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Rondine: una stagione all’inferno

Rondine: una stagione all’inferno

Iannozzi Giuseppe

La Rondine, da cielo a cielo: e fu morta primavera.

Il sole splendeva, ed era come se non fosse. Era più vecchio di quanto fosse disposto ad ammettere.

* * *

“Se non credi nel mio sorriso, Rondine, dove il tuo amore volato via?” A questo interrogativo, Tadzio non sapeva dare una risposta. La domanda era paradiso senza felicità che gli si era ingolfato nell’anima.
Il cimitero coi suoi grigi avelli s’accompagnava al passo stanco del visitatore: sempre posava lo sguardo su un epitaffio, lungamente, poi passava oltre. Ma nel cuore le immagini dei defunti giacevano in un’orgia di dolore. Cercava la sua rondine, un po’ di quella fragilità in volo che lei gli aveva regalato: per pochi giorni immensa felicità. Non riusciva a rassegnarsi che tutto fosse finito.
Fra le trame delle negre nubi gli parve di scorgere il profilo di lei. Ebbe un tuffo al cuore: una lama di luce squarciò il sudario e illuminò una tomba. Era vecchia di almeno un secolo: Tadzio l’osservò rapito. La tomba era deserta, nuda di fiori: e però, anche nell’abbandono, trasudava impotente nobiltà ferita. Era lì sepolta una giovane mortificata dal colera. La foto ritraeva una giovinetta pallida pallida. L’ovale del viso era perfetto: una bellezza rara, angelicata; e negli occhi un dolore insostenibile e muto; e sulle labbra nessun sorriso, solo i lunghi capelli leonini tradivano un sentimento di ribellione ma impotente. La morte non era riuscita a dissanguare completamente l’anima di quella giovinetta sì pallida. Si domandò chi potesse essere: il nome non gli diceva nulla, ma quei capelli ribelli gli ricordavano Rondine. Anche lei amava i capelli al vento: li teneva scomposti, lunghi, mai legati. Era così fragile! Dio, quant’era bella! E innocente.

* * *

“L’eau des bois se perdait sur des sables vierges,/ Le vent, du ciel, jetait des glaçons aux mares…/ Or! tel qu’un pêcheur d’or ou de coquillages, /Dire que je n’ai pas eu souci de boire!” (*) Amava questi versi perché lei amava ripeterli a lui.

La conobbe in un giorno di sole: lei sedeva sull’erba verde. Perché mai una simile bellezza se ne stava da sola? L’avvicinò tutto timido e si sedette accanto a lei. Un colpo di vento le commosse i capelli: erano d’un rosso accesso, come una stagione all’inferno. Ma la pelle era d’alabastro, non una efelide o un neo: bianca e pura, delicata come quella d’un angiolo.
“Hai mai letto Rimbaud?”
Tadzio accennò di sì con la testa, subito arrossendo.
Lo baciò mentre lui ancora cercava di riprendersi dallo stordimento di stare accanto a una creatura tanto preziosa: tosto che l’aveva vista se n’era innamorato. La sua bocca era il sapore delle rose appena sbocciate. Per un momento ebbe la sensazione che il cuore gli si potesse fermare in petto tanta era l’inaspettata felicità.
“Perché?”
Lei esplose in una risata cristallina, mentre il cielo, repentinamente, s’annuvolava. Un vento gelido li avvolse, e il volto della fanciulla fu del tutto schermato dai capelli rossi e ribelli. Continuava a ridere: la felicità degli angeli. La pioggia aveva preso a cadere grossa.
“Dovremmo ripararci…”.
Lei gli sorrise con innocenza: pareva quasi che non le importasse di bagnarsi. Seguì il ragazzo che aveva baciato, perché trovasse un riparo che fosse per entrambi. Aveva voglia di fare all’amore…

* * *

Presero a frequentarsi. Parlavano del più e del meno, e spesse volte di poesia. Tadzio, in adorazione, si lasciava trasportare dal turbinio delle sue parole. Qualche volta ci provò a scriverle delle poesie, ma lei le leggeva e rideva, rideva come quando l’aveva incontrato. Come quando l’aveva baciato, perché gli faceva tenerezza: era un bambino che giocava a fare l’uomo. Non ci era riuscita a cambiarlo. Che restasse pure bambino a questo punto! Tadzio non s’offendeva: sapeva di non essere un poeta e che l’ingenuità era in ogni suo verso. E però ogni verso, che strappava dalla sua anima, era un pezzo di cuore che regalava a lei. E lei lo sapeva, e rideva.

Un giorno stavano di fronte a una vetrina a osservare dei libri antichi e preziosi, rari: il sole splendeva e tutto era quiete, e loro una coppietta innamorata. A un certo punto, Tadzio portò lo sguardo al cielo e vide una rondine: bellissima, fragile, eppur sicura di sé. Viaggiava il cielo immenso, e le ali, apparentemente inadeguate, la tenevano in volo: era rapida, un battito di ali perfetto ch’era poesia in volo. Tadzio quasi poteva sentire il battito di quel cuore piumato nel suo; la rondine continuava a viaggiare il cielo, poi scomparve alla vista; si allontanò verso un dove che Tadzio immaginava potesse esser solo il Paradiso in Terra. Fu allora che si dispose a capire: la giovinetta che amava era Rondine. L’aver trovato quel delicato soprannome per l’amata lo colmava di gioia, perché poesia migliore, anche volendo, non sarebbe stato capace di dedicarle. Chiamandola Rondine, Tadzio diceva all’amore femmina tutto quello che i suoi ingenui versi erano incapaci d’esprimere.

