba era tanto tanto intelligente.
Le risposi: “A dirla tutta, bella Bimba, sto solo dando da mangiare ai piccioni.”
E lei: “A me invece sembra che tu stia sprecando il tuo tempo.”
“E perché mai?”
”Se lo trovano da soli da mangiare.”
”Sì, ma se nessuno gliene dà, mica lo trovano il cibo.”
Lei mi sorrise un po’ tristemente: “Guardati intorno.”
Mi guardai intorno, e vidi altri mille uguali a me che stavano dando da mangiare ai piccioni.
Quando tornai a posare lo sguardo sulla bimba, quella non c’era già più.
Me l’ero sognata? immaginata?
Mi sono guardato intorno cercandola, ma niente: sparita. E con lei erano scomparsi i suoi bellissimi Occhi di Cielo. Con lei se n’era andata via, completamente, la residua innocenza che s’ostinava a resistermi dentro al petto.
In mano avevo ancora un pezzetto del mio panino che avevo sciupato per farne briciole da dare ai piccioni. Era poco, giusto un boccone: non ci pensai su due volte e me lo cacciai in bocca, masticai e inghiottii, dopodiché m’alzai dalla panchina. Ero rimasto seduto per troppo tempo, e le membra erano un po’ tanto intorpidite. Mi stirai. E sbadigliai quasi senza rendermene conto, e lentamente attraversai lo spiazzo dove stavano i piccioni: al mio passaggio, quelli presero il volo spaventati.
Uscii dal parco e tornai a respirare l’aria pesante, inquinata della città: tornai alla realtà, a vivere sotto un cielo nero di nubi e di smog. Ero ancora oppresso dalla solitudine. Però ora sapevo con assoluta certezza di non essere il solo.
Forse un giorno incontrerò nuovamente la Bimba dagli Occhi di Cielo. Forse, non è detto.

FUGA DALLE TENEBRE – Andato all’Obitorio. Mi hanno detto che… che la cura non è possibile. Allora subito alle Pompe Funebri sin tanto che il corpo non ancora disfatto, freddo.

