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LA RAGAZZA DI TUTTI

LA RAGAZZA DI TUTTI

Iannozzi Giuseppe

Un tempo doveva esser stata bella, ma quando la conobbi io non lo era più, appena passabile. Doveva essere vicina ai quaranta: non fosse stato per il reggiseno e le mutandine, quel corpo si sarebbe disfatto sull’asfalto. Aveva i tacchi alti e gli occhi tristi, nascosti da un pesante mascara mezzo sciolto dall’acqua piovana. La bocca era ancora carnosa e appetibile, ma già troppe rughe sulle guance. Nell’insieme, vestita in rosso, ogni suo gesto e ogni suo passo facevano inequivocabilmente capire ai rari passanti, a piedi o in macchina, che era una puttana di lunga data.

Quella notte Torino era triste: poche luci, la pioggia, un cielo nero senza una stella né uno spicchio di luna, e l’eco quasi ininterrotta di ambulanze e di auto della polizia. Attraversavo una zona a rischio, infestata da pezzi di merda assassini extracomunitari e skinhead. Porta Palazzo, la zona del mercato: la notte pesava sul mio capo, un’ala di corvo, io mi limitavo a sputare fuori grasse boccate di fumo. Fumavo la sigaretta, la sola compagnia che mi serviva per farmi largo fra i negri, fra gli ortaggi per terra oramai andati a male dopo il mercato del giorno alle spalle. A quell’ora dovevo fare attenzione: i bianchi non erano ben visti, soprattutto di notte. La zona puzzava, e non di pioggia che eppur cadeva fitta: l’aria aveva un suo sapore, di sudore, di pelle nera, di sangue, un sapore dolciastro e crudele. Mi calcai il cappellaccio a falde larghe sulla testa, tirai su il collo del lungo impermeabile nero, sputai a un semaforo che era rimasto incastrato sull’arancione e attraversai, senza fretta: tanto lo sapevo d’esser seguito da tanti e tanti occhi bianchi. A chi mi seguiva gli sarebbe bastato un batter di ciglia per suonarmele di santa ragione, o per cacciarmi nelle budella una lama di ruggine ma ben affilata. Continuai a camminare, incurante della morte che mi seguiva: sinceramente quella notte non mi interessavano il rischio e il fato, e nemmeno mi davo pena per l’umanità tutta con il suo carico di male e di amore a buon mercato. Fosse finito in quel momento il mondo intero, io avrei solo tirato un sospiro di sollievo, e forse neanche: come un bue, ottuso, avrei visto morire, e sarei morto, forse solo accennando a nessuno un sorriso vuoto di significato.

I semafori erano spenti, solo qualcuno era sull’arancione: la pioggia non cessava, faceva compagnia ai negri che litigavano con lingue a me aliene, cariche d’una sottintesa minaccia.
Buttai l’occhio sul Duomo: era spettrale, vale a dire inutile, come del resto tutto quello su cui il mio sguardo si posava con normale distrazione. Fu davanti alle scale del Duomo che la vidi passeggiare: mi chiese d’accendere. Gliela accesi quella sua sigaretta lunga e sottile, senza fiatare. E feci per tirar via. Però mi fermai. Non lo so perché: mi fermai e basta, dopo pochi passi. Mi voltai verso la donna. Era ancora lì: fumava con calma, percorrendo brevi tratti in su e giù. Mi vide che la fissavo.
“Ti interessa?”
Non aveva nemmeno una bella voce: era roca, di fumo e di pompini fatti in fretta.
Mio malgrado le regalai un sorriso fra il divertito e il faustiano.
“Cazzo ti ridi?”, sbottò.
“Niente. Mi interessa… il culo sì, mi interessa.” E gridandole addosso così, mi avvicinai a lei tenendo un passo lento che affondava nelle pozzanghere.
“Il culo…!”
“Non ti dà fastidio la pioggia?”
Eravamo faccia a faccia.
“Snellisce”, buttò lì.
“Il vestito è tutto appiccicato…”.
“Al corpo. Sì, lo so. E’ un rosso che non scolorisce, non te ne preoccupare.”
Lasciò cadere la sigaretta: ne seguii il breve volo…
“Il culo, fammelo vedere bene.”
Obbedì: me lo mostrò. Decisi che poteva andare, anche se il segno delle mutande era evidente. Erano le mutande e i tacchi alti a tenerglielo su.