* * *

“Non mi puoi lasciare ora!”
Tadzio era sconvolto. Non se l’aspettava proprio. Il cielo gli franò dentro. E il buio l’avvolse.

Il giorno dopo, Rondine non era più al suo fianco. La cercò disperatamente, con l’affanno d’un assassino innamorato. Di lei neanche l’ombra: pareva che la terra l’avesse inghiottita. Perché? Perché l’aveva abbandonato quando tutto era perfetto? Non riusciva a farsene una ragione. Semplicemente l’aveva lasciato a sé stesso con l’amore ancora in petto, pulsante. Ed era malattia il cuore che pulsava inseguendo ritmi irregolari fra le calli. Ed era un cuore che pulsava, che pulsava di veneziana morte. (**)

* * *

La rondine, da cielo a cielo: e fu morta primavera. Era invecchiato tutto d’un colpo: non c’era più alcuna ragione perché continuasse a vivere ora che Rondine non era più insieme a lui.
Perché ramingasse fra i cimiteri non lo sapeva bene neanche lui. Forse un istinto di distruzione lo consumava spingendolo a investigare la morte, per averla come ultima sua sincera compagna. Ma poteva esser vero anche il contrario: nella morte cercava di scoprire un barlume di vita, la felicità perduta… nei muti volti delle fotografie di chi più non è la felicità perduta. No, non era il contrario. Eppure non poteva fare a meno d’illudersi.

Venne giù un temporale, prese allora a correre per ripararsi dalla pioggia.
Tornò presso quella tomba che l’aveva affascinato. Là trovò riparo, sotto un albero frondoso ormai prossimo a morire e nella terra radicato. Ricordò quando fece per la prima volta l’amore con Rondine, quando ancora non le aveva regalato quel poetico nomignolo. Si lasciò cadere a terra, stanco. No, non poteva continuare così.
Piangeva. “Mi son dato pensiero di bere, ma dove ora l’amore? E il mio sorriso?” Nessuna la risposta.
Una volta Rondine gli aveva detto: “Le lacrime scavano la pietra, anche la più vetusta. Il pianto degli uomini penetra a fondo, dentro. E non c’è nulla che l’uomo possa fare.”
E lui, con ingenuità bambina, aveva ribattuto: “Tu credi nel mio sorriso?”
“Quanto poco sai delle donne.”
“Perché dici così?”
“Perché ti amo. Ma il sorriso non è una fede.”
“Però ti piace…”.
“Anche Lucifero sa sorridere. Come un bambino. O come un uomo.”
“Che intendi dire?”
“Sempre domande, sempre domande su domande, Tadzio.”
E scoppiò a ridere, divertita, ed era sempre la felicità degli angeli che s’apriva nella sua virginea gola. Tadzio non capiva. Lei gli era superiore: sapeva molto della vita, più di quanto lasciasse a intendere. E però quant’era casta! Non era mera apparenza. Avrebbe potuto macchiarsi di mille peccati mortali e rimanere sempre così, pura.

Il temporale terminò e Tadzio stava ancora accucciato a terra. Non aveva che domande in testa.
Si alzò, stanco e sconfitto. La pioggia aveva lavato via lo sporco dalla tomba: adesso era più bella e inquietante. Tornò a osservare la foto: non c’era più. La pioggia doveva averla strappata via con la sua furia.
No, no, la foto c’era ancora. Era quasi del tutto sbiadita, irriconoscibile. Eppure dei tratti erano ancora visibili. Era sufficiente avvicinarsi, porre attenzione nell’occhio. Sorrise strano: nelle vene spirito di vino dissanguato del colore. Del sapore.

* * *

Rondine era bella, come sempre, una stagione all’inferno.
Passeggiava fra le tombe con assoluta sicurezza: una rondine, una femmina sicura di sé, sempre vergine, in ogni caso e situazione. Nonostante fossero passati parecchi anni, Tadzio, nella foto, conservava ancora la folta capigliatura leonina che un po’ tanto lo faceva Rimbaud. Peccato che del genio poetico del poeta maledetto non avesse nulla. Se solo fosse stato poeta, lei avrebbe potuto concedergli il dono dell’eternità. Dell’amore eterno. Ma poeta non lo era stato mai, solo era stato un uomo bambino che per lei aveva trovato un nomignolo simpatico, poetico, Rondine. Non era utile il sentimento poetico in petto nutrito per salvarlo dal colera. “Se solo…! Avrei potuto farti dono d’un tumore, d’una gamba amputata. Dell’eternità. Dell’amore. Se solo…!”

(*) Larme, Mai 1872, “Derniers Vers” – Arthur Rimbaud
“L’acqua dei boschi si perdeva in sabbie vergini, il vento scagliava dal cielo ghiaccioli ai pantani… E dire che, come un pescatore d’oro o di conchiglie, non mi sono dato pensiero di bere!”
(**) Allusione a “Morte a Venezia” di Thomas Mann

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