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EDIPO E IL RE D’ITALIA

EDIPO E IL RE D’ITALIA

Iannozzi Giuseppe

Si era liberato. Era da tempo che non la faceva. Quando uno mangia, sì e no, due volte nell’arco d’una settimana, per bene che vada l’intestino si gonfia d’aria e di poco altro. O forse no!

Edipo Aveva sulle spalle almeno quaranta anni di vagabondaggi. Cagare nel Po o nel Tevere lo esponeva sempre agli stessi rischi. Ne aveva visti tanti cadere a fondo, con il culo nudo e gli occhi spenti per sempre. Uno in giacca e cravatta, rasato di fresco, ti passa accanto e ti spinge giù: sei dita di lama nelle budella non sono mai uno scherzo. Da giovane poco ci mancò che lo facessero fuori proprio così.

Quand’era poco più d’un soldino di cacio, non di rado i suoi amavano lasciarlo dalla nonna, una vecchia oltremodo truccata che passava le sue giornate immersa in una nuvola di fumo a giocare a carte con le compagne, brutte quanto lei se non di più. I suoi se l’erano presa con comodo, non lo avevano voluto ma, alla fine, era arrivato: a forza di scopare lei c’era rimasta. I suoi non avevano mai fatto granché per nascondergli la verità: la madre non faceva che dargli pesanti scappellotti sulla testa con la mano sovraccarica di anelli. Gliele suonava perché era un bambino, mica per altro. Poi, un giorno aveva scoperto che era un ragazzo e che i primi peli sul mento avevano cominciato a prudergli. Nel corso degli anni, la donna che lo aveva messo al mondo non era cambiata: Edipo l’aveva vista più volte prendersi in culo o in bocca il cazzo di suo padre, e non solo. Quella donna non poteva vivere senza uno di quei cosi dentro: in bocca, in culo, nella figa.
A Edipo gli era venuto naturale spararle un pugno dritto sui denti quando lei gli aveva rifilato l’ennesimo schiaffo con la mano inanellata. La donna era andata giù secca, senza un lamento. Le aveva spezzato due incisivi: la bocca aveva fatto presto a riempirsi di sangue. Era rimasta giù per un minuto buono, non incredula né spaventata: pareva non avesse atteso altro da quando lui era entrato, per un dannato sbaglio, nella sua vita. Distesa sul pavimento gli aveva allargato le gambe davanti, giusto una fessura perché lui vedesse bene che non le portava le mutandine. Edipo gliela vide la figa. Provò più schifo che orrore di fronte alla passera di sua madre che gli si offriva. Non le disse che era una puttana e non si sprecò di sputarle in faccia. Le diede le spalle invece, mentre lei gli gridava contro che non era un vero uomo. Lui aprì la porta di casa e uscì. Per sempre.

Il sole pioveva a picco sulle teste della gente. Tutti avevano una fretta del diavolo. Tiravano avanti senza guardare in faccia nessuno. Un maghrebino stava montando la sua bancarella: già si potevano vedere diversi ninnoli disposti su un panno di velluto amaranto. I negozi non avevano ancora tirato su le saracinesche. Troppo presto, non prima delle 9 e 30. Ai bordi delle strade solo un fioraio, e il vecchio maghrebino, un tunisino a giudicare da com’era conciato. Uomini e donne correvano sotto i portici torinesi, molti con l’orecchio incollato al cellulare.
Il sole si ritagliava il suo spazio sotto i portici, su Piazza Castello al di là di Via Roma, scomparendo dietro la Cappella del Guarini, andata a fuoco nella notte fra l’11 e il 12 aprile del 1997 e mai rimessa in sesto.
Edipo non teneva vergogna di mostrare le chiappe. Cagava alla turca proprio davanti alla serranda ancora abbassata di quello che doveva essere un negozio di pelletteria. Calvo, tarchiato, con una lunga barba giallognola e gli occhi rossi di sonno e di Barbera, sorrideva mentre sganciava stronzi dal culo: pareva una fucina, venivano giù che era una bellezza, da non crederci. Non erano grossi, sostanziosi sì. La gente gli sfilava davanti, manco si accorgeva di lui. Giacobbe era l’unico che gli prestava attenzione. A un certo punto Edipo gli regalò un sorriso grommoso gridando: “Io Edipo!”. Nei suoi occhi, rossi come il culo dell’inferno, non c’era rimprovero né curiosità: Giacobbe era soltanto uno sconosciuto che s’impicciava di lui che cagava davanti a uno dei negozi più in di Torino. A Giacobbe gli venne di pensare che Edipo doveva essere incazzato nero e che se l’era tenuta in corpo per una lunga pezza, non era altrimenti spiegabile come un clochard potesse sparare così tanti stronzi. Mentre Giacobbe pensava a questo e ad altro ancora, Edipo si era già messo al lavoro per pulirsi: da un quotidiano – abbandonato in strada da chissà chi – strappava fogli su fogli e se li passava fra le natiche, poi li lasciava liberi… ci pensava il vento a spazzarli via, confondendoli insieme a tanta altra immondizia.
A un certo punto gettò a Giacobbe uno sguardo pieno di astio, facendogli capire che si stava pulendo il culo e basta, che non stava facendo nulla di male. Sulla faccia barbuta di Edipo fecero capolino rabbia e paura: nella sua testa era forse scattata la molla che se Giacobbe stava a fissarlo non doveva essere normale. Non sarebbe servito a nulla cercare di spiegargli, a chiare lettere, che lui non ero un pervertito, perciò Giacobbe tacque. Con un ultimo foglio di giornale Edipo si raschiò il sedere ben bene, e avanzando d’un passo glielo mise sotto gli occhi per fargli capire che se fosse stato necessario non avrebbe esitato a cacciarglielo in bocca.
All’improvviso Giacobbe ed Edipo furono investiti da una ben strana musica. Il negozio di dischi stava aprendo e il principe Emanuele Filiberto, con voce stonata e fuori tempo, sparava: “Io credo nella mia cultura e nella mia religione,/ per questo io non ho paura, di esprimere la mia opinione./ Io sento battere più forte, il cuore di un’Italia sola,/ che oggi più serenamente, si specchia in tutta la sua storia…”. Suo malgrado Giacobbe scoppiò in una risata cavernosa, che non mancò di attirare l’attenzione dei passanti. Colletti bianchi, donne bellissime e impossibili su tacchi alti (babilonici) si voltarono a guardare Giacobbe, a mormorare paroline incomprensibili, senza però accorgersi del clochard che stava ancora a braghe calate circondato da fogli di giornale sporchi di merda.

Le parole di Italia amore mio continuavano a essere evacuate dal negozio di dischi. Giacobbe si voltò verso di lui un’ultima volta: non l’accenno d’un sorriso, solo una bocca di denti e di saliva schiumosa. “Più animale che uomo, per questo meriti rispetto, solo per questo”, pensò Giacobbe e tirò dritto lasciandosi accarezzare dalle dita d’un vento freddo e un poco puzzolente.


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