Due maniglie in ottone. Io le volevo d’oro massiccio. Finite. L’Impresario Funebre mi ha spiegato che questi non sono proprio Tempi Morti e che oggi si fanno buoni affari davvero: basta non fare la mano morta con qualche Vedova troppo in vista, troppo curata dalla società. Io l’ho guardato strano, ed allora lui subito mi ha spiegato che tra americani, forze di pace inventate e fondamentalismo islamico e cristiano a tutto spiano, i cadaveri piovono che è una bellezza, come la manna dal cielo praticamente.
“Caro Signore, dopo i ghetti di Varsavia e di Roma, una simile abbondanza era insperata. Ma Dio ci vuole bene, Dio ama tutti. Ama alla follia anche noi poveri becchini!”: così mi ha detto mentre mi stringeva la mano e ci accordavamo per una bara non troppo di lusso, non povera.
“E’ per lei, la bara?”
“Oh! No, non si faccia strane idee. Questa è per una persona che è morta sul serio.”
“Non lo metto in dubbio. Per una persona. Mica per un Can Malfusso!”
“Le confesserò che ho provato una cura. Tutto inutile.”
“In questi casi, l’unica è una buona sepoltura.”
“Sì, forse è così. Solo che non mi rassegno. Però, se dovesse andar male anche così, c’è sempre la Riesumazione…”.
“Certo. E’ tutto specificato nel Contratto.”
“Non ci vuole un Permesso speciale per la Riesumazione?”
”Una volta era come dice Lei, ma oggi le pratiche le gestiamo noi delle Pompe Funebri.”
“Sì, credo di capire.” Gli stringo la mano: è fredda. Molto. Una smorfia sul viso, quello mio. L’Impresario si accorge presto del mio disgusto.
“Qualcosa non va?”, suggerisce con freddezza. E subito cerca di correggere il tono in un tripudio effeminato di socievolezza: “Sono a sua completa disposizione, Signore!”
“Mi è solo parso che la sua mano…”, balbetto confuso.
“Ah! Capita a tutti la prima volta. O la seconda. O la terza… Poi ci si fa l’Abitudine.”
“Peccato per le maniglie”, dico distrattamente. Poi aggiungo, in tono quasi distratto: “Le avrei preferite d’oro. Non si sa mai.”
”Purtroppo le maniglie d’oro, finite. Quelle di ottone offrono però dei vantaggi non indifferenti.”
“Sì, me l’ha spiegato. Forse ha ragione. Così non c’è rischio che rubino la bara insieme al corpo che conterrà.”
”Infatti. Ha molte capsule d’oro in bocca?”
”No, non una carie io. Neanche capsule. No, io trentadue denti perfetti.” Sospiro. “Purtroppo così non è per il corpo… per il Cadavere. Già, a quest’ora sarà già cadavere.”
“Vuole sottoscrivere un’Assicurazione? Oggi i ladri che circolano nei Cimiteri non si fanno scrupolo alcuno. Certi tombaroli sono anche dei necrofili incalliti. Potrei raccontarle delle storie che la sotterrerebbero all’istante tanto sono vergognose.”
“Non aggiunga altro, la prego. Ha ragione lei, poco ma sicuro. Non si sta in Pace neanche sottoterra. C’è però che in fondo sono morti. Tutti.”
”Sì. E’ comunque un oltraggio cavargli di bocca l’oro… E quando non ci riescono, si portano via tutto il corpo.”
”Una disgrazia. Terribile. E’ successo a uno che conosco… Cioè che conoscevo. Terribile davvero. La famiglia, non le dico quanto ha pianto sul fattaccio.”
“Allora, la facciamo questa Assicurazione?”
”Non ho soldi, non abbastanza. Fosse stato per le due maniglie d’oro, ma l’Assicurazione è cara. Non me la posso permettere.”
Mi stringe la mano, quasi con compassione, quasi schifato. “Quand’è così! A presto!”
”Spero non troppo presto.” E intanto penso che dovrei toccarmi i coglioni o fare le corna, o toccare ferro. Non posso, non davanti al dannato Impresario.
I baffetti hitleriani dell’Impresario Funebre tremano: lo noto che è agitato, molto agitato. Ha un Diavolo per capello.
“Non si sa mai!”, ringhia fra i denti.
“Addio!”, grido. E me la squaglio.
Una volta fuori respiro, finalmente, e mi tocco i coglioni una due tre volte ché non si sa mai.
Non passa un cane oggi. Le strade sono vuote. Le finestre si affacciano su una Milano grigia, tale e quale a un lager.
Un brivido freddo mi corre lungo la schiena. Mi sento come spiato. Getto un’occhiata all’intorno. Ho l’impressione che dalle finestre occhi alieni mi spiino.
Mi accendo una sigaretta. Le mani mi tremano. Purtroppo non potevo più far finta di niente. Sono stato costretto a uscire, a recarmi alle Pompe Funebri. Ora ho paura.
Aspetto che il semaforo si faccia verde.
Ci impiega un’eternità.
Ho finito di fumare la sigaretta.
Getto la cicca sull’asfalto nero. Osservo la cicca morire a una velocità impressionante.
Il semaforo non vuol diventare verde.
Non è sul rosso. E’ sull’arancione.
Guardo a destra. Guardo a sinistra.
Non si vede nessuno.
Non posso stare qui. Devo attraversare, passare sull’altro lato.
Perché diavolo ho così paura?
Non c’è nessuno. Milano è morta. Lo sanno tutti che è così e che la situazione non cambierà dall’oggi al domani.
Mi faccio coraggio e prendo ad attraversare la strada stando ben attento a non uscire dalle strisce pedonali.
All’improvviso lo vedo.
E’ il muso d’un camion.
Non ho idea da dove possa esser sbucato.
Non ho scampo. Le gambe sono paralizzate.
Chiudo gli occhi sperando che mi metta sotto e non mi lasci agonizzante sull’asfalto di questa cazzo di città.

