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Sognando Henry Miller

Sognando Henry Miller

Iannozzi Giuseppe

“Essendo che l’amore è una frottola, l’uomo merita ogni morte che gli accade per sua mano. Però non c’è niente di più banale e noioso… guardare un uomo che muore sotto i vostri occhi…”.
Muovo via. Stanco. Si sta quasi bene, nonostante l’inverno e l’aria fredda. Sempre meglio che davanti a quelle gatte morte. Leggere in pubblico non è niente di speciale. E’ un po’ come lasciarsi spiare mentre ci si masturba. Fumetti nell’aria, fiato caldo in bocca, gola infiammata: metto fuoco a una sigaretta. Due boccate, una dietro l’altra.
Nervoso. La gente mi scivola accanto, getta occhiate rapide: qualcuno mi riconosce, i più no.

Un bilocale: il mio coinquilino è sui quarantacinque, senza lavoro, arriva a fine mese con la lingua fra i denti, come un cane rabbioso ma impotente. Non camperà a lungo: un giorno darà di matto e ammazzerà qualcuno per cinque minuti di celebrità. O si impiccherà. O si sparerà. Butto un’occhiata dentro: Daniel resiste accasciato Sul Divano. Una bambola di pezza ha più vita di lui. Raccolgo una bottiglia: vuota. Gliela metto sotto il naso. Daniele non la guarda, fissa il vuoto. Una bambola di pezza. Mi chiudo la porta alle spalle, fortemente perché si senta chiaro e netto che sto uscendo. Fuori è ancora freddo: c’è che è notte anche. Mi trascino lungo le cancrenose strade di Torino. Senza una mèta. I lampioni sono alti, sfiorano il cielo nero. Vorrei essere più alto di loro, ma non è possibile. Entro in un locale… un bar di quart’ordine: fa un caldo del diavolo, così mi tolgo la sciarpa. Siedo al bancone, ordino una vodka. Mi viene servita in un bicchiere a collo stretto: la cameriera è generosa, mostra tette sode e giovani. Non è bella. E’ una puttana. Ce l’ha scritto in faccia. E non si vergogna di essere una di quelle. Le labbra sono rosse, eccessivamente: colpa del rossetto. Attacco bottone, le dico di Daniele, e ridiamo di lui, insieme. E’ tardi. Mi faccio dire il nome: me ne dice uno, e lo dimentico. La chiamo Lucia: a lei sta bene. Mi chiede di me: le racconto qualcosa. Apre la bocca, fingendosi sorpresa. Vuole sapere quanti anni ho: glielo dico. Non rimane delusa: è una ottima attrice. Mi confessa che solitamente la smolla solo a quelli più giovani di lei: ama portarsi a letto gli imberbi per succhiarglielo fino a farli restare senza fiato. Rido. Ma per finta. Non sono divertito. Le confesso che a me la fica non mi attira. Glielo sputo in faccia che a me mi piace metterlo in culo alle femmine. Lei non ribatte. Rimane in silenzio. Finge di essere un poco stordita dalla rivelazione. Allora sto al gioco e le spiego che il sesso anale è per la morte, con o senza profilattico. Il sesso fatto nella fica è invece per la vita: i profilattici fallati sono fatti così apposta.
E’ tardi: siamo i soli in strada. Troviamo un angolo, uno buio: glielo infilo dentro, in culo, ripetutamente. Lei lo prende: è ben abituata, non mugola. Né dolore, né piacere. Devo darci forte per strapparle un “Ah!”. Il mio seme muore nel suo retto. Un po’ scivola via, fra le sue gambe. Mi svuoto la vescica. La sua pancia adesso è gravida, le fa male. Continuo a tenerglielo dentro. Adesso lo sente il dolore. Suda freddo. Non può liberarsi né della sua merda né del mio cazzo. Bestemmia. Prega che la lasci andare. Le dico che non è possibile. Prega che la lasci perché non le piace più. Glielo ripeto che non è possibile. Minaccia di mettersi a urlare. La minaccio a mia volta, allora si decide a tener vivo un rassegnato silenzio. Continuo. Vengo. Sento che si sta sgonfiando. Sono costretto a tirarlo fuori. Lucia: la sua faccia è nelle lacrime. Il rossetto rosso è disfatto. Si lascia andare. Scarica tutto, piangendo. La lascio da sola. Non ho più bisogno di lei. Non ne ho mai avuto bisogno.

Infilo la chiave nella toppa della porta. Entro. Daniele è ancora sul divano. Respira appena. Pare morto. Ma non lo è. Il televisore acceso dorme davanti ai suoi occhi chiusi. Lo scuoto, prendendolo per le spalle. Mormora qualcosa. Spengo la tv. Prima o poi farà una cazzata, poco ma sicuro. Trovo il mio letto. Mi spoglio, velocemente. Mi addormento.

E’ un altro giorno. Ho un altro reading: verranno soltanto gatte morte, come al solito, sicuramente. Daniele è sul divano, rannicchiato in posizione fetale. Non ci provo a svegliarlo. Ho quasi pietà di lui. E’ solo un povero vecchio sfigato. Ma un giorno avrà i suoi cinque minuti di celebrità… peccato che non potrà goderseli. Finirà in televisione perché morto sotto il fuoco della polizia. O perché trovato stecchito e ammuffito sul divano. Spero solo non lasci tracce di sangue: non mi piace pulire.

E poi c’è che odio leggere in pubblico.

