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IL POZZO DELLA SOLITUDINE

IL POZZO DELLA SOLITUDINE

Iannozzi Giuseppe

Era già trascorso un anno ed Emilia ancora pensava a Francesca, all’amica che, da un giorno all’altro, senza dire niente a nessuno, aveva fatto perdere le sue tracce per perdersi chissà dove. Le mancava Francesca, e le mancava quella sua bellezza un po’ particolare che la faceva sembrare un’attrice, come Constance Dowling. Senza di lei le giornate trascorrevano lente, piene d’un bel niente.

Passeggiare sotto i portici di Via Roma, in piena estate, era lavoro che la fiaccava tanto nel corpo quanto nello spirito. Nonostante l’ombra e le deboli carezze d’un venticello capriccioso, Emilia si sentiva bruciare dentro: quasi le mancava il fiato.
Alla fine, oltremodo stressata, entrò in una libreria, non perché fosse interessata a comprare, a leggere un libro per distrarsi, ma solo perché così avrebbe forse goduto di un po’ d’aria condizionata.
Dentro faceva fresco e c’era quasi nessuno a puntare gli occhi sugli scaffali ricolmi di libri.
Emilia si guardò intorno tenendo una mano sul petto, sperando che il senso di soffocamento scemasse.
Nessuno badava a lei. Non era una donna che attirava l’attenzione degli uomini, e neanche delle donne. Era lei una persona normale, fin troppo, e l’essere normale e basta era per lei una tara di non poco conto.
Un anno era volato via e di Francesca non aveva saputo più niente, nonostante si fosse adoperata in tutti i modi per sapere qualcosa dell’amica. Perché era fuggita? E dove?
Reggendosi il petto, prese a scivolare fra bancali e scaffali. Pensava a un tempo che non sarebbe tornato mai più, e più pensava alla felicità condivisa con Francy più le mancava il fiato.

Una vertigine la colse all’improvviso e suo malgrado fu costretta ad adagiarsi con le spalle contro uno scaffale di libri. Stava male, non poteva negarlo, e nessuno poteva aiutarla.
Il pozzo della solitudine di Radclyffe Hall cadde dallo scaffale dove Emilia si era appoggiata. Vuoi per la copertina, vuoi per il titolo dove campeggiava la parola ‘solitudine’, il libro attirò l’attenzione di Emilia.
Facendosi forza, con un mezzo inchino, raccolse il romanzo da terra. Lo aprì e prese a leggere a caso: “A ogni modo era una cosa bella, bella e buona. Avrei rinunciato mille volte alla vita per Angela Crossby. Se avessi potuto l’avrei sposata e l’avrei portata qui, con me, a Morton. Se io l’amavo come un uomo ama una donna, è perché non posso sentire che sono una donna. Per tutta la mia vita non mi sono mai sentita donna, e tu lo sai.”
Finito che ebbe di leggere quelle poche frasi, si sentì mancare.
Era dunque questa la verità? Forse che sì. Lei amava Francesca, l’aveva amata, l’aveva sempre amata e adesso, che non era più accanto a lei, si sentiva sprofondare. Non era affatto facile per lei ammettere che era lesbica.
Scoppiò a piangere calde lacrime.
Lo aveva ammesso. Finalmente lo aveva ammesso a sé stessa, per quanto la cosa le facesse male, perché lei si conosceva e mai e poi mai sarebbe riuscita a dirlo chiaro e tondo ad amici e familiari.
E non da ultimo, nei confronti di sé stessa, provava qualcosa di simile al ribrezzo.
Un uomo la avvicinò.
“Sta male?”
Emilia non gli rispose.
“Sta male?”, ripeté lo sconosciuto.
Una forza dettata dalla disperazione la spinse infine a rispondere: “Si faccia gli affari suoi.”
L’uomo ristette davanti alla donna per un paio di secondi, poi, scuotendo piano il capo, si allontanò.

Emilia teneva il libro sul petto reggendolo con entrambe le mani.
Era entrata in quella libreria solo per rinfrescarsi e basta, e adesso era in fila, quasi davanti alla cassa, per portare a casa un libro scandaloso. Chi l’avrebbe mai detto!
Davanti a lei c’erano cinque o sei clienti, forse di più.
“Dannazione!”, sbottò.
“Qualcosa non va?”, domandò severa la cassiera, sporgendosi un poco da dietro la cassa.
Emilia si morse le labbra a sangue: odiava essere rimproverata, però Il pozzo della solitudine lo voleva e non lo avrebbe lasciato, non così su due piedi. Voleva solo pagare e fuggire via dalla libreria, fuggire per leggere quel libro scandaloso al riparo da occhi indiscreti, magari sotto le fronde ombrose d’un parco pubblico, su una panchina.
Strinse a sé il libro schiacciandolo contro i seni; e subito una vampata di calore le morse le gote.
Ancora le mancava il fiato, però, in quel dato momento, era più forte il desiderio di portar via con sé il libro della scrittrice lesbica che non la paura di fare una figuraccia, magari svenendo.
Dietro di sé qualcuno tossì.
Emilia si voltò.
Era l’uomo che le aveva chiesto se stava male. Sembrava un ebreo.
“Mi scusi”, disse lo sconosciuto.
“Anche lei non sta bene”, sparò tutto d’un fiato Emilia, facendosi subito pallida pallida.
“Sto bene, è solo che l’aria condizionata mi fa questo effetto.”
Prima che potesse rendersene conto Emilia si trovò fra le braccia dello sconosciuto: “Lei non sta bene davvero invece.”
Emilia non ribatté. Non fosse stato per quell’uomo, poco ma sicuro che sarebbe rovinata a terra.
“Chi è lei?”, pigolò.
“Uno, nessuno e centomila.”
“Che spirito di patata!”. E svenne.

“Riprende i sensi!”, “Qualcuno chiami un’ambulanza!”, “E’ solo svenuta!”…
Emilia riprese i sensi circondata da un capannello di curiosi.
“No!”, gridò.
“Sta bene?”
“Sto bene”, si affrettò a dire Emilia, anche se non era affatto vero.
Provò a tirarsi in piedi, ma una debolezza mai provata sino ad allora la fece presto scivolare fra braccia sconosciute.
“Forse è meglio chiamarla l’ambulanza”, disse l’uomo che la sorreggeva.
“Ho detto di no. Si faccia gli affari suoi”, gridò Emilia, manco la volessero portare al macello.
Lo sconosciuto, già impacciato di suo, si sentiva in forte imbarazzo; quella donna, chiunque fosse e di qualunque male soffrisse, con la testa non ci stava, questa l’opinione che si era fatto.
“Lascia che ci pensi io”, intervenne Pietro, un commesso che Giacobbe conosceva bene.
Giacobbe lasciò la donna alle cure di Pietro, poi passò oltre, arrivò alla cassa, pagò i libri e uscì dalla libreria.

Seduta su una panchina, Emilia leggeva la Radclyffe esplodendo ora in un pianto, ora in una risata grottesca, mentre un crepuscolo sanguigno, pienamente agostano, tingeva la chiesa della Gran Madre di Dio e Piazza Vittorio Veneto.


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