Sono sull’altro lato.
L’Impresario Funebre è ancora abbracciato al mio corpo. Sento il suo alito mefitico sulla mia faccia, ma, in questo momento, lo amo, lo amo più della mia stessa vita.
“Diavolo, non ha preso la fattura. Lei vuol farmi passare un guaio.”
“Non capisco”, balbetto.
“Non scherzi. Il Fisco mi avrebbe fatto secco senza pensarci su due volte. Un cliente non può acquistare una cassa da morto e uscire bello bello dalle Pompe Funebri senza regolare fattura”, mi spiega tutto affannato, più bianco d’un cadavere.
“Prenda la fattura, la prego”, mi supplica continuando ad alitarmi addosso.
La prendo fra i denti.
L’Impresario si alza e anch’io posso riacquistare la posizione eretta.
Ci stringiamo la mano. La sua continua ad essere fredda.
Lo vedo allontanarsi in tutta tranquillità.
Il semaforo gli dà subito il verde e lui attraversa.
Con la fattura ancora fra i denti penso che vita e morte sono cose strane che vivono in simbiosi ma impossibili da capire. Penso che con un aiuto insperato le tenebre non mi hanno avuto.
Domani però è un altro giorno.

POETA IN ASSENZIO – “E mi fosti dolce, tu, discorso iniziato almeno un milione d’anni fa e mai terminato in una radice. Ma tu, tu che mi guardi nello specchio, mi dirai di sì, o risponderai con un no? Ah, Poeta, io ti conosco, so che la testa la perdi sempre per ritrovarla, neanche poi troppo sorpreso di te stesso, fra le nuvole. E ciò un po’ mi fa paura, perché, tu lo sai, d’esser un mezzo incosciente. Tu credi di poter contenere il mondo tutto in una poesia e poi risultare immortale agli occhi di chi come te, degli uomini. Ah, sei un illuso, perché l’immortalità non la si acquista con una poesia: né lo stile né la perfezione potranno mai cogliere l’essenza pura e ultima della Vita. Della Morte.
Ti ho visto ieri che ti guardavi: ti dicevi bello e Vate. Tenevi una positura dannunziana e il riflesso, che ti viveva sulla superficie dello specchio, t’invitava a dirti ancora e ancora bello ed inimitabile. Accarezzavi con una mano il tuo profilo severo, poi seguivi cogli occhi la geometria della cornice dello specchio; e nell’occhio s’infiammava una passione infinita, ma eri troppo occupato a deliziarti nella tua immagine per rotolare via e fare il tuo dovere, per metter quella passione nero su bianco. Rimanesti invece incollato lì a lodarti. Quale assurdità!
Hai un dolore, non lo vuoi dire, perché l’assenzio ti consola e ti fa bello: l’illusione permane mentre reggi la mano in uno spazio che è la tua Vita, che ti invita all’immortalità. Che fai? Piangi una lacrima… Perché mai? Ah, invochi la Morte e la dici tua compagna. Stolto, stolto che sei. Non ti rendi conto di quanto e quanto dolore c’è in quella lacrima. Dovresti correre a scriverla. E dovresti regalarla al mondo perché possa essere gioia, specchio di confronto per chi sente come te. E invece resisti e l’asciughi via, la spegni come inutile fiammella nata da un cerino: proprio non vuoi che una lacrima tanto piccola possa nella sua essenza riflettere la parte migliore di te. Ti lascerai anche tu crescere le unghie come fanno i morti? Tu, Poeta, sei Sfinge, chiacchiere e domande a cui rispondi con altre domande e chiacchiere. Dai la stura a un’infinita catena di perché, e non definisci mai nulla. Te lo devo proprio dire: l’unica possidenza che gli uomini possono è quel figlio che non osano mettere al mondo per tema di affrontare le sue lacrime.
Sì, mi fosti dolce, tu discorso iniziato almeno un milione d’anni fa e mai terminato. Il tuo riflesso è ancora qui e spazia, ma non è il senno di poi e non m’aiuta a correggere gli errori che il tempo produce nell’alma. Sorridi con calcolata violenza e mandi in frantumi il vetro che ti riflette, ma sei ancora troppo innamorato di te stesso per smettere di lasciar vagare lo sguardo fra le lame del vetro in frantumi. Lo so che mi dirai di sì, che ancora ami la Vita e la poesia che essa è. Che ami te, anche se quella lacrima non l’hai riconosciuta come tuo figlio.”