“Vuoi che le tenga?”. Si riferiva alle scarpe, ai tacchi alti.
Non ci pensai su: “Sì.”
Quei tacchi facevano molto per il suo culo oramai destinato a diventare sempre più flaccido e inutile.

Quando entrammo in camera eravamo entrambi fradici di pioggia: viveva in un vecchio condominio fatiscente, uno di quelli che sembrano dei casermoni; dentro la tappezzeria era color topo, si respirava un sentore di muschio ma per niente piacevole. Accese la luce: due lampadine da quaranta candele attaccate a un filo, senza lampadario. La camera da letto era un materasso – che doveva aver visto giorni migliori – dove riposava una pesante coperta scolorita, a fiori: si poteva intuire che dovevano esser state delle rose rosse quei fiori oramai sformati.
Con gli occhi di mascara sciolto mi invitò a togliermi di dosso l’impermeabile: non mi feci pregare e lo lasciai cadere ai miei piedi. Lei mi diede addosso un sorriso di tristezza, che durò un istante; poi, di spalle, si spogliò, lasciando cadere a terra quel vestito rosso che l’aveva fasciata fino ad allora. Fece per slacciarsi il reggiseno: non glielo permisi, le fui subito alle spalle; lei non si girò. Le tirai giù le mutandine, ma non fino a fargliele scivolare lungo le caviglie: l’elastico le rimase incollato poco al di sotto dei glutei. Non volevo che la carne mi cadesse, non desideravo uno spettacolo pietoso. Chiusi gli occhi e glielo ficcai su per l’ano, velocemente: lei tirò un urletto finto, che non era né di dolore né di estasi. Con una mano sulla schiena la piegai a novanta. Lei non oppose resistenza. Le mie mani si incollarono su i suoi fianchi, mentre il mio pene continuava a penetrarla. Lei faceva finta – meccanica come un robot – di godere: era una pessima puttana e una attrice ancor più squallida. Glielo tenni dentro per venti minuti buoni, poi, sudato, uscii da lei, non soddisfatto. Solo allora lei si accorse che non avevo messo su il condom. Però non montò su nessun dramma, anzi.
“Non l’hai messo!”, disse distrattamente. E dal tono della sua voce era chiaro che non gliene fregava un cazzo: parlava tanto per, non per fare discussione. Si accese una sigaretta raccattata da un pacchetto che teneva lì, in casa, e prese a fumare.
Si era messa davanti alla finestra: se un voyeur l’avesse vista, avrebbe visto una donna stanca, col reggiseno giù e le mutande calate a metà, e una faccia di tristezza infinita.
“Non ne ho bisogno”, buttai lì. E subito aggiunsi: “La morte è solo una squallida questione di fortuna.”
Lei rise, per finta: “Un puttaniere che fa filosofia.”
“Un agente immobiliare…”.
“Ti piace, il tuo lavoro intendo?”
“Ci riempiono la testa di cazzate, di strategie, di marketing, di filosofia da due soldi.”
”E funziona.”
“Il mercato immobiliare, di questi tempi, è in ribasso: non fosse per i milanesi che vengono a comprare qui a Torino, noi si potrebbe morire tutti di fame.”
Tirai fuori una sigaretta dal pacchetto che tenevo nei pantaloni e che mi erano scesi giù, fin sulle caviglie. Me l’accesi e solo dopo pensai di tirarmeli su, i pantaloni.
Mi feci quasi accanto a lei, rimanendo dietro, e fumando le dissi: “Fuori piove ancora.”
Lei rimase in silenzio.
“E’ strano”, continuai: “Ma lo so fare solo così.”
“Non è strano. Normale.”
“Anche i negri lo fanno così?”
”Soprattutto loro.”
“Non gli piace la passera…”.
“Gli piace. Per loro è uguale, vanno con uomini e donne. A loro basta che abbiano un buco dove ficcarlo. Ecco tutto.”
Non era in imbarazzo.
“Ne hai presi molti, vero?”
”Perché? ti interessa?”
“No, non mi interessa.”
Le buttai la patta dei pantaloni sulle natiche sbattendola contro il vetro freddo: “Sei tenero.” Non ci credeva. Però lo disse. Poi mi allontanò come si fa con una mosca fastidiosa, con un quasi schiaffo sulla faccia.
Mi accarezzai il mento: erano due giorni che non mi radevo. Mi dava fastidio la barba. Quand’ero più giovane mi radevo anche due volte al giorno.
“Sai qual è il problema? Tutti chiedono attenzione, tutti la vogliono. Ma non prestano mai attenzione.”
Mi lasciai cadere pesantemente sul letto, a braccia aperte, disegnando col corpo una croce: presi a ridere, in maniera sguaiata.
“Che c’è da ridere?”
Mi calmai subito: era una risata finta la mia.
“E’ che ho appena finito di mettertelo in culo. E mi fai già le paranoie: sembri uno dei tanti clienti stronzi che mi capitano tutti i giorni. Uguale uguale.”
Lei fece finta di riflettere su quello che avevo appena detto. E sentenziò: “Le donne sono tutte puttane. La più santa è più puttana di chi la dà via per professione.”

