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In osservanza degli augures


Nell’italiano letterario, soprattutto d’uso poetico, augure è un aggettivo che significa “di buon auspicio”. In un tempo di profonda comunanza spirituale con i fenomeni della natura, di fatale immedesimazione nei miti di uomini e dèi, figure favolose e prodigi destinati a scritture oracolari o alle sante prime codificazioni del diritto pubblico e privato quali le XII tavole, incuneate non a caso nell’epigrafe dei foscoliani Sepolcri [Deorum Manium iura sancta sunto], hanno disegnato i tratti fondanti dell’antica Roma. Sacri recinti, alberi benedetti, boschi abitati dalla divinità, inumazione di pietre o manufatti toccati dal fulmine, fonti protette da solitarie ninfe, ombre e altre ineffabili presenze negli horticustoditi dai Lari, le nuvole, il vento, il fluire delle cose da cui accogliere segni augurali. Fu questo un mondo di spiriti e poesia e creature vicine all’essenza dei cicli che regolano la nostra vita terrena, menti rivelatrici di quanto la modernità ci avrebbe tolto, «il riverbero di una luce votiva» per dirla con Heidegger, cui l’arido della tecnica, la freddezza del nuovo mondo non avrebbero lasciato scampo.

Nei pressi del comizio romano, il primo foro, si narra vi fosse un luogo recintato per il culto, ove sorgeva un fico anch’esso consacrato, pianta ritenuta in concordia coi fulmini. Qui venne eretta la statua di Atto Navio, l’indovino ammantato di un’aura leggendaria nel quale alcuni vollero vedere la lotta fra l’antica comunità teocratica latina e la nuova monarchia dei Tarquinii (Livio, I, 36; Dionisio, III, 71 seg.; [Aurelio Vittore], De viris illustribus, 6). Sacro e profano, il mutamento negli assetti di un organismo comunitario che passa dolorosamente per la profanazione dell’antico. Ma pure in tale profanazione i resti sono ancora palpitanti e sprigionano la forza che possedettero nella loro integrità. Chi li avvicina, sente e presente la materia che li ha animati, cosicché sfiorandoli la loro energia trasmigra nei corpi assetati che sono ancora in cerca di quell’autentico, del senso che non è andato perduto ma solo giace in attesa. E noi siamo ora più che mai su quella soglia, frammenti in bilico che potrebbero accendersi di una sorte presaga, ritrovandoci in un dopo finalmente liberato, ricomposto, autentico.


Seguendo la mappa dell’antico, Alessia Rovina ci conduce attraverso la liminalità dell’auspicio, riflettendo sulla mutazione necessaria, sulla capacità di cogliere in questa metamorfosi gli indizi che salvano, per una consapevolezza della rotta da tenere nelle prove che abbiamo di fronte.


(Di Claudia Ciardi)


I miei auguri, i miei auspici

Di Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»

 

Auguri, auspici: due facce della stessa medaglia. Altre due roccaforti di uso quotidiano in cui i nostri Latini sono riusciti a stabilirsi, osservando da vicino quanto della loro sacralità sia rimasta in noi. Gli augùri, per noi, sono un sostegno fondamentale alla ritualità che distingue i grandi eventi: il Natale, la Pasqua, i compleanni, le tappe familiari e lavorative della vita di ognuno. D’altro canto, gli augures latini altro non erano che i grandi sacerdoti preposti all’interpretazione dell’augurium: il segno con cui gli dèi davano la possibilità di conoscere il loro responso in merito agli interrogativi umani, quali scelte, decisioni, in fin dei conti quale destino spettasse a ciascuno. Un destino che ognuno di noi immagina e desidera il più fulgido possibile, e a buon diritto: augurium è infatti stretto parente del verbo augeo, il verbo del titolo imperiale di Augustus, il cui significato precipuo è «far crescere», «far diventare grande», dunque «far riuscire». Questo continuo compimento umano verso una grandezza interiore, e dunque verso la piena maturità, poteva essere interpretato dai sacerdoti mediante l’auspicium: la visione attenta – spectare – del volo degli uccelli – aves – oppure mediante lo studio delle interiora animali; non ci sono altre vie al proprio destino di grandezza: la percezione attenta dell’Alto, la percezione attenta del Dentro, dunque del Basso. In questo particolare Natale, Alto e Basso sembrano pericolosamente disfarsi, e confondersi in un indistinto e tetro garbuglio. Una festività tanto fondamentale, di nascita, è più che mai annodata con il termine ultimo della Vita, e parrebbe inutile celebrare questa ricorrenza. Io non penso che sia così. Credo che l’umano dentro di sé porti una bellezza tanto grande e complessa, e che meriti di poter scegliere consapevolmente ogni giorno una via degna di tale tesoro, con i mezzi che ciascuno di noi dispone, e andando anzi a colmare, a «far crescere» la bellezza di chi, in sé e nel mondo, non la vede. Vorrei concludere questa nostra riflessione con un brano estremamente importante di Italo Calvino, autore magnifico che merita una rilettura continua nel corso della nostra vita, nella speranza che ad ognuno possa dare un fascio di luce dorata ed abbacinante, da riconsiderare ogni giorno.

«Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World. Dice: - Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente. E Polo: - L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Italo Calvino, Le città invisibili, 1972

A tutti noi il mio augurio: di far crescere ciò che non è inferno, in noi e nel mondo, ogni giorno!

(Di Alessia Rovina, classicista e studiosa di teatro, novembre 2020
account twitter: @rovina_alessia)




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