PER L’ANNO NUOVO – Lei era morta. La sapevo lì, nella bara. Di cristallo. Eppure, all’occhio era come viva.
Lei era del passato. Non era più mia. Ma il suo corpo riposava nell’eternità. Lo potevo toccare. La mano sulla lastra di cristallo. Quella carezza portata sul freddo cristallo. Così doveva essere la sua carne. Fredda. Mai più quelle pallide labbra avrebbero pronunciato una sola parola. Né di amore. Né di odio.
Io soltanto potevo far sì che parlasse ancora per me. Attraverso il ricordo che io nutrivo di lei. Era orribile. Non c’era davvero altro che potessi fare. Per alleviare la pena. Il dolore. Mio. Suo. Perché lei – ne ero sicuro – soffriva quanto me… vedermi così impotente. Lei sarebbe rimasta incorrotta. Per sempre. Quella teca la proteggeva. Teneva prigioniera la morte che l’aveva rapita. La morte godeva della sua verginità. Che io non avevo fatto a tempo di deflorare. Era un fiore, un pallido fiore. Le labbra carnose. Le gote bianche. Gli occhi come addormentati. Le dolci tempie appena venate di un azzurro pallido pallido.

E allora, adesso, fra le lacrime mi masturbo. Per te. Perché bianco venga l’anno nuovo. Perché sia vergine ma sprecato di piacere. Di corrotto dolore. Almeno il poco che ancora è mio. Il poco che sento. Che so e non so. Come un gioco. Come un corto circuito. Nella tua anima ormai spenta.

UBRIACHEZZA – Con gli anni tutto s’è fatto chiaro. Lasciate che vi racconti, sarò breve.
Scendo al bar come tutte le mattine, sul banco mi aspetta il primo bicchiere di molti a seguire. Raccolgo il vino in mano e lo butto giù tutto d’un sorso. Col vino è difficile ubriacarsi. Ce ne vogliono di bicchieri.
Faccio mezzogiorno bevendo. A sessanta anni posso permettermelo, niente mi preoccupa. Bevo un bicchiere, dico quattro chiacchiere a nessuno, fumo una sigaretta e un’altra. ancora. A fine giornata sono quasi allegro, mai ubriaco. Sbando giusto un poco.

Da giovane pensavo, ma presto ho capito che il gioco non valeva la candela e così ho smesso ed ho attaccato con la Barbera. Quaranta anni in catena di montaggio non sono uno scherzo, non ci vuole coraggio però, basta spengere la lampadina che uno ha nella scatola cranica.

D’improvviso nel bar fa irruzione una donna di mezza età. Grida che l’hanno presa sotto, un ubriaco del cazzo. E’ isterica. Tutti escono fuori a godersi lo spettacolo. Io esco per ultimo, non sono mai stato un curioso della sorte altrui.
Sull’asfalto c’è una giovane figura femminile. Si vede ch’è morta. L’auto l’ha centrata in pieno.
La tipa continua a urlare. Invita tutti a fare qualche cosa.
In lontananza le sirene dell’ambulanza e della polizia e al centro dell’incrocio un giovane sui venti e non di più, forse italiano forse no, non è questo il punto. Sbanda. Non sta in piedi. E’ ubriaco perso.
La tipa continua a spaccare i timpani a Dio. Non si capisce che dice. E’ più fuori dell’ubriaco, poco ma sicuro. Non ce la fa a capire che non si può fare più niente.
L’ambulanza arriva per prima.
Un lenzuolo bianco copre il cadavere. La donna si strappa i capelli. E’ fuori di sé. Dice parole. Parole. Parole. E invoca Dio e minaccia Dio, questo si capisce. Nessuno sa perché lo fa. Perché lei è morta. Lei chi? Grida un nome, chiama la morta, si sgola mentre il lenzuolo si fa rosso di sangue.
Finalmente la mettono a tacere.
Arriva anche la polizia a sirene spiegate.
L’ubriaco sbanda al centro dell’incrocio con gli occhi sputati al cielo.
Lo ammanettano.
I curiosi si dissolvono mormorando.

Non c’è molto altro.
Nel pomeriggio qualcuno sparge in giro la voce che la donna isterica era la madre della giovane presa sotto dall’ubriaco.
Si fa la sera. Ho bevuto più bicchieri del solito, ma non sbando, non sono allegro nemmeno un poco. Al diavolo.

Torno a casa con la notte buia in testa.


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