La rividi qualche volta, senza particolare voglia: costava poco. Il prezzo lo stabiliva da sé: non faceva sconti, neanche ai negri che erano i suoi clienti più forti. Una volta me lo disse che loro amavano sodomizzarla soprattutto, per un’ora intera anche, ma molti se lo facevano prendere in bocca: la fellatio, mi confidò lei, le faceva bene alle labbra, però non alla voce perché il seme lo doveva inghiottire e quello dei negri era troppo acido. Dopo la prima volta, presi l’abitudine di usare il profilattico: non per paura, solo per cercare di arginare il senso di schifo che mi produceva nella mente l’idea di mettere il mio pene in un buco che era stato occupato dal manganello d’un negro.

L’appartamento era lercio come sempre: tirò fuori un crocifisso e me lo porse.
“Una volta era attaccato a quel muro…”. E me lo indicò con l’indice, ridendo isterica.
Buttai lo sguardo sulla parete: non c’era nessun segno.
“E’ tanto tempo che l’ho staccato.” Rideva di brutto mentre lo diceva, con malizia nervosa. Per un momento provai pena per lei.
Me ne stavo seduto sul bordo del letto con il crocifisso in mano.
“Capisco”, sputai tutto d’un fiato.
Dentro di me sapevo che, nonostante le labbra ancora tumide, sopravvissute alla decadenza del resto del corpo, anche il cervello le stava andando in pappa.
Presi a raccontarle dei miei affari immobiliari, senza che lei me lo chiedesse: non volevo farlo, né volevo più tornare in quel posto che sapeva di sudori e di altri umori rancidi. Lei non ascoltava, diceva di sé a raffica: le importava solo di sé stessa, non gliene fregava niente dei miei problemi. Ciabattava in lungo e in largo nei pochi metri della camera da letto. Era uno spettacolo davvero penoso vederla con le ciabatte e la minigonna: il culo era una prugna flaccida, i seni due vesciche sgonfie. Piagnucolava come un bastardino abbandonato: il mascara si era quasi del tutto sciolto e le colava sulle guance conferendole un aspetto a dir poco clownesco.
Ebbi un conato di vomito. Dovevo fuggire, e al più presto.
La lasciai alla sua isteria, al suo piagnucolare. Bestemmiava anche, per partito preso. Era sull’orlo d’un collasso nervoso, poco ma sicuro.
Aprii la porta e me la sbattei alle spalle: non se ne accorse neppure che ero uscito per sempre dalla sua vita. E però l’eco della sua voce mi inseguì lungo tutta la tromba delle scale. E mentre scendevo i gradini incontrai un negro ben messo, con la camicia verde aperta sul petto e la testa rasata: gli occhi erano bianchi, fin troppo, come quelli d’un cieco, ma quello ci vedeva benissimo. Me ne fregava niente di lei, del negro che glielo avrebbe presto messo in bocca o dabbasso.
Fuori l’aria era piuttosto fresca, nonostante la zona non fosse delle più raccomandabili: giravano marocchini, negri di ogni regione dell’Africa, qualche slavo, forse qualche musulmano. Gli italiani erano la minoranza fra quelle strade, proprio dietro Porta Palazzo. Camminai a piedi fino a poter scorgere a occhio nudo la punta della Mole Antonelliana: solo allora trassi un respiro che non era né di sollievo né di esasperazione.