Facce. Facce su facce, piatte. Sorrisi, finti, dipinti. Gatte morte. Davanti a me. Inutili. Come Daniele. Tra il pubblico uno gli assomiglia. Potrebbe essere lui. Non è lui. Però è uguale a lui. Si dice che a questo mondo ogni uomo abbia un suo doppio, un suo gemello. Non ci ho mai creduto. L’immaginazione è capace di dare corpo anche all’impossibile. Non ne ho mai avuta molta, di immaginazione. Deve essere uno che gli assomiglia molto, per quanto strano possa sembrare. Uno scrittore non dovrebbe essere avaro di immaginazione: per me vale che racconto solo quello che vedo. Non immagino per scrivere. Scrivo soltanto se ho dei corpi davanti agli occhi. Diversamente non mi sarebbe possibile. Non so inventare, non so immaginare. Le storie sono nella realtà. Solo questa conta.
Si porta una mano al cuore. Se lo regge. Se lo strappa, proprio mentre sto leggendo. E’ rosso in volto. Si fa presto bianco. Gli manca l’aria. Gli manca il sangue, l’ossigeno. E’ preso in vertigine. Gli altri non si sono accorti di lui. E’ in mezzo a tutti. E’ preso in mezzo al pubblico ed è come se non esistesse.
Tutti mi fanno gli applausi. Le mani sembrano nacchere. Vanno a ritmo sincopato. Scimmie e ghigni. Che pubblico divertente! Se solo non fossero così insignificanti.
Che fa? Stramazza al suolo.
Nessuno si è accorto di lui. Non esiste. Sta morendo. E’ noioso. E’ noiosa la morte, anche quando si manifesta in pubblico per dare spettacolo. Non ce la fa proprio. Si prodiga in smorfie assurde sulla faccia di quello lì. Ma nessuno le presta attenzione. E’ noiosa la morte. Si è fatta vedere in giro, a ogni occasione, come una stella del cinema, come Marilyn Monroe. Tutti ne hanno avuto abbastanza, in tutte le salse. Continuo a leggere: “Questo non è un libro. E’ libello, calunnia, diffamazione. Non è un libro, nel senso usuale della parola. No, questo è un insulto prolungato, uno scaracchio in faccia all’Arte, un calcio alla Divinità, all’Uomo, al Destino, al Tempo, all’Amore, alla Bellezza… a quel che vi pare. Canterò per voi, forse stonando un po’, ma canterò. Canterò mentre crepate, danzerò sulla vostra sporca carogna… Per cantare bisogna prima aprire la bocca. Ci vogliono un paio di polmoni, e qualche nozione di musica. Non occorre avere fisarmonica, o chitarra. Quel che conta è voler cantare. E dunque questo è canto. Io canto”. ( * )
Volto una pagina dopo l’altra. Leggo meccanicamente. Ce ne mette a morire. E’ attaccato alla vita, troppo. Continuo a leggere, a girare le pagine. Sono qui per questo. Un reading. Quando il mio agente mi ha detto che avrei dovuto fare dei reading gli ho riso in faccia. Non mi capacitavo. Ma il mio agente conosce bene il suo lavoro: ha detto che sono tornati di moda. Non ho mai fatto caso alle mode, ai soldi sì. Pagano bene perché legga davanti a un pubblico che non capisce un cazzo né capirà mai la profondità della realtà che ho resa eterna nelle pagine del libro che porta il mio nome e cognome.
Si contorce. Non ha rispetto per le parole. Vorrebbe tutta l’attenzione per sé. Ha chiamato persino la morte in suo soccorso. Imbecille. Imbelle. E’ per tipi così che odio leggere in pubblico. Non fosse che mi pagano, avrei già tagliato la corda. Adesso sbava: sporcherà, me lo sento. Tutta quella saliva che gli esce dalla bocca… E’ noioso. E’ noiosa la morte che prende possesso di un uomo. E’ troppo noioso l’uomo che si lascia prendere dalla morte per mettersi al centro dell’attenzione. E’ un trucco vecchio. Non funziona più.
Chiudo il libro. Nessuno dice niente. Prendo l’uscita. Avrò letto per cinque minuti buoni, non penso di più. Tutti restano ancorati ai loro posti, a masturbarsi senza di me, senza il lettore, senza l’autore. Fuori fa freddo. E’ ancora inverno.
La incontro. E’ Lucia. Ha la faccia, la solita. L’avvicino. Mi fissa per un attimo. Rabbia. Dolore. Non le dico niente. Prendiamo a camminare insieme. Tenta di prendermi sottobraccio. Ha già dimenticato. E’ inverno. Fa freddo. Non mi piace la gente che si prende delle libertà con me. Glielo dico: “Io le libertà le impongo. Non le subisco”. Lucia capisce. Lo sa come andrà a finire. Sa benissimo che questa seconda volta la tratterò allo stesso modo della prima, se non peggio. Le deve stare bene. E’ una così, una puttana.

Rincaso. In mano tengo le scarpette rosse di Lucia. Sono così leggere, fuori stagione.
Daniele è sul divano. E’ sveglio. Fa il gentile, mi chiede del reading. Lo liquido subito dicendogli che meglio non poteva proprio andare. Ci crede. E’ fatto così, male. E’ vecchio. Ha quarantacinque anni e nessun futuro davanti. Gli passo davanti. Mi siedo accanto a lui. Gli butto sulla patta dei pantaloni le scarpette di Lucia. Le prende con due dita. Non fa domande. Le osserva. Da come le guarda capisco che gli piacciono. Sono sicuro che se solo avesse un po’ di coraggio se le proverebbe davanti a me. E poi mi chiederebbe consiglio. Ma è un pavido, così le butta via, in un angolo del divano, dove giacciono un cuscino e una barbie mutilata.

( * ) Henry Miller, incipit da “Tropico del Cancro”


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