Liliana la incontrai in agenzia. Venne insieme al marito, su appuntamento, per vedere un alloggio. Lui era un bel tipo, un moro, il tipico bravo ragazzo impiegato in una multinazionale milanese con uno stipendio da capogiro: ma a me interessava la sua giovane moglie, Liliana, una mista, di padre spagnolo e madre indiana. Una bellezza d’un ebano pallido, mozzafiato. Bastò un’occhiata per capirci. Il giorno dopo lei aveva già tradito il marito con il sottoscritto.

Liliana aveva poco più di vent’anni: si era sposata perché aveva trovato la cosa conveniente e divertente anche. Diceva di essere innamorata del suo uomo, Antonio, era però consapevole di mentire a sé stessa, altrimenti non mi avrebbe aperto le gambe subito.

Non ce li aveva i tacchi, d’altro canto non ne aveva bisogno: il suo era un corpo sodo e flessuoso, il suo era un culetto delizioso, alto, a forma di cuore, una pesca succosa.

Alla coppia mostrai un vero gioiello in zona Crocetta, proprio davanti al Politecnico: una villetta a due piani, ristrutturata. Liliana e il marito se ne innamorarono alla prima botta.
Torino non mi era mai sembrata tanto bella come in quel momento: ebbi persino la tentazione di tornare a credere che la vita fosse qualcosa di prezioso e inimitabile.
Antonio gironzolava nella villetta, gridando il nome della moglie. Liliana mi aveva nascosto in uno sgabuzzino e aveva chiuso la porta: non le ci volle molto per trovarmi la patta dei pantaloni e aprirmela, me lo stuzzicò delicatamente fra le dita… accarezzò con la punta delle dita il pelato, poi con le labbra baciò il glande una due tre volte. E quasi se lo inghiottì per intero: fu la fellatio più bella di tutta la mia vita. Il seme le irrorò la gola: “E’ dolce… è dolce… è dolce…”.
Sgattaiolò fuori, e solo in quel momento mi resi conto che indossava un delizioso vestito rosso, d’un rosso acceso, e scarpe dello stesso colore con un modesto tacchetto. Un vero bijou quel suo culetto perfetto che mi sorrideva.
Si voltò verso di me che resistevo nella penombra dello sgabuzzino ancora tutto eccitato: “Tu esci dopo… fra un po’… lo senti anche tu mio marito che mi chiama…”.
Le feci un cenno con la testa per farle capire che ero d’accordo. Poi Liliana mi chiuse la porta in faccia, con romantica delicatezza. Non riuscivo a dimenticare il sorriso del suo culetto che solo aspettava d’essere penetrato in profondità.

Le donne le ho sempre prese alla schiena, come fa il vento. Non mi è mai piaciuto metterglielo dentro, nella passerina. Non mi hanno mai preso la poesia, le coccole; e nemmeno i baci e gli abbracci l’hanno mai avuta vinta con me. A letto uno ci scopa, o si fa piangere quando morto sempreché qualcuno l’abbia a cuore, per odio o per interesse; non escludo però che qualche stupido possa piangere i morti perché nell’animo nutre una qualche obsoleta forma d’amore. Sia come sia, il punto è un altro: non c’è niente come il sederino d’una femmina, niente è paragonabile alla bellezza di un culetto sodo che se preso da una pioggia di schiaffi risponde subito con lieve rossore di pesca.


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